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Stato Sociale e Democrazia nell'Italia Contemporanea

Alla fine della seconda guerra mondiale, in Italia e in molti altri paesi dell'Europa occidentale, si è delineata una nuova forma di Stato: lo Stato sociale. Questo modello, alternativamente denominato Stato del benessere o Stato assistenziale, si configura come un superamento dello Stato liberal-democratico, pur rimanendo ad esso strettamente collegato.

Origini e Diffusione del Concetto di Stato Sociale

Il concetto di Stato sociale, benché massicciamente impiegato dopo il 1945, ha le sue radici nella Germania bismarckiana, dove si iniziò a utilizzare il termine Wohlfahrtsstaat, "Stato del benessere", per definire i nuovi compiti sociali dello Stato. Alfred Zimmern fu il primo a impiegarlo, in un'accezione positiva per differenziare le moderne democrazie liberali dal Warfare State della teoria politica hobbesiana. Successivamente, negli anni Quaranta, l'arcivescovo William Temple lo adoperò per descrivere le riforme richieste dal movimento dei “cristiano-socialisti”. A partire dalla legislazione sociale laburista del periodo 1945-1951, il modello dello Stato sociale ha conosciuto una crescente popolarità, venendo adottato in molti paesi dell'Occidente.

Il Piano Beveridge: Testo Base del Welfare Contemporaneo

Elaborato da una commissione presieduta da William Beveridge, direttore della London School of Economics, il piano Beveridge fu presentato al parlamento britannico alla fine del 1942. Tale piano era concepito come uno strumento per promuovere i primi interventi di una più generale politica di progresso sociale. Il piano si prefiggeva di abolire il bisogno attraverso la “protezione sociale”, garantendo innanzitutto un reddito sicuro, basandosi su tre premesse ideali e combinando tre distinti metodi di protezione.

L'assicurazione sociale, principale forma di protezione, consisteva nel garantire benefici di sussistenza in cambio di contributi obbligatori. La scelta del sistema contributivo si basava sulla preferenza storica del popolo britannico per un beneficio in reciprocità di un contributo versato anziché un sussidio gratuito dallo Stato. Si precisava che lo Stato non poteva esimersi dal garantire assistenza diretta ai bisognosi, cioè a coloro che erano nell’impossibilità di contribuire al sistema di assicurazione. Le assicurazioni sociali costituivano la parte più importante del “Piano di Protezione Sociale” e incorporavano sei principi fondamentali.

Il secondo principio fondamentale era costituito dalla richiesta di un contributo obbligatorio, a “quota fissa” sia per gli assicurati che per i loro datori di lavoro. Tutti gli assicurati, ricchi o poveri, avrebbero pagato un uguale contributo per un’uguale protezione. Tale sistema sembrava avvantaggiare, a prima vista, le classi sociali più agiate, ma si trattava, in realtà, di un vantaggio apparente.

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Pubblicato il primo dicembre del 1942, con il titolo Social Insurance and Allied Services - Report by Sir William Beveridge, il rapporto ebbe un successo straordinario, vendendo più di centomila copie in trenta giorni. Il successo era legato ai sentimenti di paura, spaesamento, sacrificio e incertezza del domani determinati dalla guerra, e all’instaurarsi di un clima politico più solidale fra tutte le classi sociali. Beveridge e i membri della Commissione da lui presieduta iniziarono il loro lavoro proprio mentre Churchill e Roosevelt redigevano la Carta Atlantica, nell’agosto del 1941.

Il piano Beveridge iniziò a esercitare un’influenza negli stati dell’Europa occidentale già durante il secondo conflitto mondiale. Copie del piano circolarono infatti fra i movimenti di resistenza attivi nei paesi occupati dai nazisti e, nel settembre del 1945, furono perfino rinvenute nel bunker di Hitler.

A partire dalla sua pubblicazione, il piano Beveridge segnò l’avvio di un processo irreversibile e influenzò i vari modelli di Stato sociale che presero forma nel Vecchio continente all’indomani della conclusione del conflitto.

