Storia dell'Osteria: Un Viaggio nel Tempo tra Vino e Banditismo
L’Osteria è un luogo in cui il vino, emblema indiscusso di edonismo e allegria, rappresenta un elemento fondamentale. Anticamente l’Osteria era un luogo in cui si consumava prettamente vino, mentre le vivande erano a carico dall’avventore. Il vino è da sempre considerato il ‘primo attore’ di ogni osteria che si rispetti, ed è per questo motivo che la carta dei vini deve rappresentare degnamente la cultura enoica di un territorio. Dunque, chiedere all’oste un buon vino equivale a fare una domanda inutile.
Andando indietro nel tempo, troviamo il concetto attualizzato di wine bar nell’enopolium dei Romani dove in primis si beveva a differenza dei thermopolium, ove invece si servivano pasti caldi.
L’idea è di una carta dei vini fortemente orientata al territorio, ma che contempli alcune incursioni extra-regionali ad alta vocazione. Molta attenzione è stata profusa nell’esaltare la capacità di alcuni produttori a dare un’impronta caratteristica ai propri vini come per esempio l’Aglianico cilentano di Primalaterra o quello casertano de I Cacciagalli. Molta Campania, dunque, nella carta dei vini firmata Osteria Da Carmela, ricca non solo di vitigni classici campani come l’Aglianico, il Fiano, il Greco, la Falanghina, il Piedirosso, il Pallagrello ma anche di realtà ampelografiche meno note ma non per questo meno piacevoli o qualitative: il Grecomusc, vitigno autoctono irpino vinificato, ad oggi, solo dall’azienda Contrade di Taurasi, che ne ha seguito il processo di recupero e valorizzazione, il Tintore, tipico della Costiera Amalfitana dal colore molto concentrato e dai riflessi violacei, coltivato ancora su antichi impianti a raggiera, o la vesuviana Catalanesca.
Ad arricchire la carta dei vini di Osteria da Carmela non mancano veri must come il celebre Terra di Lavoro, vino di grande struttura invecchiato in piccole botti di rovere, il Montevetrano, tra i più acclamati Supercampani, un blend di Aglianico, Cabernet Sauvignon e Merlot, l’Exultet, opulento Fiano firmato Luigi Moio, universalmente acclamato, il Patrimo, mitico Merlot dei Feudi di San Gregorio, oppure il Triple A Poliphemo di Luigi Tecce. Un’attenzione alle tendenze recenti ha portato a ospitare, per esempio l’ottimo Etna Bianco di Palmento Costanzo.
Nella carta dei vini non mancano tecniche particolari come l’Acenata (Illunis di Caputalbus) o l’affinamento in anfora come nel Quartara di Lunarossa, o vini bio, come il Vetere di San Salvatore 1988. Abbiamo avuto gran piacere nell’aggiungere - nella carta dei vini - raffinate bollicine come l’Asprinio Brut de I Borboni, le cui uve sono coltivate sulle storiche alberate aversane, che danno vini connotati da elevata acidità e freschezza. Altra bollicina autoctona è il Caprettone di Casa Setaro, un vino molto amato dagli addetti ai lavori, 100% Caprettone, uva autoctona del Vesuvio. Ci tenevamo, tra le altre, a La Matta di Casebianche, per la sua unicità organolettica.
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L’epilogo di ogni cena o pranzo, particolarmente graditi, è un buon distillato o liquore.
Osteria e Banditismo: Un Legame Storico
Guidati da quel giovane che li aveva attesi all’osteria del Progno, il piccolo gruppo di soldati attraversò silenziosamente la palude e la brughiera che contrassegnavano il paesaggio di quella landa posta a pochi chilometri dalla città. A causa della pioggia caduta la notte precedente il terreno era fradicio e scivoloso. Quando giunsero a quella casa isolata ed abbandonata, posta ai piedi di un’altura, l’alba non era ancora spuntata. Avevano lasciato più indietro i loro cavalli, insieme al più consistente numero di uomini che attendevano il via libera per avanzare. Probabilmente i banditi dormivano nel fienile della stalla attigua alla casa. In attesa della luce del giorno circondarono prudentemente l’abitato.
