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Stranieri su un molo: significato e riflessioni sull'identità e la migrazione

Il tema dello spaesamento e la riflessione sulle identità è al centro di molte narrazioni contemporanee, partendo spesso dalla diretta esperienza di chi si trova a vivere in contesti multiculturali complessi. In questo scenario, il significato di "straniero" assume molteplici sfumature, intrecciandosi con questioni di appartenenza, memoria e adattamento.

Tash Aw, scrittore sino-malese, esplora questi temi nel suo libro "Stranieri su un molo", un'opera che racconta la storia della sua famiglia, una vicenda di migrazione e adattamento, di distanze e sottintesi, di accettazione cieca e amore silenzioso. In occasione della riedizione del suo libro, sono stati aggiunti alcuni capitoli inediti.

Il sentimento migratorio e la vergogna

L'intervista con Tash Aw ruota intorno al sentimento migratorio, al centro del suo “memoir”. L'autore indaga le asperità insite nell’atto della migrazione, l’indifferenza e la disparità che la migrazione crea e, infine, la fascinazione subita dalla modernità come illusoria possibilità di riscatto. Quando racconta la conversazione avuta con suo padre, sottolinea la sua eccezionalità dettata dal fatto che lasciar trapelare le proprie emozioni è ancora un tabù, evidenzia il sentimento di vergogna che è trasversale.

La vergogna è spesso intesa come un sinonimo di colpa. Nel caso del Paese di origine dell'autore, ciò che plasma la storia e le aspirazioni per il futuro è la vergogna di essere stato un Paese colonizzato e il senso di impotenza che è alla base di quella vergogna. "La tua storia è stata scritta da qualcun altro, le tue storie raccontate da persone che vengono da altre terre lontane: questo spiega perché non vogliamo confrontarci con il passato, perché quando guardiamo indietro alla nostra storia vediamo versioni di noi stessi che erano controllati da paesi occidentali."

Le città asiatiche sono piene di totem di questo tipo di recupero della storia: enormi grattacieli, centri commerciali che vendono beni di lusso, ogni tipo di comodità ipermoderna. Queste sono ostentate dimostrazioni di fiducia che dicono: abbiamo il potere di comprare tutto ciò che vogliamo, di consumare tutto ciò che vogliamo. Ma qualsiasi dimostrazione di eccessiva sicurezza tradisce un profondo disagio, che in questo caso parla di vergogna sepolta e irrisolta.

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La vergogna e il senso di colpa sono per me due sentimenti distinti, sia a livello personale che nazionale. La colpa nasce proprio da questo rapido, ostentato accumulo di ricchezza negli ultimi trenta o quarant’anni, che ha creato enormi divisioni nella società. Per quei pochi di noi che hanno lasciato una classe per appartenere a un’altra - quello che in Francia si chiama transfuge de classe, o profughi di classe - la vita offre due opzioni: quella della negazione o quella della colpa.

La cancellazione del passato e la modernità

Una delle riflessioni presenti nel libro di Aw è questa virata politica e culturale, indirizzata alla cancellazione del passato. "Ora che siamo ricchi… Essere moderni significa staccarsi dal passato e vivere solo nel presente".

La cosa più spaventosa per l'autore è il pensiero che la modernità diventi una nozione priva di significato, unidimensionale e artificiale. Possiamo essere veramente moderni solo se il nostro senso del futuro è legato a ciò che eravamo in passato. Non puoi rimodellare te stesso se hai dimenticato quello che eri. La felicità del futuro è legata al dolore del passato, fanno parte della stessa evoluzione.

Se perdiamo la memoria del nostro passato culturale e politico, continueremo a fare gli stessi errori politici, le scelte sbagliate per la società in generale - ed è quello che stiamo vedendo oggi in tutto il mondo, specialmente in Asia. In un Paese come la Gran Bretagna di oggi, che vuole dimenticare il suo passato coloniale, a causa della vergogna e del senso di colpa, è proprio questa cancellazione del dolore che porta a politiche irrazionali e francamente illusorie sull’immigrazione e sulla sovranità.

Trattiamo i nostri ricordi come una scultura, li modelliamo e li sminuzziamo finché non presentano una bella forma che ci piace. Crediamo che la memoria sia come ogni altra cosa nella nostra vita, la sentiamo suscettibile di essere perfezionata.

