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Stranieri Come Noi: Uno Sguardo Alle Recensioni di "Ferrovie del Messico" e "Storie dell'Orrore"

Ho letto Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi nell’ottobre del 2022, un po’ per caso; l’avevo comprato mesi prima, insieme a tanti altri libri, per via del tam-tam mediatico che lo aveva segnalato come libro imprescindibile della solita magra stagione letteraria italiana. Sono un consumatore banale: se una cosa è pubblicizzata tanto mi convinco del suo valore, o perlomeno la acquisto. Mi aveva poi incuriosito la trasformazione di Giulio Mozzi, editor della collana fremen di Laurana per cui è uscito il romanzo, in instancabile ufficio stampa.

Ho iniziato a leggere il libro un pomeriggio in cui non avevo molto da fare, aspettando il momento esatto in cui iniziasse a piacermi. Un’attesa vana. Ricevevo stimoli divergenti, un totale disinteresse per la trama e l’atmosfera ad alto gradiente sentimentale in cui l’azione si svolge (siamo alle battute finali della seconda guerra mondiale, nella repubblica di Salò, ma i personaggi sembrano usciti per metà dal Favoloso mondo di Amélie e per metà da un qualsiasi film indipendente presentato al Sundance), mi scoprivo infastidito dai giochetti postmoderni derivativi (la quest, il manoscritto che non si trova, un mondo letteralmente abitato solo da poeti, il cosmopolitismo forzato) ma la scrittura aveva dei tratti indubbiamente interessanti, o perlomeno insoliti, un procedere magmatico, ipertrofico, un ritmo ben cadenzato che portava con sé detriti e scorie provenienti da mondi distanti, dominato dall’analogia, dall’accumulazione e da una sorta di ontologia olista.

Certo, non sempre questa scrittura era ugualmente convincente, accanto a frasi e a riprese che blandivano il mio gusto, a specialismi o dialettalismi che ho dovuto googlare (e per cui ringrazio sempre uno scrittore), il torrente tipografico portava con sé luoghi comuni, movenze ed espressioni del traduttese («le protesi mammarie in silicone sono una cannonata», espressione - che una cosa è una cannonata - ripetuta più volte da diversi personaggi e che non ho mai sentito in italiano pronunciata da qualcuno in carne e ossa ma letta solo nei libri giovanili di Wallace), ingenuità, elementi kitsch, effetti di comico involontario, o semplicemente associazioni mal riuscite (nel libro ogni sensazione che uno dei personaggi avverte può essere accompagnata anche da mezza pagina da similitudini, similitudini che spesso sembrano più che altro un esercizio di scrittura automatica, riescono a farci dimenticare di cosa si stava parlando in partenza, non sono un supporto euristico o visivo, ma solo un affastellarsi di cose, un rumore di fondo).

Le recensioni che finora ho letto di Ferrovie del Messico hanno tutte un gran pregio: non dicono niente. Ripetono che si tratta di un libro importante (ok, usano un’aggettivazione meno cauta), ne riassumono in parte la trama (siamo nel 1944 ad Asti, Cesco Magetti ha un terribile mal di denti e deve disegnare in una settimana una cartina contenente la rete ferroviaria del Messico, perché i nazisti la vogliono, perché forse esiste una città nascosta che serba una pericolosa arma, o un mistero), e poi elencano quelle quattro/cinque caratteristiche per cui il romanzo appartiene a quel genere che solitamente chiamano opera-mondo, un corredo morfologico che appartiene a centinaia di romanzi (a volte ne elencano qualcuno, solitamente quelli citati da Griffi stesso o dal suo postfatore, non problematizzano la definizione), ma che per loro è la garanzia che il libro di cui si sta parlando contenga un qualche valore (ho il ricordo vivido di me in primo liceo che ascolto un ragazzo di terza dire a una mia compagna di classe: «tu hai un mondo dentro, dobbiamo uscire insieme»).

