Il significato profondo di "Congedo del viaggiatore cerimonioso" di Giorgio Caproni
Tra i grandi maestri del Novecento italiano, Giorgio Caproni spicca per la sua amorosa dedizione alla parola. La sua parabola, tanto poetica quanto umana, è assolutamente in divenire, passando dalla grazia innamorata alla disperazione calma, senza sgomento. Un uomo cercatore, cacciatore, che nel corso degli anni prosciuga gli occhi come il dettato in una ricerca sempre più massacrata di Dio.
Nella sua vasta produzione, una poesia in particolare merita di essere ricordata al pari di tanti altri capolavori della letteratura italiana: "Congedo del viaggiatore cerimonioso". Pubblicato nel 1965, questo componimento offre una dozzina di poemetti unificati dalla meditazione sui temi della vita e della morte.
Un poemetto o una storia in versi?
Per chi si avvicina a questo testo, la prima domanda è come definirlo con i parametri odierni. La risposta più immediata è quella del poemetto. Ma, al posto di questo termine desueto, si potrebbe definire una storia in versi. In questa poesia, come in numerose altre, Caproni canta il tema ricorrente del viaggio, sempre con una chiarezza stilistica propria di un autore concentrato su un messaggio da comunicare al lettore, ma che non esclude uno studio metrico organizzato.
Dei versi quindi che rispecchiano direttamente l’animo del poeta, protagonista della sua lirica; un viaggiatore in treno decide di scendere alla prossima stazione, si prepara a prendere il bagaglio e a salutare i suoi compagni di viaggio.
Il senso di transitorietà rievocato in tutta la poesia, anche se studiato e trattato da numerosi poeti precedenti o contemporanei di Caproni, è reso veritiero da un’atmosfera di spossatezza quasi assimilabile alla vecchiaia. Un viaggiatore visto quindi come simbolo di ogni uomo che giunge alla sua ultima stazione salutando una vita ricca di storie. Un vero e proprio esilio dalla vita, una decisione presa dal nostro protagonista perché inevitabile, e accettata come fosse una tappa da superare. La vita è vista come un attimo concesso ad ognuno di noi per salutare ogni parte del mondo, un momento forse troppo esiguo perché elimini in noi la preoccupazione di scendere ad una stazione buia.
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La struttura e i temi del "Congedo"
Il componimento fu scritto nel settembre del 1960 e venne edito in Palatina, una rivista letteraria di Parma. Fu poi stampato (1965) nel volume a cui dà il titolo. Come gli altri poemetti del libro è una prosopopea: il poeta cioè racconta un fatto (qui, un viaggio in treno) fingendo di essere un’altra persona, in questo caso un viaggiatore molto loquace, alter ego di Caproni.
Schema metrico: lunga composizione di dieci strofe di versi liberi, alcuni di misura tradizionale. Il viaggiatore sa che deve scendere a una certa stazione (non sa però di che stazione si tratti). Perciò si prepara raccogliendo il suo bagaglio e salutando i vicini di scompartimento.
L’io (il viaggiatore della vita) si pone davanti a una prova cruciale: vuole sperimentare (la vita) a cui si era affezionato. Il tema del viaggio, già anticipato da Caproni nelle bellissime stanze della funicolare (1952), si fonde a un altro tema, più profondo, quello dell’esilio dalla vita.
Il luogo del trasferimento lo ignoro (vv. 20-21), scrive il poeta: il treno del Congedo si allontana da ciò che è noto, per giungere a una meta ignota. Un po’ tutta l’opera di Caproni è uno struggente canzoniere d’esilio, un ininterrotto diario di viaggio verso l’incerto, o anzi verso il nulla e la morte. La vita è come un tunnel che rappresenta l’assenza o la scomparsa di Dio; intanto il poeta ricorda la madre, la propria città ecc. e celebra, con ironia, gli appuntamenti, i riti, le cerimonie quotidiane.
