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Stranieri a noi stessi: Un'indagine empatica sulla malattia mentale di Rachel Aviv

Parlare di salute mentale è sempre un rischio, soprattutto quando ci troviamo in un terreno di inesattezze senza confini. Può essere un racconto che scorre in una irrefrenabile discesa, o una estenuante salita. Nel suo saggio Strangers to ourselves, pubblicato negli Stati Uniti nel 2022, e da poco uscito in Italia per Iperborea con il titolo Stranieri a noi stessi, la scrittrice e giornalista americana Rachel Aviv ci consegna una raccolta di storie che forse è prima di tutto un tentativo di indagare questo nodo rimasto sommerso nei nostri discorsi. Oggi sempre più spesso si sente parlare di “salute mentale” ma nessuno si chiede cosa vuol dire essere malati di mente.

Tra le pagine di questo libro, Rachel Aviv sembra avvertirci: se non mettiamo a fuoco i sentimenti che ci legano all’idea che abbiamo di “malattia” continueremo a girare intorno alla “salute” trasformandola in una parola vuota che finirà per non significare più niente. Le storie raccolte da Aviv sono, ognuna a suo modo, la manifestazione del fatto che a non funzionare più è la stessa contrapposizione tra questi due concetti. L’idea della malattia come un destino da cui emanciparsi attraverso una serie di espedienti, che riguardano esclusivamente le persone considerate come individui - e che di volta in volta verranno definite curabili o non curabili, funzionanti o non funzionanti, in altre parole più o meno aggiustabili.

Alle prese con le diagnosi elaborate da una psichiatria al collasso, ognuna delle persone protagoniste delle storie raccontate in queste pagine si trova invece continuamente schiacciata da una forza più grande, che ne limita o ne minaccia in qualche modo la libertà di esistere - intesa come la possibilità per un individuo di intraprendere quello che potremmo chiamare il “proprio corso” o la “propria forma”, qualsiasi cosa voglia dire. Questa forza che è più estesa di un sé, più larga di una vicenda individuale, e che spesso viene tagliata fuori da narrazioni in prima persona singolare, la maggior parte delle volte è interpretata come una sorta di calamità, una contingenza dettata dal caso, un incidente.

Il fatto che invece abbia sempre in qualche modo a che fare con “gli altri”, con una dimensione collettiva, con un orizzonte di senso condiviso, viene del tutto omesso dal discorso, quindi dalla comprensione delle cose. Che ruolo hanno le storie che ci raccontiamo in tutto questo? si chiede e ci costringe a chiederci Aviv - testimonianze, pubblicità, racconti privati, ma anche cartelle cliniche, analisi, diagnosi. “La cultura modella i copioni che seguiremo per esprimere la nostra angoscia” scrive Aviv. “Le malattie mentali spesso vengono viste come forze intrattabili e incontrollabili che prendono possesso delle nostre vite, ma mi chiedo quanto le storie che raccontiamo su di loro, soprattutto all’inizio, possono modellarne il corso.

L'esperienza personale di Rachel Aviv

Rachel Aviv parte dalla sua esperienza personale, la sua storia di «presunta l’anoressica più giovane d’America». Aviv racconta i giorni del suo ricovero ospedaliero - e la sua amicizia con una ragazzina che fisicamente le somigliava molto, Hava - e della veloce regressione dei suoi sintomi, mentre prende la rincorsa per lanciarsi nelle “carriere” (così vengono chiamati i (de)corsi delle malattie mentali) di altri uomini e donne.

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Ora, da scrittrice e giornalista, specializzata in particolare su macrotemi come medicina, educazione e giustizia, Aviv s’interroga sulla propria guarigione: perché quella bambina di sei anni non fece dell’anoressia il suo personale strumento di comunicazione con il mondo e di conoscenza del proprio sé? Perché superò e sopravvisse a una malattia così fagocitante da diventare letale per altre pazienti?