L'Influenza del Piano Beveridge in Italia

Esattamente come accadde in molti altri paesi europei, anche in Italia la pubblicazione del piano Beveridge suscitò una notevole eco pubblica. In virtù del suo essere una “dichiarazione di politica sociale fatta in tempo di guerra”, esso stava a indicare infatti a quali scopi doveva servire la vittoria sulle potenze dell’Asse. Il piano Beveridge venne considerato uno strumento della guerra psicologica.

Vi furono le reazioni della stampa fascista, che parlò del piano come di un qualcosa che “doveva considerarsi quasi superato dal complesso di prov-videnze poste in atto dal regime fascista”, e quelle dei movimenti di opposizione al fascismo, che furono di segno completamente opposto.

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Anche in Italia il successo del piano Beveridge fu dovuto alla sua potentissima carica di “rivoluzione concreta”. E cioè una rivoluzione sociale che era insieme possibile, pacifica e veramente a portata di mano. Veicolando un messaggio di tal genere, che aveva una straordinaria forza d’impatto, il piano Beveridge finiva per trasformarsi in un formidabile strumento di guerra ideologica.

I primi passi concreti in questa direzione vengono mossi dal governo Badoglio già nel marzo del 1944. Il 15 marzo del 1944 viene infatti promulgato il regio decreto n.120 che istituisce una “Commissione reale per la riforma della previdenza sociale”.

Istituendo un organismo che preparasse una riforma che estendesse i “limiti dell’assistenza dello Stato in favore delle classi lavoratrici”, il governo Badoglio si prefiggeva tre obiettivi: offrire qualcosa di concreto per cui valesse la pena combattere, apprestare misure sociali che facilitassero la transizione dalla guerra alla pace. L’istituzione della “Commissione reale per la riforma della previdenza sociale” fornì l’occasione per una inchiesta sulle posizioni dei partiti politici in materia che fu promossa dalla “Rivista degli infortuni e delle malattie professionali”.

Il Partito Liberale precisò la sua posizione in un documento elaborato da una “Commissione interna di studio per i problemi economici”, testimoniando che anche in Italia i liberali si stavano sempre più orientando verso una forma di “liberalismo sociale”. Tuttavia, pur riconoscendo che esistevano nuovi doveri della collettività per far trionfare il principio della solidarietà fra gli uomini, i liberali precisavano altresì che rimanevano inalterati i doveri che l’individuo aveva verso se stesso.

Democrazia e Stato Sociale: Un'Endiadi in Crisi

Democrazia e Stato sociale costituiscono un'endiadi ormai quasi banalizzata: nella manualistica, alla forma di Stato liberale segue inesorabilmente l'avvento della forma di Stato sociale, descritta anche come ‘democratico-pluralista'. I diritti sociali sono, contemporaneamente, l'esito e il presupposto della democrazia (l'esito dell'estensione del suffragio e il presupposto per l'effettivo esercizio dei diritti politici). La Costituzione italiana realizza forse la migliore sintesi, affermando che «(è) compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che [...] impediscono [...] l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3.2 Cost.).

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Da tempo questa forma di Stato è, però, in crisi. Come può ancora oggi fondarsi sul lavoro la nostra Repubblica democratica (art. 1 Cost.) quando il lavoro è prevalentemente precario o precarizzato e la rendita torna a fruttare profitti da ‘Belle Époque'? Negli ultimi tre o quattro lustri, nell'Unione europea si è tentato di rendere ‘competitivi' i sistemi di welfare statale attraverso metodi che della democrazia hanno poco o nulla: metodi aziendalistici di benchmarking hanno fatto stilare classifiche di Stati primi della classe e stati ripetenti, nell'illusione che l'emulazione competitiva avrebbe indotto quella modernizzazione che avrebbe permesso ai singoli sistemi nazionali di welfare di sopravvivere alla globalizzazione. La crisi dell'euro ha squarciato anche questo velo. Le riforme istituzionali fin qui fatte e progettate per ‘salvare' l'eurozona hanno come prospettive deflazione salariale e aumento della mobilità della manodopera.