Il podestà di Verona aveva raccomandato la massima prudenza, tant’è che, per non dare nell’occhio, erano usciti a notte fonda, dopo che le porte della città, come di consueto, erano state chiuse. Il piccolo esercito di circa ottanta armati era costituito dai soldati forniti dal provveditore generale in Terraferma Benedetto Moro, dagli sbirri del podestà e da due compagnie di soldati corsi e cappelletti. Era stato loro detto che un giovane dalla camicia rossa li avrebbe attesi in quell’osteria e condotti nel luogo dove si erano rifugiati i banditi. Costui, insieme ad un compagno, faceva parte del gruppo rifugiatosi la notte precedente in quella casa.
Già da alcuni mesi i due delatori si erano segretamente messi in contatto con i Capi del Consiglio dei dieci, offrendo, in cambio dell’impunità e delle taglie promesse, la loro collaborazione per far cadere nelle mani della giustizia i loro compagni. Si trattava della cosiddetta banda dei fratelli della Grimana, cui, per l’occasione, si erano uniti altri banditi per compiere una rapina al vetturino diretto a Venezia con una somma consistente di denaro pubblico. Quegli uomini erano considerati estremamente pericolosi, anche perché venivano loro attribuiti diverse rapine ed omicidi. Erano stati preavvertiti che erano al numero di diciassette, armati di tutto punto con archibugi, pistole e munizioni in abbondanza e che tra di loro c’erano pure un patrizio veneziano e un nobile veronese.
Quasi tutti ormai conosciuti come banditi famosi, una qualifica che sottintendeva trattarsi di individui avvezzi ad ogni fatica ed impresa, ma che soprattutto non avevano nulla da perdere, anche perché sapevano quale sorte li avrebbe attesi se fossero stati catturati vivi. Le loro stesse fattezze fisiche esprimevano significativamente la sfida continua che da alcuni anni andavano conducendo spostandosi lungo i confini, per attraversare a sorpresa quel territorio delimitato dai fiume Po e Adige, ma talvolta spingendosi pure sino al delimitare della laguna veneta. Prudentemente avevano messo sull’avviso anche gli uomini delle comunità vicine, che al loro ordine avrebbero dato il via al suono delle campane a martello.
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Sul far del giorno il piccolo esercito mosse all’attacco e la brughiera venne attraversata dal rumore assordante dei colpi delle armi da fuoco che si incrociavano senza sosta. Infine venne appiccato fuoco al fienile e il gruppo di banditi uscì impetuosamente, riuscendo a crearsi un varco tra gli assedianti. Quattro di loro furono uccisi, ma i rimanenti, inseguiti dai soldati e dagli uomini dei villaggi circonvicini, si addentrarono nella palude riuscendo a raggiungere il villaggio di Marcelise, dove trovarono rifugio in una casa. L’assedio proseguì tutto il giorno, nonostante fosse stato posto fuoco all’abitazione. Verso sera l’attacco si concluse con un’incursione dei soldati nella casa ormai in fiamme. Solo uno dei banditi, rimasto ferito, venne catturato. Tutti gli altri preferirono morire piuttosto che arrendersi.
La dettagliata ricostruzione di questa storia è stata resa possibile ricorrendo alla descrizione che ne diedero i protagonisti che organizzarono o parteciparono al sanguinoso attacco, avvenuto poco lontano dalla città di Verona all’alba del primo ottobre 1607. La personale versione dei banditi avrebbe probabilmente fornito altri particolari e, di certo, una diversa valutazione dei fatti. Simili vicende erano comunque assai frequenti in questo torno di anni e pongono all’osservatore che le esamini una serie di questioni assai importanti, soprattutto in merito alle straordinarie manifestazioni di violenza che contrassegnano tra Cinque e Seicento la lotta al banditismo in tutta l’area del Mediterraneo.