Comincio le mie considerazioni dalla struttura. Le parti più “tecniche”, se così vogliamo definirle, sono sì scritte in modo accessibile, ma trattano di argomenti complessi che non sono proprio alla portata di tutti. All’inizio ho fatto molta fatica a entrare in connessione con questo tipo di struttura, la trovavo impersonale, e riuscivo a cogliere uno spirale di interesse solo nelle pagine scritte dalle persone di cui si narrava la storia.

Le storie di Ray, Bapu, Naomi e Laura

Per tutti i cinque i profili la giornalista del New Yorker scegli di alternare studi ed esperienza: raccoglie informazioni attraverso i diari dei protagonisti, i loro blog. Queste persone, oltre l’autrice, sono Ray, Bapu, Naomi e Laura. Incontriamo Ray, medico caduto in disgrazia e con un rapporto complesso con gli antidepressivi; Bapu, donna indiana venerata negli ashram e con una diagnosi di schizofrenia; Naomi, giovane donna nera, cresciuta in un quartiere popolare e madre di quattro figli; Laura, promettente studentessa dai brillanti risultati accademici e un sacco di punti interrogativi sulla propria identità; e infine di nuovo Hava, la cui “carriera” nell’anoressia ha avuto esiti molto diversi da quella di Aviv.

Ray è un nefrologo che per molti anni della sua vita si è dedicato al successo, finché entra in una strana «forma di melanconia» dovuta al non sentirsi mai all’altezza. Bapu è una casalinga bramina che, satura del suo rapporto familiare tossico, sceglie di sposare il misticismo indù. Naomi è una donna nera condannata per omicidio dopo essersi gettata in un fiume con i suoi due figli neonati (era convinta di essere seguita da assassini razzisti). Se da un lato la malattia mentale delle donne nere sembra non avere alcuna importanza, dall’altro lato la malattia di una studentessa di Harvard - il ritratto della perfezione - sfocia nell’abuso di farmaci.

Come dicevo prima, gli spiragli in cui l’autrice getta tra le pagine delle frasi prese dai racconti manoscritti di Ray, Bapu, Naomi, Laura, Hava sono quelli che ho preferito, perché hanno un’intensità che va oltre qualsiasi costrutto narrativo o dettame stilistico. Le storie che più mi hanno colpita sono quelle di Naomi e di Laura.

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È interessante come nel ricostruirne i vissuti attraverso ricerche mediche e interviste a conoscenti e familiari, Aviv ripercorra in realtà soprattutto la storia recente della psichiatria occidentale - dall’assetto psicanalitico alla nascita del manuale DSM, fino agli approcci fondati sull’assunto che tutto dipenda da una matrice genetica e sia risolvibile o non risolvibile attraverso la farmacologia - quindi in quest’ultimo caso non risolvibile affatto. E che lo faccia rimettendo insieme i pezzi di un discorso intorno alla salute come un processo di “civilizzazione” quasi traumatico, in più di un senso colonizzatore.

In quest’ottica, le motivazioni di una “malattia mentale” sono da rintracciare praticamente sempre in un percorso obbligato. Solo talvolta, e parzialmente, in una serie di scelte fatte dalle singole persone. Quasi mai nei contesti sociali o nelle condizioni economiche, nell’appartenenza a un genere o a una razza, in un insieme di credenze tossiche o nocive ereditate, anche, al di fuori della famiglia di origine. E se è vero che attribuire tutto a una matrice sociale può risultare generico, funzionare come una giustificazione per rendere un percorso intrasformabile a livello di “cure”, il problema principale di questo assetto consolidato è proprio che esclude del tutto le responsabilità condivise del malessere e della sofferenza a cui vanno incontro determinate persone più di altre.

