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Analisi del "Congedo del viaggiatore cerimonioso" di Giorgio Caproni

Nel 2006, ad Ancona, durante un ciclo di incontri dedicati ai poeti contemporanei, è stata proposta una lettura del libro "Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee" di Giorgio Caproni. Le letture in tempi diversi a volte non si assomigliano ma a volte sì.

Giorgio Caproni, nato nel 1912 a Livorno, visse l’adolescenza a Genova. Poi si trasferì a Roma, dove lavorò come insegnante e si dedicò ai suoi libri e alle sue traduzioni. Tra le sue traduzioni più importanti figurano Proust, Céline, Genet, Flaubert e Apollinaire. Muore il 22 gennaio 1990.

Nell’edizione dei Meridiani Mondadori (L’opera in versi, 1998) si può consultare una vasta bio-bibliografia dettagliata, ovviamente non completa perché su questo poeta si continua e si continuerà a scrivere.

La natura incerta del Congedo

Il Congedo assume un aspetto incerto e provvisorio, distinguendosi sia dai libri precedenti sia da quelli successivi. Il Congedo invece sembra costituito di occasioni e ricordi, in sostanza pare il risultato di una spontaneità non premeditata. Nella precedente lettura, si diceva che il libro prende forza proprio dalla sua precarietà, dalle oscillazioni lirico-narrative, dalla novità del parlato inserito in un contesto di allegorie, come avverrà limpidamente nei libri successivi.

Nel 2006 poi è stata detta una cosa azzardata ma non irriverente: che l’ultimo Caproni sembrava uno straordinario, magistrale inventore di travestimenti. Caproni disegna una scena ed ecco che i significati scivolano via verso altre direzioni o in profondità. Parole e intere poesie sostituiscono e rivelano un desiderio, una pulsione che si traveste in continuazione. Forse perché su una parola convergono pulsioni diverse, a volte tra loro contraddittorie. Penso poi ai titoli delle sue prime raccolte: Come un’allegoria, Finzioni, ad esempio.

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Caproni mette in scena le sue emozioni e quel travestimento rivela altri aspetti non detti nel testo, e infine tutto si trasferirà nella lingua. Dunque, questa idea la conserverei, oggi. Caproni è un poeta ricco di sensualità, di immagini, di racconti, di nomi di strade, di fatti concreti, sia legati alla città dove è nato, Livorno sia ai luoghi dove è vissuto, Genova. Sembrano tanti modi di congedarsi.

Le parole non dicono solo quello che dicono ma rimandano ad altri contesti, filosofici, musicali, teologici, a-teologici, esistenziali, etici, che emergono dal tessuto poetico: nel Conte di Kevenhüller il tema è la Bestia, il male, per esempio, mentre la Res amissa, la cosa perduta, è il bene, del resto Caproni era un assiduo lettore di Dante e i suoi ultimi libri, dopo il Congedo, si possono considerare come degli aggiornamenti contemporanei della Commedia.

Dal Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee, Giuseppe Bertolucci ha realizzato un film (sceneggiatura in Ubulibri 1992). Bertolucci parla di un testo in attesa di personaggi. In effetti Caproni ci presenta delle prosopopee, cioè delle personificazioni.

Da ammirare la grande pietas di questo autore. Non accentua i toni. Nulla di infernale (o purgatoriale), solo un luogo-non-luogo, contrassegnato dalla indeterminatezza, nonostante i riferimenti a una stazione ferroviaria, a un ritrovo, un’osteria, ai margini di un bosco.

Caproni è giunto a un punto chiave della sua vita, lo vedremo tra poco, quando affermerà di essere giunto “alla disperazione / calma, senza sgomento”. Inventa la figura del congedo e alcuni personificatori di questa pulsione, cosicché il libro pare un piccolo repertorio degli addii, recitati e immaginati in vari modi, e la sua incompiutezza - avvertita come tale da Caproni stesso - non toglie ma aggiunge significati al libro. Less is more sembra lo stemma del nuovo sentiero che si apre. Lui sente che il mondo che ha descritto fino a quel punto della sua vita è finito. Caproni ha superato la sua linea d’ombra.

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C’è chi dice che Caproni non ha fatto altro che congedarsi, in poesia (Giovanni Raboni). La famiglia come sappiamo è al centro dei suoi affetti, tuttavia c’è questo desiderio di scombinare tutti i legami familiari e soprattutto i ruoli, insieme al tempo. La poesia è il luogo dove tutto viene scombinato e ricombinato.

Invece Caproni può scrivere di Annina (Anna Picchi, sua madre, nei Versi livornesi) come di una fidanzata, e sua fidanzata diventerà in questa “ars combinatoria” la figlia Silvana (in Erba francese del 1978), e poi scambia i ruoli anche con il figlio Attilio Mauro (nel Muro della terra del 1975). Si congeda da tutti, Caproni, con il passato e con la sua gioventù, prima di peregrinare alla ricerca di una selvaggina che sembra avere abbandonato il pianeta e che assume forme plurime: Dio, il vuoto, la poesia, il male (la Bestia).