Il linguaggio del testo (contrariamente al titolo altisonante del libro: Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee) annulla ogni retorica in un discorso leggero, svagato, un po’ petulante. Contribuiscono a tale effetto numerosi elementi fatici (tendenti cioè a stabilire un contatto tra chi parla e chi ascolta), frequenti nella parlata quotidiana, ma non certo in poesia: per esempio: Scusate; oppure: Dicevo; ma, cos’importa. I versi sono legati tra loro da frequenti enjambements, come per avvicinare il discorso alla prosa; le rime ne accrescono la musicalità.
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Il Congedo come addio e trasformazione
Il Congedo assume un aspetto incerto, provvisorio, che lo distingue sia dai libri precedenti sia da quelli che seguiranno. Invece il Congedo sembra costituito di occasioni e ricordi, in sostanza pare il risultato di una spontaneità non premeditata. Il libro prende forza proprio dalla sua precarietà, dalle oscillazioni lirico-narrative, dalla novità del parlato inserito in un contesto di allegorie, come avverrà limpidamente nei libri successivi.
Caproni disegna una scena ed ecco che i significati scivolano via verso altre direzioni o in profondità. Parole e intere poesie sostituiscono e rivelano un desiderio, una pulsione che si traveste in continuazione. Forse perché su una parola convergono pulsioni diverse, a volte tra loro contraddittorie. Lapsus calami che in realtà sono delle rivelazioni (asparizioni, ateologia).
Caproni mette in scena le sue emozioni e quel travestimento rivela altri aspetti non detti nel testo, e infine tutto si trasferirà nella lingua (i suoi neologismi, una parentesi che si chiude nella pagina successiva, solitaria nello spazio bianco della pagina, come una parola che non viene ed è sostituita da un simbolo tipografico).
Caproni è un poeta ricco di sensualità, di immagini, di racconti, di nomi di strade, di fatti concreti, sia legati alla città dove è nato, Livorno (con le poesie dedicate alla madre Anna Picchi, che sembrano scritte da un innamorato) sia ai luoghi dove è vissuto, Genova (l’indimenticabile Litania che chiude Il passaggio d’Enea).
Le parole non dicono solo quello che dicono ma rimandano ad altri contesti, filosofici, musicali, teologici, a-teologici, esistenziali, etici, che emergono dal tessuto poetico: nel Conte di Kevenhüller il tema è la Bestia, il male, per esempio, mentre la Res amissa, la cosa perduta, è il bene, del resto Caproni era un assiduo lettore di Dante e i suoi ultimi libri, dopo il Congedo, si possono considerare come degli aggiornamenti contemporanei della Commedia.
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Caproni è giunto a un punto chiave della sua vita, quando affermerà di essere giunto “alla disperazione / calma, senza sgomento”. Inventa la figura del congedo e alcuni personificatori di questa pulsione, cosicché il libro pare un piccolo repertorio degli addii, recitati e immaginati in vari modi, e la sua incompiutezza - avvertita come tale da Caproni stesso - non toglie ma aggiunge significati al libro. Less is more sembra lo stemma del nuovo sentiero che si apre. Lui sente che il mondo che ha descritto fino a quel punto della sua vita è finito. Caproni ha superato la sua linea d’ombra.
C’è chi dice che Caproni non ha fatto altro che congedarsi, in poesia (Giovanni Raboni). La famiglia come sappiamo è al centro dei suoi affetti, tuttavia c’è questo desiderio di scombinare tutti i legami familiari e soprattutto i ruoli, insieme al tempo. Sembrano tanti modi di congedarsi. Si congeda da tutti, Caproni, con il passato e con la sua gioventù, prima di peregrinare alla ricerca di una selvaggina che sembra avere abbandonato il pianeta e che assume forme plurime: Dio, il vuoto, la poesia, il male (la Bestia).
Del resto, nel suo ultimo libro ha detto che il poeta è “figlio di nessuno” e che “ogni rapporto erotico è - per interposta persona - un incesto”. Questo, per contrasto, è il valore della sua poesia: una forma di letizia paradossale che si situa fuori dalle convenzioni rituali e di linguaggio.