Devo ammettere che gli articoli che ho letto non hanno totalmente torto: Ferrovie del Messico ambisce ad essere un romanzo massimalista (definizione più precisa, che riprendo dal saggio di Stefano Ercolino e che preferisco alle varie systems novel, mega-novel e all’opera mondo morettiana), ma lo è, in qualche modo, in salsa italiana. Qual è la prima caratteristica che Ferrovie del Messico condivide con i romanzi a cui è stato (il più delle volte ingiustamente) paragonato e che formano questa classe testuale? La lunghezza. Anche Ferrovie del Messico è un libro lungo. Lungo, ma non enormemente lungo. 800 pagine ma i caratteri sono generosi, il formato del volume è 19×12. E poi tutto sommato è un romanzo molto scorrevole, i vari rimandi iper e intertestuali sono sempre intuitivi (livello primo anno di università ma saltando le lezioni, il teschio di Amleto, la pazzia di Astolfo ecc.), al punto che se Wallace diceva che per leggere con cognizione di causa il suo romanzo sarebbero serviti due anni, per Griffi bastano i pomeriggi di una settimana lavorativa (il che non è una cosa negativa di per sé).

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Quindi, lunghezza, o meglio, in questo caso, la mole. Il libro è grande, pesa, è scomodo da portare nello zaino. Questa quantità si trasforma in un correlativo oggettivo della sua qualità, secondo uno slittamento consueto del mercato editoriale. Il lettore è convinto, acquistando il romanzo, di accaparrarsi una grande quantitativo di Cultura, e che questa dose massiccia lo renderà una persona migliore. Il libro come merce. Come feticcio identitario. Il piacere della voluminosità. Il grande successo in termini di vendite dei libri grossi, in una cultura fondata sulla sacralità delle opere gigantesche (l’Iliade, l’Odissea, la Bibbia, la Divina Commedia, il Paradiso perduto, Faust, il manuale di anatomia, l’Ulisse, Proust, Infinite Jest, il codice di giustizia civile).

C’è un’altra particolarità che spiega tutto questo entusiasmo per Ferrovie del Messico, e cioè che l’autore non è un accademico, o un intellettuale affermato, ossia, sostanzialmente, secondo molti, un delinquente, un bandito, un raccomandato, uno stronzo, un massone. Gian Marco Griffi gestisce un campo da golf ad Asti, non è un affiliato del velenoso mondo delle bellelettere. E questo ci è ricordato in continuazione nelle recensioni, e perfino nella postfazione del libro redatta da Marco Drago, come fosse un merito.

Uno dei tratti principali che definisce il romanzo massimalista e su cui tornano favorevolmente le recensioni a Ferrovie del Messico è la coralità/polifonia. Griffi è un bravo scrittore, ma la sua polifonia regge solo apparentemente. Innanzitutto la focalizzazione sembra interessare quasi esclusivamente Cesco Magetti, il protagonista, e quindi la polifonia riguarda soprattutto gli interlocutori con cui questo entra in contatto. Ed effettivamente ogni gruppo tende ad avere il proprio gergo (come quello, molto ben congegnato, dell’Aquila Agonizzante), e ci sono personaggi caratterizzati da una lingua forte (il sardo della curandera, ma in una scena minuscola, il romano macchiettistico e goffo e wanna be gadda del capo di Cesco, la lingua blasfema di Lito Zanon).

Si tratta però solo di parziali allontanamenti (e tutti limitati alla variabilità diastratica) dalla lingua superfetata che fa da cornice e contenuto del romanzo. È difficile trovare una differenza linguistica o stilistica tra le lettere di Isotta o le ruminazioni di Tilde, tra i ricordi di Bardolf Graf e i pensieri di Cesco. E questa lingua, per quanto eclettica e variegata, si muove secondo dei moduli abbastanza fissi: torsioni espressionistiche, una tendenza al “poetichese” nelle selezioni aggettivo-verbo o predicato-complemento oggetto, una preferenza per similitudini “a compasso largo”, una coazione quasi patologica verso l’elencazione paratattica agglutinante.