L'Evoluzione dello Stato Sociale: Modelli e Regimi di Welfare

Lo Stato sociale (o Stato del benessere, welfare state) è un insieme di politiche pubbliche con cui lo Stato fornisce ai propri cittadini, o a gruppi di essi, protezione contro rischi e bisogni prestabiliti, in forma di assistenza, assicurazione o sicurezza sociale, prevedendo specifici diritti sociali nonché specifici doveri di contribuzione. Esso costituisce una risposta alla nuova configurazione dei rischi e bisogni originata dai processi di modernizzazione e industrializzazione ma nella sua configurazione storica è un fenomeno essenzialmente europeo, connesso con l’evoluzione della società, dello Stato nazionale e delle istituzioni democratiche registratasi in Europa a partire soprattutto dalla fine del sec. 19°. Lo sviluppo delle politiche sociali ha comportato un’estensione dei compiti dello Stato, oltre l’ambito originario (garanzia della sicurezza e della libertà) assegnatogli dalle concezioni liberali, per includere la predisposizione di tutele e di servizi ai cittadini. La formazione dello Stato sociale non è solo una reazione alle pressioni della classe operaia dell’industria, ma anche un portato della democrazia di massa. A sua volta ha contribuito a stabilizzare la democrazia e a conciliarla con il capitalismo.

Il nucleo successivo e centrale del moderno welfare è rappresentato dalle assicurazioni sociali, caratterizzate dall’obbligatorietà dell’adesione e del finanziamento tramite contributi, rivolte a fornire prestazioni standardizzate in base a diritti specifici e a doveri individuali. Le prime assicurazioni obbligatorie sono quelle contro le malattie e gli infortuni istituite dal cancelliere tedesco O. La terza modalità di intervento, indicata come sicurezza sociale, consiste in un sistema di protezione volto a garantire prestazioni di base uniformi a tutta la popolazione attiva e tendenzialmente a tutti i cittadini, finanziate in tutto o in prevalenza dal gettito fiscale. Essa si è sviluppata, a partire dal rapporto inglese di lord W.H.

Gli istituti dello Stato sociale si sono molto sviluppati nel periodo tra il 1945 e gli anni Settanta, sotto la spinta convergente di sempre più larghi gruppi sociali. Tale sviluppo ha ampliato e quasi completato i tipi di rischi coperti e ha estesola protezione oltre i lavoratori dipendenti fino a raggiungere in molti casi la totalità dei cittadini e delle famiglie. Al consolidamento del sistema si è accompagnata una diversificazione degli interventi.

Nei Paesi dell’Europa continentale è invece prevalso il modello cd. occupazionale, basato su schemi professionali con prestazioni differenziate, finanziate tramite contributi. Questa grande bipartizione non è rimasta stabile nel tempo ed è variata secondo i settori, anche con la comparsa di forme miste. Inoltre al suo interno sono emerse differenze riguardanti ulteriori dimensioni del sistema: tipi e quantità delle prestazioni, modalità di gestione, forme di finanziamento.

Gli studiosi (G. Esping Andersen, M. Ferrera) hanno individuato tre e poi quattro regimi di welfare, invero comprensivi non solo delle politiche statali, ma delle relazioni fra queste, il mercato del lavoro e la famiglia.

  • Un regime cd. liberale, proprio di alcuni Paesi anglosassoni, Stati Uniti, Australia e in parte Regno Unito, caratterizzato dalla prevalenza di misure assistenziali, basate sulla prova dei mezzi, schemi assicurativi circoscritti,e prestazioni poco generose, limitate a soggetti bisognosi, con largo ricorso al mercato, anche tramite incentivi a ricorrere a schemi assicurativi privati.
  • Un regime cd. conservatore-corporativo, proprio dei Paesi centroeuropei, Germania, Austria, Francia, ove predominano schemi assicurativi pubblici, legati alla posizione professionale, rivolti in particolare ai lavoratori maschi adulti capofamiglia, con prestazioni collegate ai contributi e/o alle retribuzioni.

