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Il caso clinico del viaggiatore sonnambulo: definizione e contesto storico

«La carcerazione assume il ruolo di macchina di normalizzazione generalizzata: punisce, corregge, classifica, assoggetta». Questo concetto, che Michel Foucault ha elaborato in Sorvegliare e punire (1975), ci guida in una rilettura della relazione storica che vi è tra vagabondaggio, alienazione mentale e incarcerazione e che ha assunto, negli ultimi duecento anni, una rilevanza crescente nelle società occidentali.

Persone con disturbi mentali non trattati, spesso senza una rete di assistenza sociale o familiare, sono finite in passato (e finiscono ancora oggi) per vivere in strada. In una condizione simile, anche i piccoli reati legati alla sopravvivenza urbana, quali il vagabondaggio, sono divenuti la via d’ingresso in un sistema penale inadeguato a trattare la fragilità dei disperati. In questo articolo prenderemo in considerazione in particolare l'Ottocento, secolo in cui il vagabondo e l’alienato mentale si saldano in una figura sociale marginale, spesso oggetto di controllo e repressione.

Daremo anzitutto conto della prossimità di significato tra vagabondaggio e alienazione, due termini che, connotati negativamente già in latino, hanno mantenuto in italiano il duplice significato di ‘allontanamento, separazione fisica’ e di ‘allontanamento, separazione mentale’ e quindi di ‘perdita di senso’.

Breve storia linguistica di vagabondo

Il termine vagabondo, come si è visto, appare sin dalle origini della lingua italiana (nelle forme vagabundo, vagabondo, declinate sia al femminile sia al maschile) e si caratterizza con le stesse sfumature negative che aveva già nel latino vagabundus, derivato a sua volta dal verbo vagari ‘errare, andare intorno, qua e là’, che porta in sé da un lato l’idea di uno spostamento fisico senza meta e dall’altro il senso metaforico di una vita vissuta in modo vago e ‘sine proposito’, cioè senza scopi (un pericolo paventato nella Lettera a Lucilio di Seneca).

Il 22 febbraio del 1380, Jacopo di Tura da Certaldo, artigiano dell’Arte degli oliandoli, presentò una petizione davanti ai Consigli di Firenze pretendendo che Paganello di Sandro Ruggerii da Certaldo, «homo non bone conditionis vagabundus […] rixosus», non fosse più considerato come membro della propria famiglia perché vagabondo e rissoso (Quertier 2020, p. 101): l’azione dell’errare, la mobilità senza un proposito definito, è dunque portata dinanzi alla Legge già nel XIV secolo e di fatto viene considerata illegittima.

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Consultando i principali dizionari storici dell’italiano (GDLI, Crusca I-IV, Tommaseo-Bellini, TLIO), emerge che dal sostantivo vagabondo si sono originati il verbo vagabondare (e in seguito anche vagabondamento e l’avverbio vagabondantemente) che ci racconta da un lato dei passi incerti di chi si sposta da un luogo all’altro senza una meta precisa, dall’altro anche, in un uso figurato, dei pensieri che divagano, si smarriscono e indugiano, facendo perdere tempo alla persona che di essi è preda. Per indicare lo stato di divagazione del pensiero, nell’italiano antico troviamo anche vagabondità (con il significato di ‘chi vaga con la mente’ e ha la testa tra le nuvole).

Quanto a vagabondaggio, inteso come ‘condizione di vita di chi non ha fissa dimora né una meta precisa da raggiungere’, è derivato di vagabondage che appare in Francia per la prima volta nel Settecento ed è introdotto in italiano successivamente: i dizionari ne registrano la prima attestazione nel 1810, nel Codice dei delitti e delle pene pel Regno d’Italia (cit. in DELI, s.v.); il termine era considerato nel 1879 da Tommaseo una «parola brutta come accattonaggio»; cfr. Tommaseo-Bellini). Nel dizionario Palazzi, ancora negli anni Quaranta del Novecento, il sostantivo indica ‘l’insieme e dei vagabondi e il fenomeno della loro esistenza, considerato come piaga sociale’ (1939-40, Palazzi; cfr. DELI). All’accezione negativa, solo negli anni Sessanta del Novecento si aggiungerà un significato legato all’atto e all’ ‘effetto di visitare luoghi, monumenti, senza itinerari fissi o prestabiliti’ (1961, Diz. enc.; cfr. DELI).

Alienazione: un termine affine a vagabondaggio

Un drappello di termini strettamente connessi all’idea dell’errare senza meta è quello dell’alienazione e della famiglia di parole ad essa relate (alienare, alienato, alienamento, alienante). Sarà nel XIX secolo, come si vedrà grazie al medico francese di Paul Tissié, che si studieranno, per la prima volta in modo sistematico, gli alienés voyegeur, ossia dei folli viaggiatori.

Il termine alienazione, con cui fino agli inizi del Novecento si definiva la ‘follia’, è molto antico (si vedano per le attestazioni di questa famiglia di parole i dizionari DELI, LEI e TLIO). Come vagabondo, anche alienazione affonda le sue radici in latino in cui il sostantivo alienatio già aveva un duplice significato di ‘separazione, allontanamento fisico’ e ‘perdita di senso’ e quindi di ‘follia’, che si mantiene nei testi italoromanzi del Trecento: da un lato indica la separazione (intesa come il trasferimento di proprietà di un bene o il diseredamento, dall’altro alienazione può indicare una ‘vendita’ oppure, come si legge a partire dal Fiore de virtù (un trattato moraleggiante del Medioevo trecentesco), può essere sia una ‘mancanza di controllo delle passioni’, per cui il vizio di gola può essere un’alienazione della mente («La gola sì è infirmitade del corpo, alienatione de mente»; Volpi 2018: p. 205), sia una ‘perdita delle facoltà mentali’ come viene spiegato nel trattato medico trecentesco dell’Almansore in cui indica ‘la condizione di chi è fuori di sé’ («et è molto alienato e fuori di suo senno», «alienatione, o smemoramento nel sonno, o nel dormire, o veghiamento e somillianti cose» (Piro 2011, pp. 703, 936).

