Le Parolacce Italiane Più Comuni: Un'Analisi Dettagliata
Una lingua possiede generalmente un corredo di parole ritenute a vario titolo proibite o sconvenienti (dette usualmente parolacce), utilizzate a volte, in chiave metaforica, come insulti o imprecazioni, oppure con funzione ludica o sarcastica. Le parolacce sono da sempre un ingrediente fondamentale della letteratura comica, e altre volte quasi del tutto svuotate del significato originario, come mere interiezioni o intercalari. Naturalmente la circolazione delle parole oscene in una lingua aumenta con il crollo delle barriere censorie.
In Italia, il cinema, la televisione, la canzone e più timidamente i giornali dalla fine degli anni Settanta del Novecento mostrano un innalzamento della frequenza di parole tabu. Diverso il caso della letteratura, le cui maglie censorie sono quasi sempre meno fitte di quelle dei mass media. Le parole ritenute oscene, benché siano proprie dei registri più informali, popolari e talora volgari dell’italiano, non di rado sono usate in opere di alta dignità letteraria, come dimostrano le numerose citazioni d’autore, antiche e moderne.
Le metafore riguardanti gli organi sessuali hanno una gamma di funzioni che spazia dall’offesa all’elogio: «il pene è un jolly linguistico» che può esprimere sorpresa (cazzo!), offesa (cazzone), elogio (cazzuto), noia (scazzo, scazzato), rabbia (incazzato), approssimazione (a cazzo), una cosa da poco o una bugia (cazzata), ecc. Addirittura superiore lo spettro semantico di culo, da «fortuna» a «disappunto», ecc.
Naturalmente, la carica di un insulto non è intrinsecamente legata alla forma o al registro delle parole, bensì alle intenzioni dei parlanti e alla relazione intercorrente tra l’insieme degli stereotipi e dei pregiudizi connessi a un determinato concetto e il loro sfruttamento a fini denigratori: dire di qualcuno che è gay può essere ben più offensivo rispetto a termini ritenuti più volgari. Variamente insultanti sono anche gli altri eufemismi del genere: anormale, contro natura, dell’altra sponda, diverso, effeminato, il disusato invertito, ragazzo di vita, sodomita, vizietto.
Proprio contro l’ipocrisia dell’eufemismo che maschera l’insulto e la discriminazione, molto spesso gruppi sociali ritenuti marginali rivendicano per sé il termine connotato come più triviale, respingendo quello più eufemistico. Strettamente legata al contesto d’uso e sociale e all’intenzionalità è la punibilità delle parole ‘proibite’. In Italia dal 1999 la bestemmia non è più un reato penale (è sanzionato con un’ammenda): segno della laicità dello Stato. Ma l’impatto sociale della bestemmia resta forte.
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Le imprecazioni vengono formulate soprattutto mediante il ricorso a locuzioni ed espressioni auguranti il male e si servono spesso di parole tabu (e talora anche oscene), spesso nella versione eufemistica: alla malora; che ti venga un colpo (o uno sbocco di sangue), ti pigliasse (e sim.) un canchero, crepa; mannaggia (alla miseria); muori. Oppure invocando una divinità (del bene o del male), il cui nome è spesso deformato per tabu: cribbio, Cristo (di Dio), diamine, diavolo; perbacco, perdiana, per Dio. Assai labile può risultare il confine tra imprecazione e bestemmia, soggetto a oscillazioni in base all’epoca, alla cultura e al luogo.
È noto, per es., come in alcune regioni italiane, quali la Toscana o il Veneto, la bestemmia, spesso svuotata di senso, sia utilizzata quasi come esclamazione o intercalare, nel parlato informale anche di persone colte. Dato che le forme sopra citate sono colpite da interdizione linguistica, sono di frequente sostituite da eufemismi, che vengono ad assumere essi stessi connotazione oscena.
