L'Attrazione per le Storie di Killer in Viaggio: Statistiche e Psicologia
Le serie, i film true crime (la cronaca nera “raccontata” sotto forma di intrattenimento) così come i podcast, sono tra i contenuti più popolari negli ultimi decenni. Le piattaforme di streaming offrono una vasta gamma di titoli che spaziano dai classici noir a docuserie su crimini realmente accaduti: facciamo l’esempio di “Per Elisa” sul caso Elisa Claps, ma anche di “Monsters” che affronta la storia dei fratelli Menendez.
Perché siamo attratti dalle storie di omicidi?
Ma cosa spinge le persone ad essere attratte da storie di omicidi, processi e investigazioni? Inoltre, i contenuti crime, in particolare quelli che rappresentano eventi drammatici o violenti, innescano una forte risposta emotiva nello spettatore. Guardare queste storie può provocare un rilascio di adrenalina, simile a quello che si prova durante un film horror.
La fascinazione per la mente criminale
Molte persone sono spesso affascinate dalla mente dei criminali. Ma cos’è il male? Perché commettere un crimine così terribile come un omicidio? Attraverso le serie true crime possiamo provare a capire le dinamiche mentali e sociali che portano alla devianza. Questa curiosità per l’”altro” è anche un modo per definire meglio noi stessi: esplorare il lato oscuro della mente umana ci fa riflettere su ciò che è giusto e sbagliato, e su quanto siano sottili i confini tra la normalità e l’anormalità, o meglio: su cosa è considerato normale e cosa non. Soprattutto, ci permettono di capire che non è sempre tutto o bianco o nero, anzi; per la maggior parte della nostra vita il colore nel quale nuotiamo è il grigio, con tutte le sue sfumature. Guardare queste storie è come avventurarsi in una zona d’ombra della mente umana, dove possiamo affrontare questi temi senza conseguenze dirette.
Empatia e giustizia
Nonostante il focus spesso sia sul criminale, un altro motivo per cui le persone sono attratte dai racconti crime è il desiderio di capire e immedesimarsi con le vittime e i loro familiari. Molte serie raccontano le storie dal punto di vista delle vittime o delle persone coinvolte, mostrando il loro dolore, la loro rabbia e il loro desiderio di giustizia. Secondo la psicologa Amanda Vicary dell’Università dell’Illinois, questo porta gli spettatori a sentirsi più vicini alla storia, creando un legame empatico con chi ha sofferto. Guardare la risoluzione di un caso e vedere i colpevoli essere assicurati alla giustizia può dare un senso di sollievo e chiusura, quasi come se la vittoria del bene sul male fosse una forma di riscatto morale (Kurland, Johnson & Tilley, 2014). Ma quando questo non succede? La risposta è sì, soprattutto nel momento in cui il passato di quest’ultimo è traboccante di esperienze traumatiche e abusi. Ma anche qui tocca fare attenzione, perché il confine tra comprensione e giustificazione a volte può essere molto sottile.
Il ruolo del genere e della cultura
L’interesse, o anche la maggiore presenza del genere femminile nel true crime, può derivare da fattori sia culturali che psicologici. Osservare gli eventi che ci circondano implica il provare a comprenderli. Inoltre, il modo in cui viene narrata la violenza può variare a seconda dell’osservatore. Le storie (si, anche quelle di true crime) ci offrono insegnamenti su come affrontare la vita e coesistere nel mondo; questa rappresenta una delle più importanti responsabilità per chi crea narrazioni. Attraverso il consumo di queste storie, le donne possono confrontarsi con la fragilità dell’esistenza femminile sentendosi profondamente coinvolte.
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Il fascino del male e la ricerca di significato
Potremmo pensare di aver superato il genere slasher (violento, incentrato sulla figura di un assassino seriale), ma l’attrazione per la rappresentazione della violenza rimane. Le vittime del true crime sono, proprio come le babysitter nei film horror, destinate a un finale cruento. La differenza è che le seconde sono frutto di fantasia, mentre le prime sono reali. Le nostre esperienze si intrecciano con le vite e le morti di questi personaggi, trasformandoli in riflessi delle nostre ansie e vulnerabilità, cercando di capire e di dar loro voce tramite una propria narrazione. Ma è solo questo il motivo? Il male ha il suo fascino, ma perché? Potrebbe essere l’attrazione di capire quel qualcosa che è talmente lontano da noi da volerne analizzare i meccanismi alla base. Perché ha fatto questo? Fino alla curiosità se nella sua vita deve essere successo qualcosa che l’ha portato a uccidere. Ci deve essere per forza un motivo per noi, è nella natura umana cercarlo. Ed ecco che allora si scoprono traumi e abusi infantili che, in un perverso effetto a cascata, portano l’assassino a cercare vendetta quando è più grande, in persone che sono più deboli di lui. Ma parlando di Serial Killer, si potrebbe aprire un mondo di discussioni.