La poesia serve a Caproni per rivelarsi a sé stesso, però accorgendosi gradatamente di essere incappato in un gioco di specchi, che lui con divertita disperazione mette in scena. E’ il Caproni che Mengaldo assegna al suo terzo periodo, dove le mappe dei suoi itinerari sono imprevedibili, perché scopre che non solo manca una meta ma conseguentemente anche uno scopo.
Allora più che un viaggio o una caccia la sua poesia diventa una erranza, il che significa una ulteriore riduzione, un ritorno a condizioni primitive, tipo quelle dove si accompagna il morto con scherzi e disarmante allegria. Tutto il mondo poetico di Caproni - ha scritto Geno Pampaloni - si trasferisce presso i confini dell’assoluto.
Il viaggiatore cerimonioso: un uomo solo di fronte all'ignoto
Il viaggiatore è cerimonioso, e questo non dipende soltanto da una eccessiva cortesia o filantropia semmai da un suo attaccamento alle forme delle consuetudini sociali. Lo stile del testo asseconda questa impressione ma si avverte il profumo di una pietà ironica.
Abbiamo due incipit in quartine, due mesti e delicati preludi alla poesia che introduce la figura del congedo. Un uomo solo, che ha conoscenze più di là che di qua, usa parole semplici nel salutare i compagni di viaggio e si appresta a scendere dal treno (“Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia”).
Però poi saluta in modo strano: “Congedo alla sapienza / e congedo all’amore. / Congedo anche alla religione. / Ormai sono a destinazione”. E pure la valigia che cerca di portare sul corridoio è incomprensibile perché “E’ una valigia pesante / anche se non contiene gran che: / tanto ch’io mi domando perché / l’ho recata, e quale / aiuto mi potrà dare / poi, quando l’avrò con me”.
Una meta è questa: “io / sono giunto alla disperazione / calma, senza sgomento”. Non c’è altro. Segue una terza quartina, come una voce fuori campo: “Non porterà nemmeno / la lanterna. Là / il buio è così buio / che non c’è l’oscurità”. Siamo immersi dunque in questo ambiente che forse ci è noto.
Il dialogo che conclude il racconto è terribilmente vicino al limbo di Giorgio Caproni: “Da allora sono morto (dice il cacciatore). - Lei vive anche, però. - In un certo senso sì, la mia barca funebre ha sbagliato rotta, da allora solca acque terrene. - E non partecipa all’aldilà? - Sto sempre sulla scala che vi sale.
Prudenza della guida è il titolo della poesia successiva. Una poesia che assume la sua forza dal contesto che ormai ha preso forma. E proprio nel punto in cui è inserita. Un attimo di quiete mentre incombono orizzonti foschi eppure non ancora intuibili.
“Che ne sappiamo, / noi tutti, di quel che ci aspetta / di là, passata la cresta? // Ci sono mormorii / diversi. Voci. Brusii. Segue un fotogramma, di nuovo una quartina, Il bicchiere, e subito dopo, appena accostato il bicchiere alle labbra, si ode un fischio, e questa volta parla il guardacaccia, introdotto da un esergo, due versi di Eschilo: un acuto terrore punse la mia anima.
Siamo ai margini di una foresta, il guardacaccia ha udito il fischio e vuole uscire per andare a vedere. I compagni temono per lui, ma lui uscirà. Se il nostro peggior nemico è la morte, è vano restarsene in casa, dice Caproni. E sembra un preludio del Franco cacciatore. C’è solo un fischio che risuona fuori, ai margini del bosco, e non può essere quello di un bracconiere perché c’è troppa nebbia.
Ricorrono spesso questi richiami da un luogo indefinito perché indefinibile, se non appunto attraverso allegorie. Senza le allegorie non avremmo parole per indicarlo. Non solo. Il fischio è un richiamo tetro, che proviene da un altrove, ma è anche una specie di nuovo incipit, del tipo Call me Ishmael. Chiamatemi Ismaele.
