Ho Visto Nina Volare: Un Viaggio nel Mondo di Fabrizio De André
Sono passati più di vent'anni da quel giorno di gennaio che portò con sé la notizia della scomparsa di Fabrizio De Andrè. E ci sono tante ragione per le quali il suo “mito” è cresciuto da allora di anno in anno. La sua poesia acquista bellezza con il tempo, le sue canzoni, le sue visioni, i suoi ragionamenti sono attualissimi.
“Mitizzare le persone che non ci sono più è quanto di più inutile e sciocco - racconta Bruno Maria Ferraro che in questi anni ha attraversato più volte il repertorio dell’artista genovese - Ma se c’è una cosa che va riconosciuta a Fabrizio è quella di aver parlato e cantato pezzi della nostra società che collochiamo ai margini. La Genova dell’angiporto, il mondo delle prostitute, le spose bambine degli zingari di Khorakhané, il piccolo mondo di Pasquale Cafiero.
Genova. Il mare. I suoni del mediterraneo. Il porto. E poi la Sardegna andando fino al cuore di quella terra, il sogno dell’agriturismo e la malattia del sequestro. E ancora, il Piemonte, terra di cascine abitate nell’infanzia.
La Genesi e il Significato di "Ho Visto Nina Volare"
"Ho visto Nina volare" è uno dei brani più intensi di Fabrizio De André. Per questo è stato scelto come brano iniziale della raccolta “Tu che m’ascolti insegnami” di Sony Music, uscita il 24 Novembre 2017. Curata dalla moglie Dori Ghezzi, l’album è diviso per tematiche, dall’amore, alla guerra, all’infanzia dell’autore.
Ho scelto di tentare un'analisi della canzone Ho visto Nina volare perché penso sia rappresentativa dell'ultimo periodo creativo di De André. Un aspetto che rende De André uno dei più interessanti cantautori a livello internazionale è il suo percorso artistico.
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Pochi come lui hanno saputo mettersi in gioco, accrescere il proprio bagaglio tecnico, far frutto delle molteplici esperienze e non ultimo capire i propri limiti e cercare in altre persone il mezzo per superarli. Qualsiasi persona, anche con pochissima competenza musicale, può notare la grandissima differenza che sussiste fra le prime canzoni, che risentono dell'influsso e dello studio di Brassens, Cohen e successivamente Dylan, e le ultime, vero e proprio sunto delle conoscenze maturate in poco più di un trentennio di attività artistica.
Queste differenze non si notano a livello profondo, a livello cioè di contenuti: De André dichiarò più volte negli ultimi anni che La città vecchia era un sunto del suo pensiero; dato che questo brano è stato scritto nel 1962, a 22 anni, non si può non dar credito all'affermazione dell'autore che un artista ha poche idee ma fisse.
L'evoluzione artistica è invece riscontrabile soprattutto nell'affinamento della tecnica letteraria e nella ricerca musicale, aspetti costantemente approfonditi nelle collaborazioni con musicisti italiani di varia provenienza (sia culturale che musicale). Anime Salve (1996-BMG RICORDI) è il vertice di questa evoluzione ed è toccante il fatto che coincida involontariamente anche con il testamento dell'autore.
Se lo si ascolta da più prospettive (letteraria, musicale, dei contenuti) e si ha un po' di cognizione dei lavori precedenti si troveranno qui, in nove canzoni, tutti gli ingredienti che costituivano i singoli periodi della produzione di De André. In ambito letterario l'uso di più lingue (brasiliano, rom, genovese), l'utilizzo di una metrica libera, l'incredibile capacità di condensare in poche parole contenuti complessi; in ambito musicale l'utilizzo di strumenti della tradizione popolare mediterranea, la perfezione nella costruzione e nell'orchestrazione (De André era diventato sempre più esigente in proposito) e non ultimo un utilizzo raffinato delle sue qualità vocali, anch'esse affinatesi con gli anni.