La storia di Naomi, cresciuta negli anni Novanta nelle Robert Taylor Homes di Chicago, dove il 99 per cento degli abitanti era nero e il 96 disoccupato, ne rappresenta un valido esempio. “Quando vennero costruite nel 1962, le Homes” racconta Aviv “erano uno dei complessi di edilizia popolare più grandi del mondo. Ventotto palazzi di cemento identici, incastrati tra i binari del treno e una interstatale”. Ci abitavano 27.000 persone. “Naomi viveva al quindicesimo piano di un palazzo che faceva parte di quello che i residenti chiamavano il Buco” continua Aviv. Trovava la strada di casa “contando il numero di pianerottoli superati e spiando attraverso le porte per riconoscere il suo corridoio”.

“Le storie sulle malattie psichiatriche sono spesso profondamente individuali” scrive Aviv “la patologia emerge da dentro e così viene affrontata. Ma queste storie trascurano come e dove vivono le persone, i modi in cui la loro identità diventa un riflesso di come viene percepita dagli altri”.

Ancora poco si discute, per esempio, delle conseguenze che comporta nell’immaginario collettivo raccontare la sofferenza psichica come una malattia da cui si può guarire. Troppo spesso si parla di depressione come si parlerebbe di un’influenza - qualcosa che arriva a un certo punto della vita, che si può combattere e sconfiggere, che poi passa permettendo di tornare alla propria versione precedente. “Per quelli di noi che lottano da anni, la storia della restituzione a se stessi non è reale” scrive in un saggio citato da Aviv la psicologa Pat Deegan a cui è stata diagnosticata la schizofrenia a diciassette anni, per criticare alcune campagne pubblicitarie sugli antidepressivi. “La nostra guarigione” scrive ancora “è contrassegnata da un’accettazione sempre più profonda dei nostri limiti”. Se esiste una possibilità, si tratta più che altro di un percorso di trasformazione. Quanto di più lontano da un “ripristino”.

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È soprattutto questa recisione dalla realtà che rischia di rendere una bambina anoressica, una studentessa modello, una moglie impazzita, un uomo inadeguato, una cattiva madre, delle esistenze a parte, "straniere a se stesse” - come si definisce alla fine del libro la Hava adulta in una pagina di diario, e nonostante la conoscenza ormai approfondita del suo malessere, “non del tutto convinta di voler essere salvata”. E come se in fondo la vita non fosse per definizione un incessante tentativo di reinterpretazione di sé, del proprio stare in relazione, una trasfigurazione progressiva; con tutto lo straniamento che questo necessariamente comporta, soprattutto se avviene al cospetto di un orizzonte che tende a colonizzare o sopprimere tutto quello che sfugge a un presunto e neutrale criterio di normalità.

Bisognerebbe allora cominciare a mettersi in ascolto delle cose, prima ancora di trovare le parole adeguate per descriverle, sembra suggerirci Aviv. Hava per esempio non parlava mai di “guarigione”, le racconta il compagno in un’intervista molti anni dopo che si erano perse di vista. “Non assegnava alla sua nuova condizione nessun termine specifico”.

Lo stigma sociale e la mancanza di un linguaggio emotivo

Protagonista insieme a loro, lo stigma sociale che, come scrive Aviv, “è un problema relativo al fatto di non avere un linguaggio esistenziale ordinario a disposizione per parlare della sofferenza mentale”. Eppure, l’autrice svela la possibilità di un vocabolario composito, potente e mai tragico, per dare una voce a queste storie, che chiedono - e meritano - ascolto.

Queste storie compongono un saggio, che potremmo definire empatico, sulle solitudini che spinge a guardare da un’angolazione diversa la storia di una persona che cerca di sopravvivere a se stessa. “Stranieri a noi stessi” non è un libro che consiglierei a chiunque.

Quanta può essere confortante e liberatoria una diagnosi quando tutto ciò che sentiamo è un vuoto dentro, un malessere la cui origine non è percepita come immediatamente fisica? Può incasellare il caos, inquadrare la situazione, riportare nel binarismo di causa-effetto. Ma quanto questa diagnosi incide sul senso di sé, sull’identità, e quanta umanità scompare dietro un’etichetta? Nelle storie raccontate da Aviv, specialmente in quella di Ray e di Hava, ci si imbatte spesso in questa domanda.

