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Il Viaggiatore Oscuro: Un'Analisi Profonda del Tema del Viaggio

Il viaggio è un tema centrale nelle nostre narrazioni e nelle nostre pratiche, che hanno un tale impatto economico, culturale, ambientale da generare dibattiti controversi, apparentemente senza soluzione. In questo dibattito, l’intervento di Rudi Capra non si propone di fare ordine, ma di impostare la questione del viaggio come questione filosofica in senso lato, secondo un approccio che Diego Marconi definisce «inventiva tematica».

Il Viaggio come Questione Filosofica

In una struttura circolare che allude alla circolarità stessa dell’esperienza del viaggiatore, il libro parte da Ulisse e a Ulisse ritorna in conclusione. In apertura, a essere messi in questione sono le interpretazioni contrastanti del mito di Odisseo, da una parte «rassicurante apologia dei valori fondanti della civiltà» (Capra 2024, p. 19), dall’altra racconto dotato di un “cuore oscuro” caratterizzato da inestinguibile irrequietezza o, nei termini dell’autore, da «ormalgia» come «dolore della partenza» (ivi, p. 28), una smania di andare verso nuove mete, «un innamoramento per l’ignoto, una nostalgia per qualcosa che non si è mai fatto, per un posto che non si conosce ancora» (ivi, p. 29). Si disegna fin dalle prime battute, dunque, una tensione tutta narrativa fra epos e telos, fra passato e futuro, fra partenza e ritorno.

Il Viaggio come Narrazione Senza Tempo

Il viaggio è dunque narrazione senza tempo, sia perché tutte le strutture narrative profonde hanno la forma di un percorso trasformativo-iniziatico, sia perché, oggi come ieri, si viaggia per raccontare, restituire, condividere, oggettivare l’esperienza geografica. Ma da due secoli il viaggio è anche e soprattutto questione di sguardo mediato dall’inquadratura; nella storia umana, la tecnologia fotografica e la pratica turistica si manifestano infatti più o meno nello stesso periodo e, ancora prima della fotografia, i turisti del Grand Tour godevano del paesaggio attraverso la mediazione dei piccoli specchi convessi chiamati “specchi Claude” in riferimento al pittore Claude Lorrain. Il discorso sul turismo è evidentemente decisivo per comprendere se ci è data ancora l’occasione per viaggiare euristicamente o se siamo indotti a un’esperienza algoritmica, priva di aperture.

Il Viaggio da Fermo e l'Immaginazione Spaziale

C’è poi spazio per il viaggio da fermi, quello costruito dall’immaginazione spaziale, un potente mezzo sia di evocazione sia di costruzione di luoghi: attraverso l’immaginazione riproduttiva posso tornare dove sono stato, attraverso l’immaginazione generativa posso essere in luoghi che non esistono. Se per immaginazione intendiamo quel livello di «intermediazione originaria […] tra qualcosa che è dato e qualcosa che ha senso», come ci dice Pietro Montani (1999), le arti sono capaci di generare forme immaginative di questo spazio o scarto o intervallo che sta tra il dato e il senso.

L'Immaginazione Cinematografica

L’immaginazione cinematografica, cui l’autore dedica una significativa appendice, è spaziale non solo perché colma uno spazio, ma anche e soprattutto perché trasforma il dato spaziale, allestendo il passaggio da un’ontologia primaria (lo spazio del reale, lo spazio della vita) a un’ontologia secondaria (lo spazio inquadrato): ne sono esemplificazioni alcuni esistenti schermici come l’ambiente (spazio dell’azione) e il paesaggio (spazio della contemplazione), ma anche il luogo (spazio della sedimentazione e dell’investimento identitario), il territorio (spazio della normatività, del negoziato, del conflitto) e l’atmosfera (spazio che irradia un sentimento).

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Associazione e Dissociazione: Chiavi Narrative

Particolarmente interessante risulta, in termini narrativi, la coppia concettuale associazione-dissociazione derivata dalla psicologia generale e dalla programmazione neurolinguistica. Come lo schema appaesamento/spaesamento (nucleo tematico del recente studio di Paolo Furia), anche la relazione associativo-dissociativa rende conto dello spostamento di cui facciamo esperienza ma anche delle principali forme di rappresentazione spaziale: il potere trasformativo del lavoro estetico può infatti indirizzare verso la percezione del “familiare come estraneo” (quello che Vivian Sobchack chiama «alienazione del consueto» nel cinema di fantascienza) oppure verso la percezione dell’estraneo come familiare (sempre in Sobchack, la «neutralizzazione di ciò che è alieno e astratto»).