E' come se De André avesse scritto un libro e l'avesse messo in musica. Il libro è in versi, il titolo è "Anime Salve", l'argomento è il mondo intero, i protagonisti sono tutti quei personaggi che hanno sempre popolato le poesie in musica dell'autore, che in un certo modo gli sono stati vicini, ma a cui soprattutto egli è stato vicino: prostitute, travestiti, rom, bambini, emarginati, esclusi, noi stessi, anime solitarie.
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L'impressione di un primo ascolto è fondamentale, e soprattutto interessante. Quanto si riesce a comprendere di questa canzone alla prima esperienza? Qual è l'impressione diretta, l'effetto che ha sull'ascoltatore? Ascolto quest'album dal 1996, da quando avevo cioè 12 anni, e perciò mi risulta difficile immedesimarmi nell'esperienza di un primo ascolto.
Affidata al tom, al couscous (strumento a percussione) e alla chitarra classica occupa i primi 30 secondi della canzone. In sé non presenta nulla di sorprendente per la prassi compositiva di De André: la chitarra è sicuramente lo strumento più usato, sempre presente in quasi tutte le sue 128 canzoni.
Un uso più accurato delle percussioni arriva soprattutto dopo l'incontro con Pagani, in particolare dopo lo studio sugli strumenti della tradizione mediterranea fatto per l'album Creuza de ma; anche in questo caso ci troviamo di fronte ad un mezzo ormai codificato. Il giro armonico della chitarra (Do-, Fa, Sib7, Sol-, Do-) è anch'esso familiare a questo linguaggio, soprattutto per l'utilizzo del V grado minore, quindi del Sib anziché del Si naturale, cioè la sensibile (si pensi al giro armonico di Il ritorno di Giuseppe o a Geordie).
Questo espediente ha sempre dato ad alcuni giri armonici di De André un qualcosa di antico, seppur in modo stereotipato. In effetti l'utilizzo della scala armonica naturale rimanda a tutta quella musica costruita nel periodo di transizione fra concezione modale e concezione tonale.
La prima strofa, cantata , come sarà poi tutta la canzone, su un giro armonico semplicissimo di Do- e Sol7/Si-, ad un primo ascolto risulta molto criptica. "Mastica e sputa..." sembra un monito, un consiglio, un proverbio, ma il significato rimane abbastanza oscuro. Dalla seconda strofa sembra iniziare una riflessione fatta di domande e ricordi.
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Rispetto alla prima strofa la melodia cambia, ma non in modo sostanziale. L'estensione è maggiore (Sol2 / Sol3) e il primo e il quarto verso di ciascuna strofa con questa melodia (cioè II-IV, VI-VII, IX-X) sono intonati a partire dalla nota più acuta (Sol3). Questo conferisce un tono più intenso, modulato sapientemente da De André dinamicamente e timbricamente a seconda del contesto.
La terza strofa introduce il personaggio del titolo della canzone. Non ci viene detto chi sia, semplicemente veniamo a sapere che è un personaggio conosciuto dall'Io narratore, probabilmente da bambino. La metafora e la similitudine utilizzate rivelano il desiderio che ricorda di aver provato nei confronti di Nina. Un desiderio quasi inspiegabile per l'età, forse le prime manifestazioni di un impulso sessuale celato nel testo da un immagine così bella e pura come quella del vento e dell'altalena.
La terza strofa è unita alla quarta e questo avviene tramite un lievissimo glissato della voce sulla parola "schiena". In effetti il concetto che segue è strettamente legato al desiderio di Nina: la paura del giudizio del padre di lui. Ancora una volta siamo riportati nel mondo dei bambini, quando la figura paterna incute un certo timore in relazione a ciò che crediamo sia proibito.
La quinta strofa conclude la prima parte della canzone. Il testo è identico alla prima (unica variazione: "faccia" al posto di "venga" nell'ultimo verso). Altri timori nei confronti del padre. La paura del buio, metafora di ciò che non si conosce, di ciò che ancora bisogna scoprire con l'esperienza.