Noi oggi possiamo leggere il Congedo come una selva di premonizioni del Caproni della terza fase, e quindi vederla accennata e come in nuce, nascente, appena sbozzata in questi spezzoni lirico-narrativi, in queste confessioni cortesi e tormentate, eppure allora non era immaginabile che questo lavorio attraverso personificazioni fosse in realtà una sorta di rendiconto finale o di rito di passaggio, compreso il Lamento (o boria) del preticello deriso.
Una poesia dedicata a sé stesso, con un prestito da Céline. “Che mai volete / da me - da questa mia / miseria senza teologia? / So che anche voi non credete / a Dio. Nemmeno io.
Qui appare personificata la sua “ateologia”, che lo ispirerà fino a Res amissa. Ma anche la sua insopportazione della società del carrierismo e degli elettrodomestici. Preferisce una ricerca piena di incertezze ma non intellettuale: “D’altro non mi chiedete.
Fin qui le prosopopee: un viaggiatore, un guardacaccia, un prete. Figure casuali? Kafka ad esempio sceglie un agrimensore, che anche lui giunge in una gelida sera d’inverno e cercherà di trovare la strada verso il castello. Tuttavia c’è una differenza, perché in Kafka la realtà quotidiana mostra inquietanti risvolti metafisici, Caproni invece sembra andare proprio alla ricerca della metafisica, ma non la trova. Trova un intricato gioco di specchi.
“Pensatina dell’antimetafisicante: Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla.
Torniamo al Congedo, perché dopo il lamento del praticello deriso improvvisamente il libro si anima e appaiono tanti personaggi dell’infanzia del poeta. Lo Scalo dei fiorentini, una spalletta sui fossi (che sono i canali artificiali che attraversano Livorno, presso la grande piazza chiamata il Voltone) si popola di presenze vive … però “I nomi / li ha con sé il vento”.
Qui il lessico e il tono sono proprio quelli di Céline, che in quel periodo Caproni traduceva (Morte a credito) e la novità è l’irruzione di così tanto parlato senza filtro letterario in poesia, sebbene virgolettato. Al quale segue, senza alcuna percezione di un cambio di lingua: “Scostai la sedia.
E inaspettatamente ritroviamo un personaggio intravisto fugacemente, cioè colui che ha appena ricordato qualche frammento della sua infanzia è la stessa persona che compare ad inizio del libro “In una notte d’un gelido 17 dicembre”. Dunque che cosa fa? Esce perché non ama i ricordi.
“E so che il vino / aizza la memoria, e che… quei tre / avrebbero fino all’alba / (all’alba che di via Palestro / fa un erebo) senza un perché / continuato a evocare / anime…”. Quei tre. I ricordi, il vino, la memoria. Tutto tiene, insomma.
Ora gli restano pochi ricordi ancora da congedare. Uno è Il gibbone, l’altro è Toba, il primo si trova allo zoo, vicino casa sua, a Genova, il secondo è il suo nemico di ferocissime sassaiole, ora fiaschettiere. Ma l’altra, Il gibbone, per me è una delle sue poesie più belle.
Una poesia breve, che aggiungo alla fine di questi pensieri. Nel gibbone allo zoo Caproni vede sé stesso emigrante a Roma, o una estraneità più radicale, cioè sradicata. Lontana, la città verticale, scintillante, Genova della sua adolescenza.
Poi il libro si chiude con due immagini che ci riportano alla stazione e alla ferrovia, anche se il ricordo va alle sue prime prove da insegnante a Rovegno, in Val Trebbia: “il tempo era di prima / che avessi conosciuto Rina”.
Attenzione infine alla chiusa. Non è un libro sorprendente? Quel bilanciarsi miracoloso della sua provvisorietà, di un senso di incompiutezza e transitorietà, insieme a un rigoroso e apparentemente casuale montaggio? Quell’effetto di non-finito che per Vincenzo Mengaldo è dovuto al contrasto tra l’uso dei versi medi o brevi rimati fittamente e la lunghezza dei testi, si potrebbe intuire anche da una parola che sta vicina al luogo della sua germinazione, che cresce per contrappunti e va in cerca di una melodia, o di una voce vera su un palcoscenico a teatro vuoto.