Questo, per contrasto, è il valore della sua poesia: una forma di letizia paradossale che si situa fuori dalle convenzioni rituali e di linguaggio. La poesia serve a Caproni per rivelarsi a sé stesso, però accorgendosi gradatamente di essere incappato in un gioco di specchi, che lui con divertita disperazione mette in scena. E’ il Caproni che Mengaldo assegna al suo terzo periodo, dove le mappe dei suoi itinerari sono imprevedibili, perché scopre che non solo manca una meta ma conseguentemente anche uno scopo.

Allora più che un viaggio o una caccia la sua poesia diventa una erranza, il che significa una ulteriore riduzione, un ritorno a condizioni primitive, tipo quelle dove si accompagna il morto con scherzi e disarmante allegria. Tutto il mondo poetico di Caproni - ha scritto Geno Pampaloni - si trasferisce presso i confini dell’assoluto. Ora torniamo indietro, in quegli anni, tra il 1960 e il 1964, in cui prende forma Il congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee.

Intanto il viaggiatore è cerimonioso, e questo non dipende soltanto da una eccessiva cortesia o filantropia semmai da un suo attaccamento alle forme delle consuetudini sociali. Lo stile del testo asseconda questa impressione ma si avverte il profumo di una pietà ironica.

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Analisi delle quartine iniziali

Abbiamo due incipit in quartine, due mesti e delicati preludi alla poesia che introduce la figura del congedo. Un uomo solo, che ha conoscenze più di là che di qua, usa parole semplici nel salutare i compagni di viaggio e si appresta a scendere dal treno (“Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia”). Però poi saluta in modo strano: “Congedo alla sapienza / e congedo all’amore. / Congedo anche alla religione. / Ormai sono a destinazione”.

E pure la valigia che cerca di portare sul corridoio è incomprensibile perché “E’ una valigia pesante / anche se non contiene gran che: / tanto ch’io mi domando perché / l’ho recata, e quale / aiuto mi potrà dare / poi, quando l’avrò con me”. Una meta è questa: “io / sono giunto alla disperazione / calma, senza sgomento”. Non c’è altro. Segue una terza quartina, come una voce fuori campo: “Non porterà nemmeno / la lanterna. Là / il buio è così buio / che non c’è l’oscurità”.

Siamo immersi dunque in questo ambiente che forse ci è noto. Il dialogo che conclude il racconto è terribilmente vicino al limbo di Giorgio Caproni: “Da allora sono morto (dice il cacciatore). - Lei vive anche, però. - In un certo senso sì, la mia barca funebre ha sbagliato rotta, da allora solca acque terrene. - E non partecipa all’aldilà? - Sto sempre sulla scala che vi sale”.

Segue un fotogramma, di nuovo una quartina, Il bicchiere, e subito dopo, appena accostato il bicchiere alle labbra, si ode un fischio, e questa volta parla il guardacaccia, introdotto da un esergo, due versi di Eschilo: un acuto terrore punse la mia anima. Siamo ai margini di una foresta, il guardacaccia ha udito il fischio e vuole uscire per andare a vedere. I compagni temono per lui, ma lui uscirà. Se il nostro peggior nemico è la morte, è vano restarsene in casa, dice Caproni. E sembra un preludio del Franco cacciatore.

C’è solo un fischio che risuona fuori, ai margini del bosco, e non può essere quello di un bracconiere perché c’è troppa nebbia. Ricorrono spesso questi richiami da un luogo indefinito perché indefinibile, se non appunto attraverso allegorie. Senza le allegorie non avremmo parole per indicarlo. Non solo. Il fischio è un richiamo tetro, che proviene da un altrove, ma è anche una specie di nuovo incipit.

Noi oggi possiamo leggere il Congedo come una selva di premonizioni del Caproni della terza fase, e quindi vederla accennata e come in nuce, nascente, appena sbozzata in questi spezzoni lirico-narrativi, in queste confessioni cortesi e tormentate, eppure allora non era immaginabile che questo lavorio attraverso personificazioni fosse in realtà una sorta di rendiconto finale o di rito di passaggio, compreso il Lamento (o boria) del preticello deriso.

Una poesia dedicata a sé stesso, con un prestito da Céline. “Che mai volete / da me - da questa mia / miseria senza teologia? / So che anche voi non credete / a Dio. Nemmeno io. Qui appare personificata la sua “ateologia”, che lo ispirerà fino a Res amissa. Ma anche la sua insopportazione della società del carrierismo e degli elettrodomestici. Preferisce una ricerca piena di incertezze ma non intellettuale: “D’altro non mi chiedete.

Fin qui le prosopopee: un viaggiatore, un guardacaccia, un prete. Figure casuali? Kafka ad esempio sceglie un agrimensore, che anche lui giunge in una gelida sera d’inverno e cercherà di trovare la strada verso il castello. Tuttavia c’è una differenza, perché in Kafka la realtà quotidiana mostra inquietanti risvolti metafisici, Caproni invece sembra andare proprio alla ricerca della metafisica, ma non la trova. Trova un intricato gioco di specchi.