La storiografia degli scorsi decenni sul tema del banditismo si è soffermata in particolare sulla tesi formulata da Eric Hobsbawm in merito alla figura del bandito sociale. Una tesi che è stata sostanzialmente contestata da diversi punti di vista, anche se essa ha continuato ad esercitare un’indubbia attrazione nell’ambito degli studi che si sono rivolti ad esaminare il banditismo nelle sue implicazioni sociali e culturali. Le successive correzioni di tiro dell’illustre storico britannico non hanno comunque dileguato le perplessità di coloro che soprattutto sottolineavano l’importanza della ricostruzione del contesto politico e sociale in cui il bandito si muoveva. E del resto erano assenti nel testo di Hobsbawm, così come nei lavori che più o meno criticamente si rifacevano ad esso, le strette connessioni tra banditismo e pena del bando che caratterizzano l’età medievale e moderna.
Le interrelazioni tra faida e banditismo hanno avvicinato la figura del bandito ai conflitti locali e alla loro interazione con i sistemi politici dominanti, ma non si è sufficientemente indagato sulle dimensioni costituzionali che le racchiudevano e che, molto probabilmente, sono utili a spiegare non solo la specificità dei conflitti, ma pure gli approcci storiografici tramite cui ci si è avvicinati alla dimensione della violenza.
Moryson coglieva l’immagine del banditismo nella sua originaria derivazione giudiziaria e, soprattutto, accostandola all’estrema frammentazione giurisdizionale della penisola italiana e ai provvedimenti straordinari adottati in quegli anni per fronteggiare un fenomeno strettamente correlato ai conflitti tra gruppi e parentele locali. Nella percezione di Moryson il fuorilegge era essenzialmente colui che era stato colpito dalla pena del bando e che, in quanto tale, poteva essere impunemente ucciso anche da coloro che si trovavano nella sua medesima condizione. Uomini che, sorprendentemente, non erano per lo più disponibili ad abbandonare definitivamente i territori da cui erano stati banditi, anche se spesso consapevoli del possibile tragico destino che li attendeva.
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In realtà il clima descritto da Fynes Moryson rifletteva lo stato di emergenza che nei decenni a cavallo tra Cinque e Seicento si era diffuso non solo nell’area del Mediterraneo, ma anche in gran parte d’Europa. Le numerose monografie e lavori collettivi che in questi ultimi anni si sono soffermati sulle origini e modalità della violenza in età medievale e moderna hanno sottolineato la debolezza interpretativa di tesi come quelle di Elias e di Weber, che presuppongono il graduale emergere della forza dello stato in grado di legittimare o monopolizzare l’uso della violenza. Ed alcuni anni orsono Charles Tilly ha posto in rilievo come le diverse realtà statuali si imposero gradualmente e contraddittoriamente utilizzando le molteplici forze sociali esistenti sul territorio e comunque imponendosi come garanti dell’ordine costituito esistente. Un’ipotesi alquanto suggestiva se solo si presta attenzione alle modalità tramite cui la violenza delle istituzioni interagì con quella delle forze che ad essa si opponevano.
In realtà lo straordinario rigurgito di violenza che si registra a partire dagli ultimi decenni del Cinquecento incontrava un evidente supporto nella legislazione bannitoria che venne emanata dai poteri centrali in quel torno di anni. Una legislazione che risultò particolarmente efficace e che può essere compresa nella sua effettiva portata se solo la si accosta all’introduzione dei processi inquisitori che si registra in tutta Europa nel corso del Cinquecento. La politica criminale in tema di banditismo e di nuovi riti processuali poté evidentemente essere efficacemente condotta previo il consenso e la spinta di vasti settori della società dell’epoca. Anche perché essa implicò un effettivo e sostanziale superamento degli assetti costituzionali esistenti, che comunque, a partire dal basso medioevo, costituivano la legittimità politica delle diverse realtà territoriali e che non sarebbero definitivamente venuti meno se non sul finire del Settecento.