La paura e l'ateologia nel "Congedo"
Il Congedo del viaggiatore cerimonioso rappresenta un improvviso passaggio a livello ed è un libro in cui tutto cambia perché il viaggio comincia a finire passando dalla storia all’“antistoria”. Lo annunciano bene i versi del l’ultima poesia, Odorvestimentorum, dove compare anche il distico “i tuoi acri rossori / son tenebra, non paura”.
Caproni comincia ad allestire un teatro dove è forte l’intenzione di sbarazzarsi della paura: “Al diavolo perciò la paura, / giacché non serve” così ne Il fischio (parla il guardiacaccia) . Intanto nel successivo Muro della terra, essa compare associata a una città come Roma (per esempio in Via Pio Foà, I : “La luce che vuota / e cieca, s’è fatta paura / e alluminio, qua / dove […] / […] la città / sputa in faccia / il suo Orgoglio / e la sua Dismisura”).
Ormai si tratta però di un’apparizione improvvisa, se già in una poesia dispersa degli anni Cinquanta il poeta invita se stesso ad accelerare il passo e raggiungere in fretta la fine: “Giorgio, fa’ presto a morire: / […] / e balza senza paura / verso la buca”.
Proprio riguardo al Muro della terra Biancamaria Frabotta ha scritto che un testo come l’Idrometra, del 1968-69, “annuncia […] il definitivo naufragio delle testimonianze umane: l’arte, la storia, l’intera realtà” mentre il genere umano ormai “assiste [….] a ciò che, nel presente, è già accaduto”. […] E allora, tanto vale dir paura alla paura.
Proprio nel Franco cacciatore il poeta “pers[o]” in “Un vento / friabile” torna a chiedersi se il vuoto non abbia preso il sopravvento: “È paura? / Il bosco s’è mutato / in allarmata radura”.
In sostanza se, come ha scritto Luigi Surdich, “l’esistenza è un territorio dove immobilità e durata vengono a coincidere” (e il riferimento è al verso di Dopo la notizia “agostinianamente / più non cade tempo”), da un certo momento in poi ciò che interessa a Giorgio Caproni non è più afferrare la realtà con il sentimento. Anche la paura non è più, come ne Gli anni tedeschi, nel corpo o “nel petto”.
Dopo il Congedo la ricerca poetica di Caproni si sposta velocemente da una “realtà” quasi possibile a un’“irrealtà” quasi sfiorata (quella del Conte di Kevenhüller). Ed è così che “(la paura)” come “(la vita)” diviene - anche graficamente - una parentesi “dura” e “oscura” della quale si è smarrita la testimonianza.
Ed è un sintomo tangibile già nel testo del 1970 I coltelli (confluito nel Muro della terra) all’interno del quale il male taglia con l’accetta la paura che lo precede. Aveva paura. Schiacciai il grilletto. Ah, mio dio. È con la condanna a morte della paura che in Caproni nasce la stagione dell’“ateologia” (Versicoli del controcaproni), una fine e un principio dei quali l’io continua a essere il centro e la perdita.
Tabella riassuntiva dei temi principali
Tema | Descrizione | Esempi nel "Congedo" |
---|---|---|
Viaggio | Metafora della vita e del percorso interiore | Viaggiatore che scende dal treno, stazioni, percorsi |
Esilio | Allontanamento dalla vita e avvicinamento alla morte | Ignoranza del luogo di trasferimento, senso di perdita |
Paura | Sentimento di fronte all'ignoto e alla morte | "Al diavolo perciò la paura", richiami da un luogo indefinito |
Ateologia | Insofferenza verso la religione e la società | "Che mai volete / da me - da questa mia / miseria senza teologia?" |
Memoria e infanzia | Rievocazione di figure e luoghi del passato | Lo Scalo dei fiorentini, Il gibbone, Toba |
In conclusione, "Congedo del viaggiatore cerimonioso" è un'opera complessa e ricca di significati, che invita il lettore a riflettere sulla vita, la morte, la solitudine e la ricerca di un senso in un mondo sempre più incerto.
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