Non solo: anche il linguaggio per descrivere la malattia mentale spesso appare inadeguato e castrante. Questo accade specialmente quando nel libro si prendono in esame anche aspetti socio-culturali legati alla salute mentale: la storia forse più emblematica in questo caso è quella di Naomi, cresciuta nelle Robert Taylor Homes a Chicago, un complesso di edilizia popolare dalle dimensioni mostruose, in prossimità di una stazione, senza spazi verdi attorno. Gli ospiti di queste case erano quasi ventisettemila persone.

Quasi mai nei contesti sociali o nelle condizioni economiche, nell’appartenenza a un genere o a una razza, in un insieme di credenze tossiche o nocive ereditate, anche, al di fuori della famiglia di origine. E se è vero che attribuire tutto a una matrice sociale può risultare generico, funzionare come una giustificazione per rendere un percorso intrasformabile a livello di “cure”, il problema principale di questo assetto consolidato è proprio che esclude del tutto le responsabilità condivise del malessere e della sofferenza a cui vanno incontro determinate persone più di altre.

Aviv parte lucidamente da sé, dalla Rachel bambina che precocemente si ritrova in una clinica di cura per un’anoressia nervosa nell’America di fine anni 80 insieme a un gruppo di adolescenti. Dalla ragazza di nome Hava, sua compagna di stanza, che a un certo punto avrebbe desiderato diventare, perché ai suoi occhi era “qualcuno migliore di me”. E ci introduce progressivamente alle vite di Ray, un “uomo irrisolto” del Maryland che voleva fare il musicista e invece ha studiato medicina restando incastrato in una versione idealizzata di ciò che avrebbe potuto essere; di Bapu, una sposa zoppa del Chennai, nell’India del Sud, soffocata dal ruolo di moglie e madre impostole dalla famiglia, che trova rifugio nel misticismo e nella scrittura; di Naomi, “bellissima ragazza” nera del Minnesota “scollegata dalla realtà” che esasperata da una vita di stenti e discriminazioni si getta nel Mississippi con i suoi due figli gridando “libertà”; e infine di Laura, studentessa modello ad Harvard, convinta di “non avere un sé di base”, tenuta in scacco da un cocktail di psicofarmaci dentro la “vita di una sconosciuta”.

“Spesso l’anoressia è stata descritta come un disturbo di lettura determinato dal consumo acritico di testi che presentano la magrezza come ideale femminile” scrive Aviv raccontando la sua relazione con la compagna di stanza che fa da cornice al libro. “Avevo appena cominciato a imparare a leggere. Non avevo mai sentito parlare di anoressia. Quando mia madre mi riferì la diagnosi, la parola mi suonò come una tipologia di dinosauro”.

Ognuna delle persone raccontate da Aviv ha assunto psicofarmaci per un periodo o per la maggior parte degli anni della sua vita a seguito di una diagnosi di schizofrenia, disturbo bipolare, anoressia, psicosi, a seconda dei casi. Ognuna di loro è stata dichiarata pazza o fuori di testa dalla sua cerchia di parenti, colleghi, amici.

R. D. Laing e Thomas Szazd suggerirono che la malattia mentale fosse una risposta naturale alla follia della società contemporanea. Ma la domanda «sono io a essere pazzo o la società?» sminuisce la realtà della disabilità mentale e presume l’impossibile: che il sé possa essere separato in maniera netta dalla società che lo forma (p.

Sarebbe da una parte bello se un saggio sul rapporto fra la psicologia e il racconto del sé fornisse risposte e non domande. Una risposta certamente plausibile è un carrolliano “qui siamo tutti matti”. L’opera di Aviv è decisamente particolare e accattivante, capace al contempo di delineare storie personali facendo percepire le loro ombre come universali e intrecciandole con definizioni e citazioni mediche, come trama e ordito di una grande tela.