Lo Stato sociale nei Paesi mediterranei ha assunto caratteri in parte diversi da quelli dei regimi corporativi da cui ha preso le mosse. Ha sviluppato sistemi di protezione dualistici, che garantiscono prestazioni relativamente generose e diffuse, oltre a buone tutele sul posto di lavoro, alle categorie centrali del mercato del lavoro, mentre per altre categorie prevedono tutele ridotte, talora del tutto carenti, per es. nelle prestazioni per i casi di inattività e di povertà. Questi squilibri del welfare pubblico sono in parte «compensati» dalla presenza di modelli familiari caratterizzati da forti relazioni solidaristiche e inclini a funzionare come ammortizzatori sociali.

Il Welfare Italiano: Caratteristiche e Distorsioni

Il welfare italiano presenta tratti comuni al regime mediterraneo, ma con aspetti distintivi anche rispetto ai sistemi corporativi. Da una parte è particolarmente accentuata la segmentazione delle forme protettive, presidiata dalle categorie sociali più organizzate, dipendenti pubblici e delle grandi aziende e anche altre professioni. A tale segmentazione verticale si aggiungono dualismi territoriali fra le varie aree del Paese, che incidono sulla qualità delle tutele e dei servizi, compresi quelli organizzati su base universalistica (sanità, assistenza). Inoltre sono grandemente sperequate, più che nei Paesi vicini,la distribuzione degli interventi e quindi la composizione della spesa sociale.

Le pensioni assorbono il 62% della spesa sociale contro una media europea del 45%. Le spese sanitarie sono inferiori a tale media, ma sono in rapida crescita e disomogenee, come i servizi resi, sul territorio nazionale. La stessa distribuzione di questi interventi è alterata dalla segmentazione categoriale del sistema, che premia ancora una volta i gruppi più organizzati a scapito dei soggetti non garantiti, in particolare giovani, lavoratori precari e dell’economia sommersa.

Queste distorsioni del welfare italiano sono riconducibili (M. Ferrera) ai caratteri del sistema politico e sociale, segnato da forte polarizzazione ideologico-politica, scarsa omogeneità e coesione sociale, incerta civicness, e conseguente debole autorevolezza delle istituzioni pubbliche nei confronti dei vari gruppi e dei partiti politici. In questo contesto la distribuzione dei benefici di welfare è stata utilizzata dai governi e dai partiti come strumento di acquisizione del consenso e si è quindi realizzata attraverso meccanismi di scambio politico, formalizzati o meno nelle prassi concertative, con contenuti particolaristici e talora clientelari.

Sfide e Riforme dello Stato Sociale

La crescita dimensionale dello Stato sociale e delle spese relative che ha caratterizzato, pur in misura diversa, tutti i Paesi europei nel secondo dopoguerra, è stata sostenuta per un certo periodo dagli alti tassi di sviluppo economico che hanno messo a disposizione dei poteri pubblici risorse crescenti. L’insostenibilità della espansione continua e poi dello stesso mantenimento dello status quo si è manifestata a partire dagli anni Novanta, anzitutto per l’operare di fattori esterni che hanno colpito in particolare l’Europa: il rallentamento della fase espansiva dell’economia e poi le crisi ricorrenti fino a quella mondiale del 2008-2009, con i conseguenti squilibri delle finanze pubbliche e l’esplosione dei deficit, la pressione della globalizzazione e la crescente integrazione dei mercati che riducono le barriere protettive e l’autonomia decisionale degli Stati nazionali nel cui ambito e sotto la cui protezione si sono costruiti tutti i sistemi europei di welfare. La crescente interdipendenza economica e la perdita di centralità dello Stato nazione stanno incrinando le basi politico-istituzionali del welfare tradizionale e mettono a rischio la tenuta dello stesso modello sociale europeo.