"The Killer" di David Fincher: Un esempio cinematografico
Un esempio emblematico di film che esplora la figura del killer è "The Killer" di David Fincher. Il protagonista, un killer professionista, si trova ad affrontare imprevisti che lo costringono a improvvisare, con conseguenze sanguinose. Parte, nella sua precisione analitica e metodica filosofeggiando sul capitalismo odierno. Un uomo senza nome, pronto a colpire il suo bersaglio inganna il tempo tra stretching, riflessioni.
All'inizio del film, Fincher filma la quotidianità del suo protagonista con la medesima precisione dei suoi metodi, usando le inquadrature come pezzi di un puzzle che poco alla volta dovrebbe comporre l'immagine di un omicidio commissionato e da portare a termine. Ma come dice ancora la voce narrante, per rovinare un puzzle basta togliere un paio di pezzi e nel momento in cui qualcosa va storto, l'ordine del mondo si spezza: il killer è costretto a riprogrammare il suo lavoro, e di conseguenza anche il film cambia passo e genere passando dal racconto dell'esecuzione di un omicidio al revenge movie. Chi ha tradito? Chi ha fatto da intermediario? Chi ha eseguito? Chi ha dato l'ordine? Il killer risale la catena di responsabilità fino al suo punto d'inizio facendosi strada tra un ostacolo e l'altro, un omicidio e l'altro. Implacabile e senza emozioni («I don't give a fuck», è il suo motto), il killer anonimo vendica l'estrema e asfissiante visibilità del mondo, la sua costante tracciabilità (come tutti anche lui usa Amazon, carte di credito e puntatori digitali), ripercorrendo il tragitto inviolabile della committenza e muovendosi con precisione tecnologica, intrappolato in un processo continuo di clienti ed esecutori a cui non è possibile mettere fine.
Del resto, è proprio l'anonimità del killer, la sua grigia infallibilità, a fare del killer un perfetto mezzo del sistema: come gli dice una delle sue vittime (interpretata da Tilda Swinton, «simile a un cotton fioc»), la ragione per cui incontra i suoi bersagli prima di farli fuori è per essere rassicurato; per sapere che il mondo ha ancora un ordine e che l'ostacolo «tra il suo sguardo e il traguardo», cioè tra la pallottola e l'obiettivo, è stato definitivamente rimosso.
Ironico, metodico, implacabile: la preparazione per lui è tutto. Quando però accade l'impensabile, ovvero sbaglia, deve improvvisare, con conseguenze sanguinose. Un killer professionista si trova a Parigi, in attesa che il bersaglio si presenti nel luogo che da giorni sta sorvegliando. Abituato a una vita monotona, basata sulla programmazione, l'attesa, la noia, l'attenzione ai dettagli e la totale assenza d'empatia, l'uomo si trova improvvisamente a dover cambiare piani quando compie un inatteso passo falso. Come potrà sparire dal luogo del delitto imprevisto? In cinque capitoli e altrettanti luoghi (Parigi, Santo Domingo, New Orleans, New York, Chicago), più un epilogo ancora nella Repubblica Dominicana, Fincher costruisce un revenge movie dalla precisione geometrica. Il protagonista di The Killer - un Michael Fassbender inevitabilmente e perfettamente monocorde - è uno Sciacallo dei nostri giorni: un uomo invisibile che invisibile non può essere, consapevole come tutti di essere ripreso, registrato, tracciato, decodificato dalla tecnologica di cui il mondo di oggi è disseminato.
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La paura del viaggio e le vacanze mortali nel cinema horror
Qualcuno è già partito per le vacanze, altri le stanno programmando e altri ancora se ne resteranno a casa. Solo questi ultimi, staranno al sicuro. Secondo gli autori dell'horror, andare in ferie o anche solo viaggiare verso la meta prefissata porterà quasi sicuramente sventura a voi e ai vostri cari. Sono migliaia le pellicole dell’orrore e i thriller che ritraggono allegre famigliole, gruppetti di amici, coppie di turisti e viaggiatori solitari avventurarsi per una vacanza all’insegna del divertimento e imbattersi in maniaci, mostri e minacce naturali. Se i nemici per eccellenza dei vacanzieri paiono le famiglie dementi e assassine - preferibilmente cannibali o semplicemente dedite alla tortura per sfizio - non bisogna dimenticare che altri pericoli non meno letali sono costituiti da nuove amicizie strette al momento e da creature assassine, nascoste e ancestrali che si celano in luoghi sperduti. A volte è la stessa natura ad attentare le vite di turisti troppo baldanzosi.