Ma nei confronti del padre si ha anche vergogna di aver paura, di dimostrarsi non all'altezza. Allora il bambino cerca di spaventare la paura e di nascondersi da essa (le ho mostrato il coltello e la mia maschera di gelso). Suggestiva l'introduzione del bansuri (strumento a fiato di legno di origine africana) subito dopo la parola "ombra".
Le canzoni di De André non parlano mai di ovvietà. Anche il tema dell'amore, banalizzato ed abusato in tutta la musica leggera, non viene mai trattato con leggerezza (si pensi ad Amore che vieni, amore che vai e soprattutto a Verranno a chiederti del nostro amore). La comprensione dei testi della prima produzione è piuttosto semplice; più complicata è la riflessione, per chi voglia farla, sui contenuti.
Dopo l'esperienza con Francesco De Gregori (Volume 8, 1975) il linguaggio poetico si fa molto più ermetico, sovente un solo ascolto non è sufficiente alla comprensione ed alcuni passi prevedono volutamente più interpretazioni (si pensi ad esempio a La Domenica delle salme). Tornano utili in questi casi le interviste o le testimonianze riportate dell'autore stesso o da chi gli era molto vicino.
Conoscendo questi documenti tante volte scompaiono del tutto le difficoltà. Non so se questo è un elemento a vantaggio o a svantaggio della poetica di De Andrè. Dico una banalità affermando che molti poeti hanno scritto volutamente in modo da stimolare più interpretazioni. Semplicemente di De André spesso abbiamo la chiave per risolvere certi enigmi. Forse in alcuni casi lui avrebbe preferito rimanere ermetico.
Dopo aver ascoltato la canzone di sicuro ciascuno è portato a riflettere sul significato della prima strofa. "Mastica e sputa / da una parte il miele... dall'altra la cera..." Distinguere cioè il dolce della vita da ciò che non lo è. Scegliere solamente il buono, scartare il cattivo, prima che venga neve, prima che si invecchi. Ma dire buono o cattivo, brutto o bello è troppo semplificativo, qualunquista.
Distinguere implica una scelta e una scelta implica saper scegliere. Sapere è conoscenza, la conoscenza è data dall'esperienza maturata durante il cammino di un'esistenza. Durante un concerto, il 14 febbraio del 2000 a Perugia, Ivano Fossati, coautore della canzone, raccontò che mentre lavoravano al disco lui e Fabrizio stavano girando il Sud e vicino a Matera notarono dei vecchi che masticavano il favo per separare la cera dal miele.
Da quell'immagine nacque la canzone, in poco più di 40 minuti. Ecco spiegata l'origine di questa strofa. Non un'invenzione dal nulla bensì una tradizione secolare delle vecchie apicoltrici lucane. Interessante di sicuro, non fondamentale nella comprensione, anzi, per certi aspetti fuorviante. Ritenere che la strofa sia un puro virtuosismo intellettuale che solo pochissimi potrebbero cogliere riporta il tutto ad una dimensione materiale che non si addice alla canzone.
De Andrè nacque a Genova nel 1940, durante gli ultimi anni della guerra la sua famiglia fu costretta a trasferirsi nella casa di campagna di Revignano d'Asti. Ho visto Nina volare è quindi impregnata di ricordi personali ed esperienze presenti. Ma non vi è nulla che riveli questo.
L'isolamento in questo caso è dovuto al rapporto conflittuale con l'autorità paterna. Il padre è l'adulto che il bambino vede come un ostacolo ai suoi sentimenti non compresi, e allo stesso tempo una figura di riferimento, una meta, il simbolo del superamento dell'età infantile.
L'adulto non teme il buio e il bambino cerca di mascherare la sua paura, illudendosi di aver vinto, di essere cresciuto. Il coltello e la maschera appartengono rispettivamente al mondo adulto e al mondo infantile. Una curiosità: perché proprio di gelso la maschera? Forse non c'è una spiegazione logica, ma semplicemente metrico-musicale.
Ad ogni modo c'è un detto sardo (e si sa la familiarità che De André aveva con questa lingua) che dice: "Foza 'e murichesse - chie la fachet la pessat - Foza 'e neulache - chie la pessat la fachet" (Foglia di gelso - chi la fa la pensa - Foglia di oleandro - chi la pensa la fa). Il gelso è considerato nell'araldica simbolo di ponderatezza...