Banditismo e sistema della vendetta erano intensamente intrecciati tra di loro e così i loro esiti, che riflessero, in primo luogo, l’indebolimento degli assetti costituzionali che avevano contraddistinto per secoli le diverse strutture politiche che caratterizzavano il bacino del Mediterraneo. Le interconnessioni tra faida e banditismo rilevate per alcune zone della Spagna o della penisola italiana sembrano implicitamente rinviare alle loro specificità istituzionali, caratterizzate da un articolato sistema della vendetta nel territorio. Fazioni, bandos e strutture parentali provviste di una sorta di legittimità giuridica sembrano esplicitare in modo meno visibile la loro presenza nei diversi contesti sociali laddove, come ad esempio nell’Italia Settentrionale, le città avevano esteso la loro giurisdizione su un ampio territorio.
Ampiamente utilizzata in ogni epoca e in diverse strutture politiche, la pena del bando assunse un’importanza di rilievo a partire dal basso medioevo, sia come arma di lotta politica (il cosiddetto bando politico) che come strumento di controllo sociale che poteva essere utilizzato a difesa dei valori e dell’ordine comunitario, ma anche per agevolare la risoluzione dei conflitti tra le famiglie che competevano per l’onore e la gestione delle risorse economiche. Una pena, dunque, che esprimeva la complessità delle istituzioni giudiziarie, caratterizzate da una cultura scritta e da professionisti del diritto, ma anche da un sistema conflittuale regolato dalle consuetudini e contraddistinto dall’onore e dalla vendetta. Si trattava dunque di una pena che interagiva con i riti giudiziari processuali e che rifletteva quel sistema costituzionale medievale eteronomo contraddistinto quasi ovunque da una fitta rete di giurisdizioni, ciascuna delle quali era dotata di una propria autonomia, anche se i valori morali, religiosi e politici erano sostanzialmente condivisi.
Non a caso la persona colpita dalla pena del bando poteva per lo più essere uccisa impunemente se avesse oltrepassato i confini da cui era stata interdetta. Un sistema che implicava dunque una stretta correlazione tra violenza e banditismo, ma anche una distinzione non netta tra le due concezioni di restorative e retributive justice.
Una concezione di restorative justice implicava una considerazione di rilievo nei confronti della vittima e l’obbligo per l’offensore di compensare adeguatamente il danno inferto. La pena del bando, che escludeva la persona accusata di un crimine dalla comunità, poteva dunque essere concepita come uno strumento per stabilire la tregua necessaria, in attesa che i gruppi antagonisti giungessero alla conclusione di una pace. I vari riti processuali dovevano condurre teoricamente a tale risultato e rivelavano con le loro caratteristiche e con i loro esiti l’implicito linguaggio della vendetta che animava la giustizia formale.
Taluni riti processuali come le cosiddette difese per patrem, che prevedevano che il padre dell’omicida fuggitivo potesse presentarsi in suo luogo, spiegano inoltre come la pena del bando si accompagnasse di frequente in queste forme di giustizia con la pena pecuniaria e i frequenti atti di pace che molto spesso ponevano fine all’iter giudiziario. Ma anche nella società medievale esistevano ovviamente forme di giustizia dall’aspetto retributivo e nelle quali determinati comportamenti erano considerati un crimine contro la comunità, i suoi valori e i suoi assetti sociali.
Una giustizia che, nonostante fosse contraddistinta dall’azione del giudice nella cosiddetta fase del processo informativo (inquisitio) , lasciava ampio spazio agli avvocati e all’utilizzo di procedure che avevano il fine di utilizzare i cosiddetti fatti giustificativi quali la provocazione, la legittima difesa e, soprattutto, il tema del furore. In tale dimensione giudiziaria la vittima aveva comunque un ruolo rilevante e poteva intervenire nella stessa fase iniziale del processo.
Nell’agosto del 1531 il Consiglio dei dieci, massimo organo politico-giudiziario della Repubblica, deliberò un provvedimento in tema di banditismo che rifletteva le tensioni giurisdizionali e costituzionali che inevitabilmente suscitava una tale materia nel momento in cui veniva...
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