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Istruzione e migrazione

Un aspetto su cui Aw riflette accuratamente, partendo da un dato autobiografico, è l’accessibilità all’istruzione da parte dei giovani del suo Paese. Se a tutti viene data la possibilità di sostenere l’esame di stato, sarà il suo esito a mettere in evidenza le disparità sociali. Ma è anche l’istruzione che crea un primo flusso migratorio verso Paesi esteri in cui l’offerta formativa è più allettante, creando, alla lunga, uno scompenso interno.

L’istruzione pubblica è di un livello così basso che fornisce alla maggior parte delle persone pochissime competenze necessarie per trasferirsi in altri Paesi, e la verità è che la stragrande maggioranza dei migranti asiatici in altri Paesi sono stati storicamente, e sono tuttora, lavoratori non qualificati che si trasferiscono perché non hanno prospettive nel loro Paese. Si trasferiscono nei Paesi più ricchi, solitamente occidentali, per lavorare nelle fabbriche, nelle cucine dei ristoranti e così via, spesso in condizioni pericolose, perché disperati. Lo squilibrio interno è causato dalla rapida trasformazione della maggior parte dei Paesi asiatici negli ultimi decenni e dall’incredibile ascesa della borghesia asiatica che ha creato il proprio sistema di istruzione privata, il che significa che l’istruzione statale è peggiore che mai.

Identità e integrazione

La malleabilità dell'identità, l'essere straniero e assumere i connotati di uno del posto, ha a che fare, forse, con il desiderio che tutti ci somiglino, che lo straniero sia qualcuno che possiamo capire. E l'avvilisce pensare a coloro che sono disposti a rinunciare a tutto il bagaglio culturale pur di integrarsi. Ribadisce come il Paese di origine e il dialetto siano aspetti che non considerano di morire nelle nuove terre in cui abiteranno.

Ovviamente è esattamente ciò che viene chiesto a quelli di noi che migrano. È ovvio che sono d’accordo con questi sentimenti. L’ho sperimentato fin da bambino, quando non ero nemmeno coinvolto nella scelta di migrare. Ma questa è una domanda che i Paesi occidentali in particolare devono considerare: ti rendi conto di cosa stai chiedendo alle persone di fare quando chiedi loro di “integrarsi”. Cosa significa anche “integrazione”? È un processo estenuante, doversi sempre adattare solo per essere trascurato.

Un altro concetto che trovo sconcertante è l’idea di “autenticità”. Per gli europei bianchi progressisti che dicono, in modo comprensivo ed empatico: oh ma non dovresti rinunciare alla tua autenticità, dovresti rimanere quello che sei, glorioso nella tua cultura nativa, e ricordare chi sei, io rispondo sempre: perché non cerchi di metterti al mio posto, perché non cerchi di sopravvivere in un Paese straniero che nel migliore dei casi ti è indifferente, nel peggiore apertamente ostile? Ammiro il sentimento, ma quando hai il lusso di appartenere alla classe sociale e razziale dominante nel tuo Paese, hai anche il lusso di conservare la tua identità culturale. Puoi vedere quanto sia difficile per gli immigrati.

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Radici e appartenenza

Le radici di Aw risiedono di più nella storia dei suoi antenati che in un luogo fisico vero e proprio. Per molti anni ho pensato che le mie radici fossero nello spazio fisico della Malesia. Anche adesso reagisco d’istinto al suo paesaggio, alla luce, c’è un’intimità che non godo altrove. Ma negli anni ho capito che le radici non sono fisiche, sono immaginarie.

L’atto dell’immigrazione crea una dinamica che tutti presumono essere l’opposto delle radici, ma in realtà creano una storia che è altrettanto concreta quanto la storia di un singolo luogo. Nel corso della mia vita di letture e scrittura, sono stato affascinato dal lavoro degli scrittori ebreo-italiani. Primo Levi, ovviamente, ma anche scrittori come Natalia Ginzburg e Giorgio Bassani, le cui esperienze in un modo strano ho sentito rispecchiare le mie.