Questa super-lingua, come già detto, a volte funziona a volte meno, ma soprattutto pervade tutte le scene del romanzo, che si tratti di beghe di ufficio alla stazione ferroviaria di Asti o di poeti sperduti nel profondo Messico. Questa lingua è insomma una sorta di colla, ed è il vero elemento strutturante di Ferrovie del Messico. Al suo interno si innestano elementi dialettali e gergali, che sicuramente aggiungono colore, ma sono fenomeni estemporanei, secondari.

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Possiamo così introdurre un altro elemento di critica al romanzo (o meglio, di critica a come il romanzo è stato presentato), quella che Ercolino chiama l’esuberanza diegetica. I romanzi massimalisti sono pieni di storie. Storie nelle storie, storie a incastro, storie a specchio, metastorie, come un avvelenamento fungino. E questo per Ferrovie del Messico è vero, ancora una volta, solo in parte. L’impressione che ho avuto è che queste storie siano più che altro evocate, nominate, mai realmente narrate, tolto nel caso (abbastanza breve ma rilevante nell’economia narrativa) di Bardolf Graf e dei peregrinaggi in Messico dello scrittore Gustavo Adolfo Baz in compagnia di Lito e Mec. Per il resto è difficile perdere di vista la trama principale. Il motore che fa aumentare i giri della narrazione è centripeto, non centrifugo. A ben vedere, il mondo a prima vista così vasto del romanzo si riduce a una manciata di luoghi significativi, che attraggono i pochi personaggi rilevanti (non più di cinque) come una calamita.

Passando ad analizzare un'altra opera, Storie dell'Orrore di Peter Nàdas, notiamo come anche in questo caso il contesto storico e geografico giochi un ruolo fondamentale. Nelle notti rigide si gelava tutto, sotto però la terra scaldava, le crepe si fendevano con gran fracasso. Lo sentivamo dentro casa. Sentivamo che là fuori tutto schiantava e si spaccava. E spaccandosi smuoveva la terra sotto le case. Da queste parti la terra non è altro che sabbia, sabbia, un po’ di detriti e sedimenti alluvionali. Sussultava come se a scuoterla fosse il Padreterno. A parte tutto questo, era bella quella distesa di terra bassa che si perdeva a vista d’occhio e languiva senza un padrone, quel terreno di qualità scadente, pieno di buche, fangoso, sabbioso, argilloso che la gente si ostinava a chiamare statale e dove, all’infuori di muschi e licheni, le piante sopravvivevano a stento. Tutt’al più in primavera sopra quella pianura ondeggiava il giallo luminoso dei ranuncoli, o sul finire dell’estate la colorava il viola arido del garofano del poeta. I grilli ci andavano per accoppiarsi e riprodursi, d’estate era pieno di cavallette.

Siamo negli anni ‘70, in un piccolo villaggio adagiato sulle rive del Danubio e la narrazione si dipana nel corso di pochi giorni in una calda estate ungherese. Iniziamo a seguire la quotidianità di diversi personaggi che animano la vita di questo villaggio, apparentemente senza un particolare spunto di trama. La prima parte è tesa in primis a fornire l’ambientazione rurale fatta di lavoro , fatica e preghiera per gli indigeni e di passeggiate, bagni fluviali e tè borghesi per i villeggianti ricchi provenienti dalla città. In seconda battuta l’ampia introduzione mira a farci familiarizzare con alcuni di questi personaggi che poi diverranno protagonisti indiscussi. Alcuni di questi vale la pena sviscerarli in profondità perché sono indimenticabili.