Spesso, per es., per designare gli organi sessuali si ricorre a metafore, soprattutto del mondo animale o vegetale: banana, cavolo, fava, farfallina, marroni, passera, patata, pisello, topa, uccello. Anche la metonimia può servire per costruire un eufemismo: amplesso, andare a letto, dormire insieme; basso ventre; matrice, natura. A volte un termine generico sostituisce la parola oscena: coso o cosa.
Si ricorre talvolta anche all’uso di perifrasi generiche, costruite di solito con un aggettivo o pronome dimostrativo o indefinito, per designare eufemisticamente certe realtà tabu: certe cose o quelle cose «atti sessuali»; una di quelle «prostituta»; frequentare certi posti; andare (o mandare) a quel paese o in quel posto, mandarci (assol.: «se non la smetti ti ci mando!»), prender(se)la in quel posto (o in saccoccia). Similmente, talora soltanto un pronome allude all’oggetto o all’azione innominabili: darla, metterlo, prenderlo, farlo. Anche la semplice omissione può fungere da strategia eufemistica e censoria, segnalata da una pausa allusiva nel parlato e dai puntini sospensivi nello scritto.
Fino a non molti anni fa, anche opere letterarie che contenevano termini o situazioni ritenuti scabrosi venivano tagliate o parafrasate in edizioni dette purgate (o espurgate). La deformazione delle parole, mediante sostituzione di uno o più fonemi, è tra le tecniche eufemistiche più adottate: cacchio «cazzo»; cribbio «Cristo», diamine «diavolo», dinci o dindirindina «Dio», madosca «Madonna» (nelle bestemmie parzialmente autocensurate).
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La deformazione può dare luogo anche a una parola di senso compiuto, che però è assunta soltanto per somiglianza fonetica, e non semantica, con quella interdetta: kaiser «cazzo»; maremma «Madonna». Spesso ai registri espressivi è assegnata una particolare valenza eufemistica. Talvolta si crede che, nominando un concetto tabu con un termine tecnico-scientifico (o ritenuto tale) o burocratico o aulico, l’effetto spiacevole di quel concetto si riduca: amplesso, coito, pederasta. Stesso risultato si ottiene col ricorso al linguaggio infantile in luogo dei termini ritenuti troppo audaci in certi contesti: parlando a tavola, o anche nella lingua della pubblicità, è più frequente sentir dire fare pipì e fare popò piuttosto che orinare e defecare, e questi ultimi, a loro volta, al di fuori del linguaggio scientifico, vengono spesso usati eufemisticamente in luogo di altri termini.
A volte l’uso di un termine di una varietà regionale ritenuta più prestigiosa contribuisce ad abbassarne la valenza di oscenità: accade con i già citati settentrionalismi balle, cagare, sborone e, in misura minore, figa. Come risulta dagli esempi finora addotti, il concetto di eufemismo non è mai assoluto, bensì sempre relativo al contesto, al registro e all’epoca. In effetti, la storia della lingua mostra che parole nate come eufemistiche (per es., perché metaforiche) hanno poi mutato registro (spesso perché il valore della metafora non viene più colto dai parlanti) e sono state a loro volta interdette, provocando così la nascita di nuovi eufemismi.
È il caso, tra gli altri, dei termini usati per mascherare la parola cesso, che in origine designava, eufemisticamente, il luogo in cui ci si ritira (dal lat. cedere). Viceversa, parole in origine considerate volgari vengono oggi usate come eufemistiche, in virtù della loro veste latineggiante o comunque arcaizzante: meretrice era in origine assai volgare, perché designava direttamente colei che guadagna vendendo il proprio corpo (dal lat. merēre «guadagnare»), mentre mignotta (dal fr. mignotte «favorita») era all’origine un termine metaforico. Tale ciclo eufemistico continuo è dunque una delle cause dell’arricchimento del lessico.
Solitamente, le parole usate in accezione metaforica vengono avvertite come meno volgari: sicuramente fregare nel senso di «rubare» è considerato meno triviale rispetto al senso originario (peraltro ignoto a molti italiani) di «avere un rapporto sessuale». Inoltre alcuni termini tendono talora a svuotarsi di senso e ad essere usati come interiezioni, segnali discorsivi, intercalari o intensificatori di negazione o di interrogazione o espletivi di esclamazione.