Troviamo l’unico libro di Rachel Aviv, giornalista statunitense del The New Yorker, nella sezione “saggistica narrativa” della casa editrice Iperborea, con i seguenti tag: infanzia, malattia, salute mentale. Pubblicato in Italia all’inizio del 2024 e tradotto da Claudia Durastanti (che di estraneità alla società e ai corpi canonici sa qualcosa), Stranieri a noi stessi è in effetti questo, ma non solo: è un viaggio - con zaino pesante in spalla - attraverso la mente di cinque esemplari umani, la cui prima tappa è segnata dal racconto di ciò che ad Aviv è accaduto a sei anni.

Aviv racconta i giorni del suo ricovero ospedaliero - e la sua amicizia con una ragazzina che fisicamente le somigliava molto, Hava - e della veloce regressione dei suoi sintomi, mentre prende la rincorsa per lanciarsi nelle “carriere” (così vengono chiamati i (de)corsi delle malattie mentali) di altri uomini e donne.

L’autrice riporta che «tendenzialmente rifiutò di mangiare e bere», notando «le reazioni degli adulti intorno a sé e il suo vago senso di orgoglio» e avendo «preso l’idea [del rifiuto del cibo] dallo Yom Kippur» (pag. 11): in sintesi, le viene diagnosticata una forma di anoressia nervosa.

Incontriamo Ray, medico caduto in disgrazia e con un rapporto complesso con gli antidepressivi; Bapu, donna indiana venerata negli ashram e con una diagnosi di schizofrenia; Naomi, giovane donna nera, cresciuta in un quartiere popolare e madre di quattro figli; Laura, promettente studentessa dai brillanti risultati accademici e un sacco di punti interrogativi sulla propria identità; e infine di nuovo Hava, la cui “carriera” nell’anoressia ha avuto esiti molto diversi da quella di Aviv.

Il filosofo Ian Hacking usa il termine “effetto circolare” per descrivere il modo in cui le persone rimangono intrappolate in storie sulla malattia che si autoavverano. Una nuova diagnosi può cambiare «lo spazio di possibilità per senso che si ha di sé» (pag.

Queste storie compongono un saggio, che potremmo definire empatico, sulle solitudini che spinge a guardare da un’angolazione diversa la storia di una persona che cerca di sopravvivere a se stessa.

Parallelamente, cominciò a sviluppare tutte le paure che di questi disturbi sono causa e conseguenza: non pronunciava i nomi dei cibi ad alta voce perché temeva che nominare un alimento equivalesse all’atto di mangiarlo, non si toglieva le caccole dal naso perché sapeva che, se se le fosse tolte, il suo peso sarebbe calato e allora i medici non le avrebbero concesso il privilegio di telefonare a casa o di scegliere da sé il proprio menù, e così via. Tante regole introiettate osservando le altre pazienti e assecondando il desiderio di diventare come loro.

A differenza della maggior parte delle opere contemporanee, però, Stranieri a noi stessi non sfocia nell’autobiografismo: già a partire dal secondo capitolo, Aviv tace su se stessa per raccontare la vita di cinque persone che, incapaci di liberarsi dalle proprie ossessioni, sono rimaste imprigionate negli stretti e vincolanti confini di una diagnosi psichiatrica.