La prima coppia che ci viene presentata è quella di Terez la Racchia e Roza. La prima è una vecchia inacidita dagli anni e dallo stigma sociale, una megera che dopo una carriera da domestica tra le famiglie cittadine altolocate di Pest, rimane incinta di un nobile, viene ripudiata ed è costretta a rifugiarsi in campagna, tra agricoltura e ospitalità verso i vecchi padroni per alzare qualche soldo in più. Terez rappresenta la donna vecchia del focolare, un archetipo che possiamo ritrovare nei nostri nonni i nostri vecchi zii dediti alla terra e all’allevamento, dalle cui bocche non fuoriesce un vocabolario emotivo ma solo turpiloquio e parolacce quindi preferiscono esprimere il loro affetto attraverso il lavoro, le azioni, l’abnegazione al fare. Alle sue dipendenze lavora Roza, una bracciante minorata nell’intelletto, schifata dalla comunità per la sua sciatteria e impudicizia, la stessa comunità che prima la usa per i lavori più infimi e i desideri più bassi e poi la ripudia, un figura involontariamente innocente e tragica che si presta ad agnella sacrificale della crudeltà della gente.

Teréz è anche l’anello di congiunzione tra i due mondi, quello rurale e infimo del villaggio e quello borghese e frivolo della città. Alla sua porta bussano infatti la signora Fabius e il suo figlio disabile Misike per trascorrere la consueta villeggiatura annuale. La prima totalmente asservita e assorbita alle difficoltà quotidiane del figlio, sembra schiacciata dal peso di una maternità ad ostacoli e sente nell’aria fresca del villaggio il solo modo per ritornare a respirare e dedicarsi alle frivolezze borghesi di un tempo. Il secondo è un adolescente sadico e in preda agli ormoni intrappolato in un corpo avvizzito.

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Solitaria poi si staglia all’orizzonte la figura della bella Mirak Piroska. una studentessa proveniente da una famiglia di artisti che sembra analizzare tutto quello che le accade, sembra capire tutto e invece non capisce nulla. Talmente egoriferita e consapevole della sue bellezza da sentire la necessità di staccarsi dalla sua carica sessuale, ricondurre tutto all’analisi e alla psicologia quando invece è inconsciamente attratta dalla mascolinità muscolare di Imre Bolag, altra figura tragica di questo romanzo. Figlio di Törpike, conosciuta come la Nanetta, è un asociale che disprezza se stesso e il mondo, rinchiuso nel corpo di un omone prestante,incapace di gestire la sua attrazione per la bella del villaggio e il rapporto con la madre. C’è uno disequilibrio evidente tra il gigantismo del figlio e il nanismo della madre che mal si accoppia con l’autorità genitoriale e porterà a terribili conseguenze.

Ma Nadas è in grado anche di pennellare i personaggi più marginali. Dal maestro Hamza a Hoss l’apicoltore, dal pastore protestante Tolosy fino ai tre marinai seduti sul molo che valutano il riflusso pericoloso del fiume, mutando le Tre Parche, le streghe del Macbeth oppure la Banshee che fa capolino nel film Gli spiriti dell’isola di Martin McDonagh, tutto denota un’estrema attenzione ai dettagli senza rinunciare ad echi shakespeariani.

Da questa rassegna è evidente come grande importanza nel costruire il cast è data al corpo. Le descrizioni sono piene di vagine pelose, deformazioni, lentiggini, capelli rossi, denti gialli, bava, mestruo, vomito, piscio, sperma, sangue; tutte le fisionomie sembrano concorrere ad allestire una galleria degli orrori che non si cela al buio ma è davanti agli occhi in bella mostra, tra la polvere della terra e sotto il sole delle fatiche e del lavoro in campagna.

Nell’ultima parte però , piano piano le vicende personali di queste esistenze iniziano a intrecciarsi, le relazioni, le rivalità, i contrasti si fanno sempre più evidenti e inizia a strisciare il personaggio più importante dell’intero romanzo: il Male. Un Male sempre stato presente, fatto di piccole cose, di sguardi indiscreti, di desiderio sessuale irrefrenabile, invidie sociali e vecchie faide familiari che ritornano, segreti taciuti che dormono un letargo di decenni ma che piano piano si risvegliano. Così il Male inizia a crescere, lievitare , a prendere forma in un climax ascendente fino a sconfinare in archetipi del genere horror come l’esorcismo o il fantasma. E’ l’arrivo in scena del prete cattolico Jonas a suggerire che il romanzo potrebbe avere una svolta di genere ma così non è.