Esempi di Parolacce Italiane Comuni
Dunque oggi ci concentreremo sulle parolacce più diffuse ed utilizzate in italiano aggiungendo alla fine un piccolo esercizio per fare pratica.
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- La parola “minchia” è siciliana ma è conosciuta e usata largamente in Italia. E’ spesso usata per indicare anche sorpresa: “Minchia! Stesso significato per l’espressione “Che cazzo!”.
- Figlio di puttana o Figlio di troia o Figlio di mignotta = Son of a bitch.
- Stronzo! = Asshole!
- Coglione = Fucking idiot!
- Per concludere, a propostito del verbo chiavare, possiamo ricordare la famosa frase utilizzata da Silvio Berlusconi nei confronti di Angela Merkel. Lei, avrebbe detto, è “una culona inchiavabile“.
Per concludere “E che cavolo!” è un’espressione utilizzata per esprimere il proprio disappunto verso qualcosa. E’ un’espressione tuttavia abbastanza soft che non offende l’interlocutore quando la si usa.
Parolacce nel Mondo della Musica
La musica può rivelarsi uno strumento eccellente per l’apprendimento delle lingue. Gli esperti di lingue della piattaforma di apprendimento Preply hanno esaminato i testi di oltre 5.500 canzoni per individuare gli artisti più inclini all’uso di linguaggio volgare nella scena musicale. Questa ipotesi è confermata dall’analisi, che non ha individuato alcun artista in grado di evitare completamente parolacce, insulti o bestemmie nei testi delle proprie canzoni.
Uno sguardo ai musicisti più ascoltati al mondo offre uno spaccato interessante sulla loro predilezione per un linguaggio forte. In cima alla lista dei “superstar dal linguaggio colorito” troviamo il rapper canadese Drake (classe 1986). Taylor Swift (classe 1989), considerata generalmente una popstar adatta a un pubblico anche più giovane, include contenuti espliciti solo nel 13% dei suoi brani. Infine, Billie Eilish (classe 2001), amatissima tra i teenager, si distingue per una scelta controcorrente. Come evidenziato dall’analisi dei testi, evita di usare ampiamente parolacce nella sua musica. Anche le artiste Lana Del Rey (classe 1985), Miley Cyrus e Charli XCX (entrambe classe 1992) hanno un approccio simile all’uso di termini forti, che compaiono nel 35-38% delle loro canzoni.
Le parolacce possono anche aiutare a ridurre lo stress e a scaricare la tensione. Molti musicisti utilizzano consapevolmente le parolacce per ribellarsi alle norme e alle aspettative sociali. In questi casi il linguaggio particolarmente colorito diviene un simbolo di resistenza contro l’establishment. Nella musica pop si dà molta importanza all’autenticità: gli artisti vogliono apparire reali e accessibili. Le imprecazioni rafforzano l’idea di autenticità, in quanto il loro uso è percepito come incontrollato e spontaneo.
Anche il rapper Guè (classe 1980), conosciuto in precedenza come Guè Pequeno, è celebre nella scena per il suo linguaggio diretto. Con un repertorio vastissimo, ha inserito quasi 700 parolacce e imprecazioni nei suoi testi. Infine, la rapper italiana ANNA (classe 2003) non rinuncia mai a un tocco di provocazione nei suoi pezzi.
Per l’analisi dei testi sono stati innanzitutto selezionati gli artisti musicali più popolari. La base è stata la playlist di Spotify “Top 50 Italia 2023”. Sono stati esclusi dall’analisi i produttori musicali, i DJ e gli artisti che non hanno partecipato alla stesura dei testi.