Esempi di film incentrati su vacanze mortali
- Turistas (2006): Un gruppo di giovani turisti viene rapito durante una vacanza in Brasile per finire tra le grinfie di un chirurgo che li tortura e priva degli organi.
- La casa (1981): Cinque amici trascorrono un weekend in una casetta isolata che si rivela essere il fulcro del Male, risvegliando entità demoniache.
- The Descent - Discesa nelle tenebre (2005): Sei amiche si avventurano in una grotta infestata da mostri, trasformando l'esperienza speleologica in un incubo.
- Us-Noi (2019): Una famiglia in vacanza si imbatte nei propri doppelgänger, dando inizio a una lotta per la sopravvivenza.
- Frozen (2010): Tre amici rimangono bloccati su uno skilift, affrontando freddo, lupi e incidenti orripilanti.
- A Perfect Getaway - Una perfetta via di fuga (2009): Una coppia in luna di miele alle Hawaii si ritrova coinvolta in una caccia a un serial killer.
- Quella casa nel bosco (2011): Un gruppo di studenti universitari in vacanza in una baita isolata viene aggredito da zombi.
Il viaggio interiore e l'ansia
Anni fa scrissi un racconto ironico sull’ansia del viaggiare. Ero su uno dei tanti Frecciarossa che ho preso nella mia vita nel periodo in cui sui giornali si temevano (e raccontavano) eventi terroristici quasi quotidianamente. E’ incredibile come la comunicazione possa effettivamente indirizzare e condizionare la nostra mente, i nostri comportamenti, i ricordi e le azioni. Succede e spesso non ne siamo consapevoli. Quell’osservazione e il modo in cui l’ho tradotta in un racconto, leggero e, spero, divertente, mi è servita per comprendere che la paura, l’ansia e le sue conseguenze dipendono essenzialmente dal modo in cui guardiamo le cose, dal modo in cui ci rapportiamo con la realtà. Il che ci offre una speranza e una strada per cambiare atteggiamento e paradigma di pensieri troppo spesso affollati e automatici.
In viaggio con l’ansia
Avete mai incontrato un passeggero ansioso? No? Be’, allora siete voi. Sì, proprio voi che controllate l’orologio ogni trenta secondi e aggiornate compulsivamente la timeline di X per vedere se il mondo è ancora in piedi. Il passeggero ansioso si riconosce subito. È una creatura nervosa, tra i 30 e i 40 anni, vestita con un’eleganza che cerca disperatamente di mascherare il panico che gli brucia dentro. Appena entra nello scompartimento, scandaglia l’ambiente come un detective sotto copertura.
Non appena si siede, fa un rapido calcolo: passeggeri presenti - bagagli visibili = ansia crescente. E quando si accorge che c’è UNA valigia in più rispetto al numero di passeggeri… apriti cielo. “È fatta. È finita. Siamo in pericolo.” La gola si chiude, il sudore freddo scende lungo la schiena. Il cuore martella come una batteria rock. Deve fare qualcosa.
Lo spettro autistico e la psicopatologia nel cinema
Le pretese di questo, come degli altri film citati, sono smisurate e non si può entrare adesso nel dettaglio dopo una prima visione. Ci interessa però sottolineare che nella delineazione del non facile personaggio, interpretato (bisogna ammetterlo) in modo magistrale, da Matt Dillon, Lars Von Trier, probabilmente attingendo ampiamente alla sua propria, ben nota, psicopatologia, si rifa quasi alla lettera al modello attualmente in voga dello “spettro autistico dell'adulto” (delineato in vari modi da autori come Baron-Cohen e Liliana Dell'Osso): mancanza di empatia, necessità di imparare a simulare ed esprimere le emozioni, interessi ristretti, ruminazioni ossessive, franchi sintomi ossessivo-compulsivi, perfezionismo totale (qui viene citato per analogia Glenn Gould, al quale, ci perdoni l'autoreferenzialità, abbiamo nel 2015 con Liliana Dell'Osso, dedicato un saggio accostandolo in modo non convenzionale a Marilyn Monroe).
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