Questi archetipi non sono mai attivi, agenti in grado di cambiare la trama, sono solo specchi che servono a deformare il personaggio sotto indagine e metterne in evidenza i tratti, gli eccessi, la loro natura esasperata che sta cedendo per fare posto alla follia. La parte finale è tesissima, il lettore si aspetta che la situazione prima o poi deflagri, tutto si tiene appeso ad un filo come in un thriller ma è il lettore qui a dover fare lo sforzo di indagare , di anticipare gli assassini che si celano sotto mentite spoglie.

Tutto questo non sarebbe possibile però se a legare il tutto non ci fosse la prosa di Nadas. E’ la prosa di Nadas a legare i personaggi in una sorta di coscienza collettiva, attraverso un narratore onnisciente in terza persona che lascia spazio senza mai esplicitare il punto di vista e sei tu lettore a capire immediatamente chi sta parlando perché, dopo la prima parte introduttiva riesci a riconoscerne immediatamente la voce. I personaggi sono vivi perché su carta “parlano” in modo diverso, chi più crudo, sporco, pieno di parolacce, dispregiativi e soprannomi tipici di una comunità chiusa (come Terez) chi più riflessivo, forbito, istruito, intimista (come Piroska). Non servono stacchi, capitoli, paragrafi, punteggiatura, le voci si alternano come se si passassero un microfono, un microfono retto dalla prosa di Nadas, il regista dietro il dramma.

Capita poi molto spesso, specie nella prima parte, che la voce principale venga alternata con i commenti del popolo , della comunità consentendo al lettore di aleggiare sui pensieri dell’intero villaggio come una camera aerea che vede tutto dall’alto e zoomma su particolari episodi all’occorrenza. In definitiva, un romanzo corale veramente imperdibile, che strizza all’orrore per svelare che le paure più grandi si celano nel nostro vicinato o in noi stessi.

Peter Nàdas (1942) è uno dei più importanti e affermati scrittori ungheresi. Rimasto prematuramente orfano di entrambi i genitori, dirigenti del Partito comunista, dai primi anni sessanta alterna l’attività di giornalista per il quotidiano “Pest Megyei Hírlap” a quella di fotoreporter e autore di testi teatrali, entrando spesso in conflitto con le limitazioni alla libertà di stampa imposte dalle autorità socialiste. Nel 1968, all’indomani dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia, decide di dedicarsi interamente alla letteratura: è dell’anno precedente la sua prima raccolta di racconti dal titolo La Bibbia. Fortemente critica nei confronti di ogni forma repressione sociale e di adesione passiva dell’individuo alle dinamiche del potere costituito, la sua opera rimane bersaglio della censura ufficiale; deve attendere fino al 1977 prima di pubblicare il suo primo romanzo, Fine di un romanzo familiare.

Durante una residenza promossa dal DAAD nel 1981 viene scoperto e tradotto in Germania, dove negli anni successivi verrà consacrato scrittore di fama internazionale. Alcuni critici hanno collocato il suo monumentale Emlékiratok könyve Libro del ricordo, vero e proprio “psicogramma di un’epoca”, tra le grandi opere letterarie del Novecento, accostando il suo nome a quelli di Musil e Thomas Mann. Membro dell’Accademia delle Arti di Berlino, ha ricevuto svariati riconoscimenti internazionali - tra i quali l’Österreichischer Staatspreis für europäische Literatur (1991), il Leipziger Buchpreis zur europäischen Verständigung (1995) e il Premio Kafka (2003) - e l’Ordine al Merito della Repubblica di Ungheria (2007).

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