Riferimenti letterari e l'ibridazione dei generi

Ne La metamorfosi, il racconto lungo (o romanzo breve) fu scritto nel corso di circa un mese da Franz Kafka (tra novembre e dicembre del 1912). Il giovane autore, nato a Praga nel 1883, soffriva di gravi patologie psichiche (ansia, insonnia, angoscia patologica) e aveva un rapporto molto difficile con se stesso (si trovava troppo magro e nervoso) e con gli altri, soprattutto il padre e la fidanzata. Da un lato, soffriva di un forte complesso di Edipo (patologia psichiatrica che fa sentire chi ne soffre sempre inadeguato, inferiore, alle aspettative del proprio padre, che nel caso di Kafka era un borghese affermato, anche all’interno della comunità ebraica di cui non era un acceso frequentatore).

Melchiorre sembra costruire un saggio storico, di storia materiale e minuta, in cui si raccontano le vicende di un vecchio sentiero di montagna. Vasta pare proporre un classico libro di viaggio con tanto di foto e diario degli spostamenti. Il libro di Melchiorre, per esempio, non ha nulla del saggio storico così come noi lo immaginiamo, è pieno di passeggiate per paesi, di giorni seduti davanti al caffè, di visite rocambolesche ad alberghi.

Il suo libro non è tanto un saggio di storia, ma è il resoconto del lavoro materiale di uno storico: quali sono le ossessioni, le paure, le perplessità che si inseguono nella mente di uno studioso quando gli balena l’idea di scrivere di una “materia”, o di un “fatto”. Quindi non è casuale che La via di Schenèr sia un testo infestato di vere e proprie apparizioni di fantasmi, che guidano Melchiorre lungo la sua ricerca, che lo spronano a scegliere una strada piuttosto che un’altra, che nei momenti di scoramento gli appaiono per suggerirgli una possibile soluzione.

Anche Vasta rompe il suo patto con il lettore fin dall’inizio. Il primo capitolo del libro è la narrazione di un sogno, in cui si sogna un viaggio; a questo si affianca una discrasia tra la numerazione dei capitoli (progressiva) e le date, che invece non seguono la scansione temporale. Vasta ci suggerisce insomma che il tempo del racconto e il tempo dei fatti non sono conseguenti, tradendo quindi l’idea stessa del diario di viaggio.

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Inoltre dopo poche pagine ci avverte che le persone che con lui si muovono lungo i luoghi deserti degli Stati Uniti si sono, durante la stesura del libro, lentamente trasformate in personaggi. In una parola quello che abbiamo davanti è un libro dallo statuto ibrido, proprio come quello di Melchiorre, in cui l’idea iniziale si deforma e qualcosa di diverso si infila e filtra come una luce, come qualcosa che sfarfalla nella prosa e nella costruzione della narrazione.

Anche per Vasta questa tensione si condensa in una apparizione fantasmatica, in un dialogo irreale con un cane ai limiti del deserto. L’esperienza di immersione in Lettori selvaggi è decisamente particolare. In primo luogo, parlo del mio approccio: non è necessario leggere il testo seguendo l’ordine dei capitoli, perché appunto esso è una sorta di immenso vagabondaggio dell’autore dentro un’idea di lettura e di cultura ampia e complessa.

A interessarmi, in questo momento, è un’affermazione di Montesano, fatta nell’introduzione, che può valer anche per i due testi precedenti. Nella nota introduttiva leggiamo: «Questo libro è una mappa su cui sono indicate opere di poeti, scrittori, pensatori, musicisti, artisti, scienziati: sentieri per chi volesse attraversare il vorticare di tempeste contrastanti in cui siamo sballottati.

Un altro dato interessante di questi libri è che pur mettendo al centro del racconto un “io” - lo storico, il viaggiatore e il lettore - questi volumi segnano la progressiva scomparsa dell’autofiction dall’orizzonte narrativo attuale; quasi a bilanciare la vittoria di Siti allo Strega con Resistere non serve a niente (Rizzoli, 2012), forse il momento più alto e finale di quel tipo di postura. Perché non possiamo parlare di autofiction?

Semplificando Vasta è veramente andato in America, e ha veramente fatto quel percorso, veramente i suoi libri e i suoi vestiti sono in un container a Zagarolo. Leggendo Absolutely Nothing avvertiamo, però, che non è una confessione, o un memoriale di viaggio, e non è neppure un libro in cui un fatto reale si inserisce nel flusso di una narrazione di finzione, ma sentiamo che Vasta vuole comunicarci un segreto. Lo stesso sentimento muove gli altri due volumi da cui siamo partiti.