L'Uso delle Parolacce in Italia
Gli italiani dicono tante parolacce, ma alcuni più di altri. Al primo posto troviamo Venezia, con una media di 19 parolacce al giorno. Al secondo posto c'è invece Brescia, a pari merito con Padova, con in media 17 imprecazioni quotidiane. Chiude il podio Genova, con 14 parolacce al giorno. La ricerca ha preso in esame 1.558 persone residenti in 19 grandi città del Paese.
Secondo il 21% degli intervistati, il bersaglio delle imprecazioni è "se stessi", mentre il 17% scaglia improperi senza un obiettivo preciso, spesso facendone largo uso come intercalare nelle conversazioni informali. Tra gli altri bersagli di parolacce spuntano poi gli amici (17%), i collaboratori e i partner (11%), gli sconosciuti (9%), sorelle e fratelli (8%), i genitori (5,5%).
Il singolare studio rivela che nel nostro Paese s'impreca in media 9 volte al giorno e che sono soprattutto gli uomini a "lasciarsi andare". Dal punto di vista dell'età, sono i giovani quelli che utilizzano più espressioni volgari: nella fascia d'età che va dai 16 ai 24 anni se ne contano in media 14 al giorno.
La media diminuisce nelle età più mature: tra le 8 e le 9 imprecazioni giornaliere tra i 25 e i 44 anni, meno di 4 al giorno tra gli over 55.
Esistono poi luoghi e contesti in cui gli italiani si lasciano andare più facilmente. In gran parte a casa, per il 34% degli intervistati: il 17,5% in compagnia degli amici, il 17% in ufficio e sul posto di lavoro, altrettanti quando sono alla guida, specie quando si è bloccati nel traffico.
Classifica delle città italiane per numero di parolacce giornaliere:
Città | Media Parolacce al Giorno |
---|---|
Venezia | 19 |
Brescia | 17 |
Padova | 17 |
Genova | 14 |
Messina | 12 |
Milano | 11 |
Firenze | 9 |
Torino | 9 |
Trieste | 8 |
Roma | 8 |
Modena | 7 |
Catania | 6 |
Bologna | 6 |
Bari | 6 |
Parma | 6 |
Verona | 6 |
Napoli | 6 |
Taranto | 5 |
Il Turpiloquio nella Cultura Italiana
Contrariamente a quanto si pensa, il turpiloquio ha da sempre avuto spazio nella cultura italiana, dalla Divina Commedia ai Sonetti Romaneschi, fino ai romanzi contemporanei di Andrea Camilleri. Il turpiloquio rimane uno strumento potente per esprimere emozioni come rabbia, ironia e persino affetto. Non sono le parole a essere problematiche, ma il modo e il contesto in cui vengono usate.
Uno studio del 2016 ha rilevato che la parola più diffusa nel turpiloquio italiano è “c*zzo” (17,2%), seguita da “s*ronzo” (4,1%). L’Italia è un paese di grande varietà dialettale, e le parolacce assumono significati diversi a seconda delle regioni.
Il lettore potrà apprezzare il discreto numero di prime attestazioni, quasi tutte in rima: i verbi parasintetici accaffare, acceffare, arruncigliare, verosimilmente coniati proprio da Dante; i sostantivi broda, cuticagna e fesso, nonché le accezioni metaforiche di letame (‘depravazione’) e zucca (‘testa’); il verbo trullare ‘scoreggiare’, gli aggettivi cagnazzo, detto dei visi dei traditori dell’Antenora, e merdoso, detto delle unghie della puttana Taide.
Convincente la tesi sull’etimologia del romano fro(s)cio, da riconnettersi a floscio, con riferimento alla parlata prima dei francesi nel Sei-Settecento, poi degli «svizzeri tedeschi della guardia pontificia» nell’Ottocento, connotata in chiave omosessuale. Peraltro si può notare che nei dialetti della Svizzera tedesca si avverte l’influsso del francese per la vibrante uvulare: «French phonetic influence upon German, even at language boundaries, is difficult to prove, though the French uvular /R/ allophone is frequently held to have influenced the Swiss German dialects» (Rash 2002, p. 127).
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