Questi fattori esterni hanno portato in primo piano il problema dei costi delle politiche sociali, in particolare nei settori pensionistico e sanitario, e hanno messo nell’agenda di tutti i governi anzitutto gli obiettivi di risanamento e del recupero di efficienza. Ma gli assetti tradizionali del welfare sono sfidati non solo sul versante dei costi. Sono chiamati a rispondere a situazioni di bisogno e di rischio radicalmente diverse da quelle per cui sono stati previsti nella società industrialista del Novecento: alle condizioni di incertezza sistemica, anche oltre gli ambiti del lavoro, moltiplicatesi nelle società del rischio; alle esigenze non solo di tutela dei redditi, ma di adeguamento continuo delle competenze necessarie a fronteggiare i processi di trasformazione delle economie; ai nuovi aspetti della povertà e dell’esclusione sociale legati alla precarizzazione del lavoro e dei legami familiari; alla crescita dell’immigrazione; alle richieste di partecipazione femminile nel mondo del lavoro, che postulano forme esigenti di conciliazione fra vita professionale e riproduzione sociale, fino ai fenomeni inediti quali denatalità e longevità che influiscono sul futuro dell’economia e sullo stesso equilibrio dell’umana convivenza.

Le Riforme Intraprese

Nell’ultimo decennio, quasi tutti i Paesi hanno intrapreso iniziative di riforma degli schemi ereditati dal passato, con esiti alterni. L’intento comune a questa riforme è stato di tipo restrittivo, attuato in misura e direzioni diverse: ridefinire gli ambiti di copertura, contenere le dimensioni dei benefici, alzando le condizioni di accesso (per es. l’età pensionabile, i livelli di reddito) e stringendo i criteri di selettività per la scelta dei beneficiari.

Tali resistenze hanno contribuito a ridimensionare gli interventi, a privilegiare spesso modifiche al margine, invece che sulle strutture dei sistemi, lungo le linee di minore resistenza o a diluire nel tempo l’impatto delle riforme, per es. nella revisione della previdenza pensionistica trasferendone gli effetti sulle generazioni future. Le riforme italiane, avviate a partire dalla metà degli anni Novanta, hanno registrato difficoltà simili, acuite dalle distorsioni del sistema sopra ricordate. Hanno corretto alcune di queste distorsioni, in particolare con la stabilizzazione e con l’armonizzazione dei sistemi pensionistici, con l’avvio di un assetto universalistico e decentrato dei servizi d’assistenza.

Le riforme approvate in vari Paesi hanno interessato due ulteriori aspetti del funzionamento del welfare tradizionale. Anzitutto si è intrapreso un processo di decentramento delle funzioni, in particolare in quei settori, sanità, assistenza, politiche attive del lavoro, formazione professionale, caratterizzati dalla prestazione di servizi più che da semplici trasferimenti monetari. L’erogazione in sede locale di tali servizi mira a ridurre gli effetti del burocratismo propri dei grandi enti centralizzati del Novecento rappresentativi dello Stato sociale e a permettere una gestione delle prestazioni più personalizzata, più vicina agli utenti e possibilmente più partecipata e controllabile.

Una seconda direzione di riforma ha inteso ricalibrare le misure di welfare tramite una divisione di compiti fra interventi pubblici e privati. Ai primi è affidata prioritariamente la garanzia di trattamenti di base, variamente dimensionati, relativi a rischi e bisogni ritenuti di importanza tale da richiedere un diretto intervento pubblico. L’intento privato, espresso da organizzazioni sociali di vario genere, enti no profit, enti bilaterali fra le parti sociali, e anche da imprese con fini di lucro, è chiamato e talora incentivato a intervenire, più spesso per integrare e in qualche caso per surrogare l’iniziativa pubblica (in questi casi fino talora a prefigurare tendenze di ritorno a un welfare pubblico minimalista). Questa stratificazione su più pilastri che si sta diffondendo in quasi tutti i settore del welfare, previdenza, assistenza sanitaria e sociale, ammortizzatori sociali, tende non solo ad alleggerire il carico della spesa pubblica, ma anche ad allargare le opzioni di scelta dei beneficiari e talora a coinvolgerli nella gestione del sistema. Ambedue queste modifiche del sistema segnano la sua evoluzione da un impianto essenzialmente statale a uno territoriale e comunitario (dal welfare state a un community welfare).