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Allora viene da chiedersi qual è il segreto che contengono al loro interno? Prendiamo La scuola cattolica: a tutti gli effetti ci troviamo davanti a un romanzo, così recita anche la dicitura posta dall’editore sulla copertina. In realtà non è così: il libro di Albinati non è solo un romanzo, ma è un testo molto più stratificato; in molti punti è un vero e proprio trattato di sociologia, in altre parti si sente lo sguardo dell’antropologo, di chi si cala in un universo per ripotarne usi e costumi; in alcune c’è lo storico del costume, in altre poi il cronista di nera alle prese con il racconto di un delitto.

A ben vedere qualcosa di simile succede anche con L’uomo del futuro. È un romanzo? Una biografia di don Milani? Un reportage? Il testo è un insieme di queste cose, se da un lato a legare tutto è la vita del priore di Barbiana, dall’altra esistono momenti in cui il testo sembra un reportage alla ricerca di esperienze simili a quelle dell’autore di Lettera a una professoressa e in altre pagine poi la vita dell’autore e quella del suo oggetto di studio paiono coincidere fino a confondersi.

Quello che viene da chiederci nel leggere questi libri è: quale “io” prende voce nella narrazione? Mazzoni per esempio dovrebbe raccontare la vita di Giovanni l’evangelista. Siamo quindi a pieno titolo nella biografia, anzi siamo in un genere ancora più codificato che è quello dell’agiografia. La lettura del suo libro, però, è spiazzante: assistiamo intanto a una duplice scelta narrativa, che toglie subito di mezzo l’imparzialità della ricerca scientifica. Abbiamo due “io” che si innestano.

Da una parte la storia di Giovanni è raccontata in prima persona da lui stesso e dall’altra c’è la storia dell’autrice che racconta il suo rapporto con la fede e con l’evangelista, partendo dalla sua infanzia, dai nonni testimoni di Geova, dai suoi trascorsi in Comunione e Liberazione. In un certo senso il testo di Caterini è propedeutico al libro di Montesano, perché abitua il lettore a essere testimone di una lettura che non è semplicemente critica, ma è esperienziale.

Il libro di Zaccuri è forse quello che tra tutti è il più conforme alle regole. Il suo è a tutti gli effetti un saggio, anche se è un saggio su di un tema particolare, ma è soprattutto la sua scrittura a farmelo sentire diverso: il modo con cui argomenta e porge le questioni, il modo in cui le racconta e in cui risolve i problemi che mano a mano gli si propongono davanti, mi ha ricordato un libro di avventure. Leggere le scorribande di Zaccuri sul tema dell’immondizia mi ha fatto divertire proprio come un romanzo d’avventura, il cui scopo è far sì che il lettore «volga lo sguardo da» (è il significato etimologico).

L’abbuffata che mi presenta Zaccuri nel suo libro è simile alla cena organizzata da Ferreri nel suo film, qualcosa di sontuoso, buonissimo, bellissimo - così come lo è la scrittura, l’arguzia, l’intelligenza del saggio - che però prelude alla tragica fine. Mentre guardo tutti questi libri, che ho riunito ora sullo scaffale, mi chiedo perché di colpo certi scrittori abbiano deciso di modificare quella struttura che comunemente chiamiamo romanzo. Nello stesso tempo mi chiedo perché a me interessi questa strana connessione, che forse solo io vedo, ma che più proseguo nel discorso più mi pare essere evidente.

Il primo di questi è W.G. Sebald; la sua traduzione e la diffusione dei suoi testi, molte volte sfuggenti e inclassificabili, hanno modificato non poco il nostro modo di intendere il confine tra romanzo e saggio. In che modo dovremmo catalogare per esempio Austerlitz? Romanzo, saggio di architettura, biografia immaginaria, autofiction? Oppure prendiamo La storia naturale della distruzione? Possiamo definirlo come un semplice ciclo di conferenze sul tema della letteratura tedesca sulla seconda guerra mondiale? Siamo sicuri che questo basti?

Il secondo scrittore è Emmanuel Carrère; lo scrittore francese soprattutto con Limonov, Vite che non sono la mia e L’avversario ha prodotto testi che hanno superato le tematiche dell’autofiction che erano state messe in crisi dai romanzi di Philippe Forest sulla morte della figlia. Se dovessi rispondere brevemente, io direi che tutti questi libri mettono in scena il racconto di un “io” che si forma e si racconta.

In tutti questi libri in maniera più o meno velata si mostra la storia di un “io che racconta” - narrano il formasi di una coscienza, il formarsi di un’ossessione, il proprio essere maschi adulti e violenti, il proprio essere abbandonati. Per questi motivi tematici mi pare che la forma romanzo diventi via via più ibrida e abbia bisogno di altre forme e generi.