Dopo la lettura di testimonianze scritte - diari, quaderni, manoscritti inediti di alcuni pazienti - e dopo aver raccolto la testimonianza orale dei parenti e dei medici che li avevano avuto in cura, Aviv si fa portavoce delle loro storie: Ray, paziente schizofrenico tormentato dal proprio fallimento, sulla cui pelle si è riverberato lo scontro tra la psicoanalisi e la psichiatra neurobiologica degli anni Settanta; Bapu, una donna indiana, oppressa dai tradizionali ruoli femminili, la cui maniacale adorazione verso Krishna è stata classificata secondo criteri diagnostici imposti dalla cultura occidentale; Naomi, la cui condizione di donna nera e povera non ha permesso di accedere alle cure mediche e di essere riconosciuta come soggetto dotato di insight (tradotto in italiano come “introspezione”, indica il grado di consapevolezza di malattia); Laura, brillante studentessa di Harvard che, dopo aver ricevuto diagnosi di ogni tipo e dopo aver provato diciassette psicofarmaci, non è più stata capace di costruirsi un sé coerente e consapevole.

Consapevolmente e visceralmente abitata dalla malattia, Hava ha cercato per tutta la vita di capire sé stessa attraverso il linguaggio terapeutico, appuntando i propri pensieri quotidiani su un diario. Come lei, anche altri protagonisti di questi cinque racconti hanno avvertito e assecondato l’impulso di scrivere di sé e della propria malattia, pur consapevoli che il linguaggio che avevano a disposizione non era adatto a comunicare con il mondo dei «sani».

Lo stigma attorno alla malattia mentale nasce proprio dalla mancanza di un vocabolario esistenziale per parlare della sofferenza psichica, per entrare in relazione con l’altro e ascoltarlo nel momento in cui chiede aiuto per capire se il sentimento che sente dentro di sé è reale.

Aviv parla al plurale, incontra storie che diventano universali e scava a fondo anche della sua: lei, che a soli sei anni viene ricoverata per anoressia; Ray, che è un medico caduto in depressione e non si sente mai all’altezza; Bapu, che sceglie la devozione e il compromesso di una diagnosi di schizofrenia per fuggire al suo destino; Naomi, che voleva solo essere considerata nelle sue cicatrici; Laura, bipolare, che era intrappolata come nella vita di una sconosciuta; Hava, che si sentiva straniera a sé stessa. Questa lettura è un inno all’umanità in tutte le sue fragilità, che rivendica il diritto di trovare le parole per essere riconosciuti e raccontati.

Alle volte cerchiamo di ostentare versioni edulcorate di noi stessi e ci sforziamo a contenere le nostre moltitudini. Ma non è mai facile, perché ci dimentichiamo che siamo esseri umani, vasti, fragili, imperfetti, e accade che il corpo e la mente, dove cerchiamo di arginare le nostre emozioni, manifestano versioni altre di noi. Quella linea che abbiamo tracciato tra noi e il mondo svanisce e quell’insieme di cellule e impulsi nervosi che ci mettono in relazione con l’esterno, ci tradiscono. Diventiamo scomodi a noi stessi.

A indagare il terreno di questo innesto che salta e trasformarlo in un manifesto di vita vera, è Rachel Aviv, giornalista del New Yorker, nel suo libro Stranieri a noi stessi (Iperborea). Un memoir scandito in sei vite che racconta la sofferenza della malattia mentale, la mancanza di una grammatica emotiva e sociale per definirne le coordinate, la speranza di un percorso di cura.

Queste storie compongono un saggio, che potremmo definire empatico, sulle solitudini che spinge a guardare da un’angolazione diversa la storia di una persona che cerca di sopravvivere a se stessa.

In Italia il tema della malattia mentale ha acquisito importanza, soprattutto dopo la pandemia, ma il bonus psicologo non sembra avere la stessa rilevanza per il Governo: se al bonus psicologo 2022 erano stati destinati 25 milioni di euro, i fondi sono scesi a 5 milioni di euro per il 2023 e a 8 milioni di euro per il 2024.

Queste storie compongono un saggio, che potremmo definire empatico, sulle solitudini che spinge a guardare da un’angolazione diversa la storia di una persona che cerca di sopravvivere a se stessa.

Non abbiamo grandi editori alle spalle. Gli unici nostri padroni sono i lettori.

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