Il termine alienazione rimarrà per secoli a indicare la follia, il disagio psichico per il quale emerge dai trattati medici medievali un sistema terminologico non ancora capace di distinguere le differenti patologie: disagio psichico e follia, infatti, erano trattati attraverso categorie concettuali non specializzate, ereditate perlopiù dal pensiero religioso e filosofico antico. Solo a partire dal Rinascimento si assistette alla progressiva specializzazione semantica della follia insieme all'affermarsi di un'indagine scientifica specifica. La “scoperta” moderna della follia, infatti, coincise con una mutazione istituzionale: la destinazione dei lazzaretti ai folli fu una svolta nella rappresentazione sociale del disturbo mentale. Con la separazione fisica del folle dal corpo sociale si generò anche un nuovo lessico della follia, propedeutico alla nascita della psichiatria moderna (Foucault 1963, pp. 71-81, 337-78; Casapullo 2006, p. 30).

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Il caso di Albert Dadas e i "folli viaggiatori"

Uno dei casi emblematici in cui il vagabondaggio e l’alienazione mentale erano trattati come reati - e dunque puniti con la reclusione - è quello dei cosiddetti folli viaggiatori, descritti dal medico francese Philippe Auguste Tissié nel volume Les aliénés voyageurs (1887). Il caso più noto è quello di Albert Dadas, operaio del gas a Bordeaux, affetto da epilessia e da un disturbo psichico che lo spingevano, in modo improvviso e incontrollabile, ad abbandonare lavoro, casa e ogni attività quotidiana per intraprendere lunghi viaggi a piedi, spesso per centinaia di chilometri, senza sosta e senza meta. Privo di documenti e di mezzi di sostentamento, Albert veniva regolarmente fermato dalla polizia, arrestato e incarcerato. Solo dopo la detenzione veniva trasferito in ospedale per ricevere cure mediche. In lui, Tissié individuò un comportamento che avrebbe poi assunto il nome di “determinismo ambulatorio”, un impulso patologico al movimento continuo, alla fuga, al camminare senza scopo apparente.

Nel contesto dell’Europa dell’Ottocento, comportamenti come il vagabondaggio di Albert non erano letti come segnali di sofferenza mentale, ma piuttosto come indizi di devianza sociale. Chi viveva in povertà, senza riuscire a mantenersi e costretto a vagare senza meta, era spesso visto come un criminale. Persone come Albert, quindi, venivano trattate come delinquenti prima ancora che come pazienti.

La criminalizzazione del vagabondaggio nel XIX secolo

Nel XIX secolo, infatti, il vagabondaggio era punito in tutta Europa: in molti Stati europei (compresa l'Italia pre- e postunitaria), il vagabondo non era solo visto come uno sfaccendato o un ‘perdigiorno’, ma come una figura pericolosa per l'ordine pubblico. La legislazione italiana dopo l’unificazione ereditò pratiche repressive dalle polizie preunitarie. Il Codice penale sardo (1859), poi esteso al Regno d’Italia, criminalizzava apertamente il vagabondaggio, considerando di fatto il vagabondo come un pericolo pubblico. Il Codice Zanardelli del 1889, pur depenalizzando il vagabondaggio, lo relegava comunque a una questione di pubblica sicurezza, demandata alla polizia. Nei registri penitenziari dell’Ottocento si trovano sovente annotazioni su arresti di oziosi o pericolosi per vagabondaggio, anche solo per mancanza di documenti. Case di lavoro come quelle di San Francesco a Torino o la casa di correzione di Milano ospitavano molti soggetti incarcerati per la ‘colpa sociale’ di non avere una fissa dimora (cfr. Da Passano 2004).

In Francia, prima che in Italia, il vagabondaggio era punito severamente con la reclusione nei dépôts de mendicité e la deportazione nelle colonie penali d'oltremare, come la Guyana francese o l'Algeria. Il Code pénal napoléonien (1810) conteneva articoli contro vagabondaggio e mendicità, e luoghi di detenzione come il Bagne de Toulon divennero famosi per il rigore repressivo (cfr. Berlastein 1979).

Riflessioni sul trattamento degli alienati e l'opera di Foucault

La riflessione sul trattamento degli alienati rispetto ai delinquenti troverà spazio nell’opera di Cesare Lombroso che, nel 1911, nel volume La medicina legale nelle alienazioni mentali, scriveva: «Qualunque volta ci si affaccia un’opera od un problema di medicina legale delle alienazioni mentali, ci sentiamo involontariamente sorpresi da un senso di sconforto e di ribrezzo [...] gli uni [giudici] non vogliono trovare pazzo nessun criminale anche alienato […] e gli altri abbondano in senso contrario così da convertire in manicomio tutte le prigioni».

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L’ambivalenza tra punizione e cura sarà in seguito radicalmente decostruita da Foucault in Sorvegliare e punire (1975), secondo il quale l’affermazione della prigione moderna rappresenta l’introduzione di una modalità di controllo e di classificazione degli individui. La figura del vagabondo alienato - come Albert - incarna perfettamente l’“anormale” foucaultiano: un corpo deviante che sfugge alle regole del lavoro, dell’igiene, del comportamento urbano e che deve essere ricondotto in un’istituzione totale quale è il carcere e, successivamente, il manicomio, con lo scopo di neutralizzarlo e ri-addestrarlo, riportandolo all’ordine.

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