Eppure nel leggere queste forme di scrittura qualcosa ancora non mi quadra come se ciò che intuisco, non si esaurisse con la chiamata in causa di Sebald e di Carrère. Esiste una corrente carsica che ha prodotto una serie di testi in un certo senso stravaganti che possiamo vedere come anticipatori dei libri che ho preso in esame. Per esempio la narrazione che Guicciardini mette in scena nei suoi Ricordi non è estranea a questo tentativo di raccontare un “io” alla prese non solo con i fatti del mondo, ma con l’interpretazione stessa del mondo.

Quelle di Guicciardini sono le prime parole private dette in pubblico (per usare un’espressione a me cara di Giulio Mozzi); per la prima volta il compito di un libro è narrare il farsi interiore di un “io”, un “io” che non è toccato da nessuna Grazia - prerequisito importante nell’antichità per chi volesse scrivere di sé, non a caso l’autobiografia è quasi sempre inizialmente una storia di una conversione (Agostino) o di una disgrazia (Abelardo) -, ma che racconta il suo prendere coscienza mentre è nel mondo e si occupa delle cose del mondo.

Il primo è Una vita di Vittorio Alfieri. Il testo di Alfieri non è una semplice biografia, ma segna nella storia della letteratura italiana qualcosa di diverso; ovvero l’idea che se la letteratura deve raccontare l’uomo, allora perché non produrre una spietata analisi su di sé, così da creare uno studio dell’animo umano (per mutuare le parole di Levi) assolutamente moderno e nuovo?

Lo dice meglio di me, lo stesso autore nella sua introduzione: «Allo studio dunque dell’uomo in genere è principalmente diretto lo scopo di quest’opera. E di qual uomo si può egli meglio e più dottamente parlare, che di sé stesso? Quale altro ci vien egli venuto fatto di maggiormente studiare? Di più addentro conoscere? Di più esattamente pesare? Esistono, quindi, libri che per quanto bizzarri sono una strana commistione di diversi testi, che in maniera più o meno consapevole, sono stati pensati per diventare pubblici, testi che condividono con il libro di Montesano, ma anche con quelli di Caterini o di Albinati, la caoticità, la durata nel tempo, il mescolamento di generi, in cui si accumulano come un regesto materiali più eterogenei.

Penso allo Zibaldone e a Il mestiere di vivere. Credo che la filiazione ultima dei testi che ho cercato di analizzare stia in queste due opere. In entrambe si intravedono le due tensioni che abbiamo descritto in Guicciardini e Alfieri; la storia dell’“io” e lo studio dell’uomo; in più sono due libri che ne contengono altri, che non sono mono-toni, né mono-tematici: assolutamente moderni e contemporanei ai nostri giorni e forse per questo pensati come postumi (questo è quasi certo per Il mestiere di vivere, ma credo che anche Leopardi pensasse per il suo Zibaldone un possibile esito pubblico, tipo quando concepisce l’abbozzo della Storia di un anima).

C’è una correlazione stretta tra la forma del romanzo e l’“io” che narra e diventa via via il protagonista delle pagine. E non è un caso se Montesano nella sua introduzione, e anche nel corso del libro, dedichi molte pagine a Rimbaud, scrittore che più di altri ha intuito la potenza deflagrante della parola “io” e del suo legame con l’alterità.

Quando si mette in scena l’“io” - e mi rendo conto ora che i romanzi di cui ho parlato operano tutti in questo ambito - le strutture narrative vengono forzate con una torsione molto simile alla manomissione sintattica insita nella frase «Je est un autre». A questo punto il mio breve excursus sarebbe finito, però credo che serva una piccola postilla per spiegare questo desiderio di tassonomizzazione. Credo che in fin dei conti sia solo un altro modo di ragionare sul ruolo dello scrittore e del lettore; è un tentativo di affermare che l’essenza più intima della critica letteraria sta nell’essere “un esame di coscienza”.

Cosa sia questo esorcismo, caro lettore che hai avuto la pazienza di seguirmi fino a qui, io non lo so, o meglio non lo so spiegare con parole mie. Mi vengono in aiuto alcune pagine di Ricordi tristi e civili, in cui Cesare Garboli racconta della messa funebre celebrata da Paolo VI per la morte di Aldo Moro.

Riferimenti Bibliografici

  • P. Furia, Spaesamento. Esperienza estetico-geografica, Meltemi, Milano 2023.
  • P. Montani, L’immaginazione narrativa. Il racconto del cinema oltre i confini dello spazio narrativo, Guerini, Milano 1999.
  • V. Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza.
  • Rudi Capra, Filosofia del viaggio. Modi, tempi, spazi, sensi del viaggiare, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2024.

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