Il ruolo di Lampedusa

Lampedusa, come le Canarie e le isole greche sono diventate il poliziotto cattivo delle politiche di esternalizzazione delle frontiere, luoghi di confine/confino. A Lampedusa i migranti ci sono, ma i cittadini non li vedono, non li incontrano, non ne possono scorgere l'aspetto umano e culturale.

Lampedusa, nel 2013 come in tutti questi anni, non è mai stata solo la scenografia vuota dei flussi migratori. Un’isola mondo. La sua terra, le sue case, il suo mare, è un racconto di migranti. Camminando lungo le scogliere di quest’isola, parlando con i suoi abitanti, leggendo la sua storia, ci si ritrova al centro di un movimento, umano, eterno e naturale.

Uno dei grandi cambiamenti avvenuti nel decennio passato dal naufragio del 2013 è proprio quello di aver investito somme inimmaginabili delle tasse dei cittadini Ue in una campagna di fidelizzazione di agenti terzi. La Turchia, il Niger, l’Afghanistan, la Tunisia, la Libia. Si stringono accordi - anche bilaterali, ma sempre più collettivi - perché il lavoro sporco venga appaltato a paesi che non hanno fastidiosi diritti umani da rispettare. E là, nel mezzo, tra questi due mondi, c’è la terra di mezzo delle isole dell’Europa meridionale, che devono fungere da centri di contenimento e smistamento.

A Lampedusa, ma anche altrove, arrivano al Molo Favaloro (ormai praticamente inaccessibile ai comuni cittadini), vengono portati nel centro allestito sull’isola, vengono portati via appena possibile. E’ normale che in estati roventi come questa, quando a Lampedusa sono arrivate anche 2mila persone in un giorno (come sta accadendo anche in queste ore), la situazione diventa esplosiva.

Però, di base, l’opportunità dei residenti o dei visitatori di incontrare una persona sopravvissuta a un viaggio drammatico, guardarla negli occhi, darle un nome, conoscere la sua storia, i suoi sogni, è diventato praticamente impossibile. Eppure ci sono, anche se sono resi invisibili, diventando ancora più solo dei numeri. E la stessa strategia di ‘invisibilizzazione’ è applicata alle Canarie e nelle isole greche. Ma questo lascia solo i problemi, le strumentalizzazioni e le posizioni ideologiche sul campo, togliendo qualsiasi voce all’aspetto umano e culturale. E finendo per negare così non solo la realtà, ma anche la storia.

Dopo tutti questi anni, non esiste più alcuna emergenza, ma solo l’incapacità o la mancanza di volontà di gestire i flussi migratori. La narrazione, però, a seconda del vento politico che soffia sul paese, è sempre la stessa: sbarco, invasione, numeri paurosi. Anche se ormai i cittadini e i turisti neanche li vedono i migranti. Ed è questo che, in dieci anni, è diventato un malessere sempre più generalizzato.

La stessa dinamica la vediamo anche in altre isole/confine/periferie di questa Europa: le isole Canarie, Lesbo e le isole greche, invitate ad accettare il ruolo di confine/confino.

Lampedusa è stata araba, per centinaia di anni, come è stata bizantina: un melting pot di lingue, fedi, culture. Pensate al nome stesso ‘dammuso’, l’unità abitativa storica dell’isola: l’origine del nome, ormai, si perde nella notte dei tempi, sospesa tra dammusu (il nome dialettale per ‘tetto’) e mdamnes (vocabolo arabo per ‘costruire’), passando per i...

Conclusioni

Stranieri su un molo di Tash Aw è un’opportunità di conoscere se stessi mentre si crede di leggere la storia di qualcun altro. È un romanzo breve, minuto anche nelle dimensioni, ma che non ha nulla da invidiare a format più consistenti: intenso, ficcante, sintetico e sognante, ci avvolge in una spirale di domande, senza mai concedere una risposta univoca. Il potere di Tash Aw è quello di raccontare la storia di me, di te, di tutti i nostri dubbi e dei dubbi del nostro tempo. Egli non dà risposte preconfezionate, ma ci permette di avere più strumenti per capire il senso e la necessità della “narrazione del sé”, anche a partire dalle storie di migrazione, che sono storie particolari e in un certo senso estreme.

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