Aspetti metrici-formali
Come molta produzione di De André anche questa poesia è costruita con versi piuttosto irregolari. Si va dal quinario al novenario, con una predominanza di settenari. L'uso della rima e dell'assonanza è sporadico e irregolare, se si esclude la prima strofa dove la rima alternata è data dalla ripetizione del primo verso dopo il secondo e il quarto.
Fra struttura metrica e intonazione vi sono alcune divergenze. Il secondo e il quarto verso sono senari. L'accentuazione del secondo è particolare. Leggendo (daˆuna parteˆil miele) gli accenti più naturali sono sulla terza e la quinta sillaba. Quindi non ha né un andamento anfibraco né trocaico.
Forse quello trocaico si potrebbe adattare (dàˆuna pàrteˆil mièle) ma risulta comunque troppo forzato. Musicalmente avviene qualcosa di simile: la terza e la quinta sillaba conservano l'accento, la prima, seppur in levare, porta un accento molto debole, un leggero appoggio della voce.
Una spiegazione potrebbe essere data dal fatto che se si unisce il primo al secondo verso si ottiene un endecasillabo a minore. Ma il testo originale presenta questa divisione.
II. Novenario, metricamente non correttissimo. L'accento cade sulla terza e la penultima sillaba, e leggendo un accento debole potrebbe essere sulla quinta, ma il ritmo anapesticogiambico sarebbe una forzatura. Nell'intonazione oltre agli accenti di terza e penultima si aggiunge un lievissimo accento sulla sesta.
IV. Interessante quest'ultimo verso. Nell'intonazione però l'accentazione non è così. Il primo accento è eliminato e l'ultimo reso molto debole dal prolungamento dell'ultima vocale a. Ciononostante l'idea di qualcosa di sfuggevole è mantenuto dall'intonazione, dal glissato sulla a che conduce direttamente alla quarta strofa. Non saprei quale di questi due espedienti sia il più efficace.
Anche in questo caso l'accentazione è singolare. Sia nella lettura che nell'intonazione gli accenti più naturali cadono sulla prima la quinta e la sesta sillaba (l'òmbra che mi fàˆil vèrso). Il ritmo di questi due versi tende a sfuggire verso la penultima sillaba. La melodia del secondo comincia in battere anziché in levare come in passi simili (secondo verso terza strofa) venendosi a creare una pausa alla fine del primo.
Accentazione irregolare. Il ritmo si chiarisce se consideriamo una sinafia con il verso precedente (coltelloˆe la mia màschera di gèlso). La ripetizione delle strofe non è invariata anche dal punto di vista melodico. Vi è un passo, che fa quasi rabbrividire, simile ad un madrigalismo. Al secondo verso della strofa, sulla parola spegne la voce fa un salto di ottava discendente (Do2-Do1).
Nella maggior parte della sua produzione De André si è concentrato soprattutto sul testo. Quindi la stesura...
"Ho Visto Nina Volare" e l'Infanzia di De André: La Testimonianza di Nina
“Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena…”, eppure io me la ricordo diversamente. Era un bambino quello che spesso si accaparrava l’altalena della casa del mezzadro, si sedeva sul seggiolino e volava. Chi lo spingeva era una bambina. Lui si chiamava Fabrizio, e lei Nina.
Nina è l’amichetta di giochi della sua infanzia. L’uomo vede Nina volare e si ripromette di prenderla uno di questi giorni.
Ho visto Nina volare è la canzone che Fabrizio De André ha inserito nel suo ultimo album, Anime salve. Un brano che mi ha dedicato e che parla di noi, della nostra infanzia spensierata all’insegna della libertà, mentre a pochi metri di distanza la guerra imperversava.