Prospettive Future e la Centralità della Persona

Anche altre modifiche dei sistemi di welfare sono in corso e ancora soggette a test di efficacia. Mala priorità che le riforme continuano ad avere nell’agenda dei policy makers europei indica che la posta in gioco, anche per governi diversamente orientati, è non l’abbandono, ma l’adeguamento istituzionale e funzionale del welfare. È significativo che la ricerca di politiche sociali rivolte a finalità simili sia in corso, pur con percorsi originali, anche in Paesi, dagli Stati Uniti ad alcune grandi nazioni emergenti dell’Asia e dell’America del Sud, che non hanno avuto l’esperienza del welfare europeo. Del resto le criticità del presente contesto mondiale hanno acutizzato e non certo ridotto i rischi e i bisogni delle persone per cui è nato storicamente lo Stato sociale. La gravità del momento sta rafforzando i dubbi circa la capacità delle mere logiche di mercato di risolvere i grandi problemi delle società moderne, e la risposta ai bisogni di welfare è certo fra questi.

Qualità della vita e benessere non sono minacciati solo da povertà crescenti e da disuguaglianze che si radicalizzano. Nel recente discorso di Trieste, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha osservato: “Al cuore della democrazia ci sono le persone, le relazioni e le comunità a cui esse danno vita, le espressioni civili, sociali, economiche che sono frutto della loro libertà, delle loro aspirazioni”. La crisi della democrazia non sta certamente solo nelle difficoltà del welfare state.

In Italia, le famiglie in povertà assoluta sono l’8,5 per cento del totale e corrispondono a circa 5,7 milioni di individui. Sono saliti a 4,5 milioni gli italiani che rinunciano a curarsi, sia per ragioni economiche, sia per effetto della lunghezza delle liste d’attesa. Secondo i dati della Commissione europea, il 28,4 per cento delle persone con disabilità rischia l’esclusione sociale.

Il welfare è il punto da cui partire per provare a ricostruire coesione, fiducia e quindi partecipazione alla vita pubblica. Per questa ragione va rafforzato e riformato. Va incentivato il lavoro al suo interno e va rivista e in parte attuata la sua governance. La cultura della sussidiarietà appare particolarmente efficace nell’affrontare i problemi complessi perché si preoccupa di valorizzare esperienze, conoscenze e casi di eccellenza e su questi costruire delle partnership. Una parte fondamentale del successo di un servizio di cura e assistenza infatti è la qualità della relazione che si instaura tra i soggetti coinvolti, l’empatia che viene vissuta. Anche la stessa tecnologia va utilizzata in questo senso, per sostenere il rapporto umano, non per eliminarlo.

Le persone sono la loro storia, e le persone da sole si perdono. Quindi la primaria necessità del rinnovamento del welfare è quella di un contesto relazionale. Non esiste bonus o trasferimento monetario in grado di sottrarre un essere umano bisognoso all’abisso della marginalità e della solitudine.

Tabella Comparativa dei Regimi di Welfare

Regime di Welfare Paesi Tipici Caratteristiche Principali
Liberale Stati Uniti, Australia, Regno Unito (in parte) Prevalenza di misure assistenziali, schemi assicurativi circoscritti, prestazioni limitate ai bisognosi, largo ricorso al mercato.
Conservatore-Corporativo Germania, Austria, Francia Schemi assicurativi pubblici legati alla posizione professionale, prestazioni collegate ai contributi e/o alle retribuzioni.
Mediterraneo Italia, Spagna, Grecia Sistemi di protezione dualistici, squilibri tra categorie, ruolo importante della famiglia come ammortizzatore sociale.

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