Io e Fabrizio siamo nati nello stesso anno, il 1940, siamo cresciuti insieme a Revignano d’Asti. Avevamo due anni quando la famiglia De André acquistò la cascina accanto a quella dove viveva la mia famiglia. Erano sfollati in Piemonte perché il padre era ricercato dai fascisti per aver dato rifugio ad alcuni ebrei nella sua scuola. Il professor De André arrivò con la moglie Luisa, i figli - con Fabrizio c’era il fratello maggiore, Mauro - la madre e la suocera.
Io, Mauro e Fabrizio eravamo gli unici bambini, quindi fu naturale diventare compagni di giochi. Ben presto rimanemmo solo io e Bicio - così lo chiamavamo tutti. Suo fratello era più grande, molto riservato e solitario, noi invece eravamo due zingarelli scalmanati che passavano le giornate all’aria aperta a correre tra i campi, a fare scherzi, a giocare con gli animali, e ad andare sull’altalena: era il nostro gioco di ogni giorno, d’estate. La nostra è stata un’infanzia felice e Fabrizio è qui che ha scoperto il suo grande amore per la natura, gli animali e la vita di campagna.
Ricordo che spesso, quando litigavamo, lui mi diceva in un perfetto dialetto piemontese: «Ricordati Nina, s’am fai anrabié at spus pi nen!» (Ricordati che se mi fai arrabbiare non ti sposo più).
Io sono sempre rimasta alla Cascina dell’Orto invece, mi sono sposata, ho avuto due figli, ho vissuto con mia madre e la famiglia di mio marito. Poco è cambiato negli anni, fino al 20 settembre del 1997. Era un sabato come tanti altri, io ero all’ombra di una pianta e stavo mettendo i peperoni in composta. Mio marito Antonio mi si avvicinò con un’espressione sorpresa e mi disse solo: «Al cancello c’è De André».
Subito pensai che fosse uno scherzo, ma poi andai a vedere, ed era proprio vero. Fabrizio era lì, quarant’anni dopo. L’idea che mi ero fatta di lui negli anni era che, diventato una celebrità, un personaggio famoso, fosse cambiato, fosse diventato un signore sofisticato, ed invece l’uomo che mi trovai davanti era la persona più semplice e alla mano che potessi immaginare.
Tornammo indietro nel tempo, a quei due bambini che non ci avevano mai abbandonato ed erano rimasti dentro di noi in attesa del giorno in cui ci saremmo rivisti. Fabrizio volle rivedere i nostri luoghi, la casa dove era cresciuto, il portico, la sorgente e il pozzetto delle salamandre dove da bambini passavamo le ore ed i pomeriggi interi, per poi tornare a casa con l’acqua fresca per le nostre famiglie.
Mi fece moltissime domande su quei nostri anni spensierati, mi chiese se mi ricordavo come si chiamasse l’asinella che suo padre gli aveva regalato il Natale del 1944. Si chiamava Lidia, e io me lo ricordavo perfettamente. Ripensammo insieme alle canzoni popolari che si cantavano durante la guerra, alle parole che non avevamo dimenticato e a tutto ciò che amavamo, come il pane che faceva ogni giorno mia nonna.
Fabrizio rimase con noi quattro ore: gli offrimmo del Moscato ma lui lo rifiutò, erano più di dieci anni che aveva smesso di bere. In compenso fumava una sigaretta dietro l’altra, quelle non le avrebbe mai abbandonate. Gli chiesi perché non fosse tornato prima. Lui non mi diede una vera e propria risposta, solo mi disse: «Ti ho ricordata in una canzone».
Io mi commossi, proprio come era successo l’anno precedente, quando l’avevo ascoltata per la prima volta. Mio figlio era tornato a casa un pomeriggio e mi aveva detto che De André doveva avermi dedicato una canzone. Io avevo dato poco peso a questa rivelazione, non poteva essere vero. Poi, però, la ascoltai e vidi il videoclip in televisione: c’erano due bambini, una femmina e un maschio, una bicicletta, delle corse a perdifiato per i campi. Non ebbi più dubbi, quella canzone era per me, i ricordi, l’altalena, il miele delle api che tanto ci interessava osservare, il padre che aveva dovuto cambiar paese.
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