Torniamo al Congedo, perché dopo il lamento del praticello deriso improvvisamente il libro si anima e appaiono tanti personaggi dell’infanzia del poeta. Lo Scalo dei fiorentini, una spalletta sui fossi (che sono i canali artificiali che attraversano Livorno, presso la grande piazza chiamata il Voltone) si popola di presenze vive … però “I nomi / li ha con sé il vento”. Qui il lessico e il tono sono proprio quelli di Céline, che in quel periodo Caproni traduceva (Morte a credito) e la novità è l’irruzione di così tanto parlato senza filtro letterario in poesia, sebbene virgolettato.

Al quale segue, senza alcuna percezione di un cambio di lingua: “Scostai la sedia. E inaspettatamente ritroviamo un personaggio intravisto fugacemente, cioè colui che ha appena ricordato qualche frammento della sua infanzia è la stessa persona che compare ad inizio del libro “In una notte d’un gelido 17 dicembre”. Dunque che cosa fa? Esce perché non ama i ricordi. “E so che il vino / aizza la memoria, e che… quei tre / avrebbero fino all’alba / (all’alba che di via Palestro / fa un erebo) senza un perché / continuato a evocare / anime…”. Quei tre. I ricordi, il vino, la memoria.

Ora gli restano pochi ricordi ancora da congedare. Uno è Il gibbone, l’altro è Toba, il primo si trova allo zoo, vicino casa sua, a Genova, il secondo è il suo nemico di ferocissime sassaiole, ora fiaschettiere. Ma l’altra, Il gibbone, per me è una delle sue poesie più belle. Una poesia breve, che aggiungo alla fine di questi pensieri.

Nel gibbone allo zoo Caproni vede sé stesso emigrante a Roma, o una estraneità più radicale, cioè sradicata. Lontana, la città verticale, scintillante, Genova della sua adolescenza. Poi il libro si chiude con due immagini che ci riportano alla stazione e alla ferrovia, anche se il ricordo va alle sue prime prove da insegnante a Rovegno, in Val Trebbia: “il tempo era di prima / che avessi conosciuto Rina”.

Quel bilanciarsi miracoloso della sua provvisorietà, di un senso di incompiutezza e transitorietà, insieme a un rigoroso e apparentemente casuale montaggio? Quell’effetto di non-finito che per Vincenzo Mengaldo è dovuto al contrasto tra l’uso dei versi medi o brevi rimati fittamente e la lunghezza dei testi, si potrebbe intuire anche da una parola che sta vicina al luogo della sua germinazione, che cresce per contrappunti e va in cerca di una melodia, o di una voce vera su un palcoscenico a teatro vuoto.

Pubblicato nel 1965, il Congedo offre una dozzina di poemetti unificati dalla meditazione sui temi della vita e della morte. Il componimento fu scritto nel settembre del 1960 e venne edito in Palatina, una rivista letteraria di Parma. Fu poi stampato (1965) nel volume a cui dà il titolo.

Come gli altri poemetti del libro è una prosopopea: il poeta cioè racconta un fatto (qui, un viaggio in treno) fingendo di essere un’altra persona, in questo caso un viaggiatore molto loquace, alter ego di Caproni. Schema metrico: lunga composizione di dieci strofe di versi liberi, alcuni di misura tradizionale. Il viaggiatore sa che deve scendere a una certa stazione (non sa però di che stazione si tratti). Perciò si prepara raccogliendo il suo bagaglio e salutando i vicini di scompartimento.

Il tema del viaggio, già anticipato da Caproni nelle bellissime stanze della funicolare (1952), si fonde a un altro tema, più profondo, quello dell’esilio dalla vita. Il luogo del trasferimento lo ignoro (vv. 20-21), scrive il poeta: il treno del Congedo si allontana da ciò che è noto, per giungere a una meta ignota. Un po’ tutta l’opera di Caproni è uno struggente canzoniere d’esilio, un ininterrotto diario di viaggio verso l’incerto, o anzi verso il nulla e la morte.

La vita è come un tunnel che rappresenta l’assenza o la scomparsa di Dio; intanto il poeta ricorda la madre, la propria città ecc. e celebra, con ironia, gli appuntamenti, i riti, le cerimonie quotidiane. Il linguaggio del testo annulla ogni retorica in un discorso leggero, svagato, un po’ petulante.

I versi sono legati tra loro da frequenti enjambements, come per avvicinare il discorso alla prosa; le rime ne accrescono la musicalità. “Poeta del sole, della luce e del mare” così fu definito da uno dei suoi primi critici Giorgio Caproni. In questa poesia, come in numerose altre, Caproni canta il tema ricorrente del viaggio, sempre con una chiarezza stilistica propria di un autore concentrato su un messaggio da comunicare al lettore, ma che non esclude uno studio metrico organizzato.

Dei versi quindi che rispecchiano direttamente l’animo del poeta, protagonista della sua lirica; un viaggiatore in treno decide di scendere alla prossima stazione, si prepara a prendere il bagaglio e a salutare i suoi compagni di viaggio. Il senso di transitorietà rievocato in tutta la poesia, anche se studiato e trattato da numerosi poeti precedenti o contemporanei di Caproni, è reso veritiero da un’atmosfera di spossatezza quasi assimilabile alla vecchiaia.

Un viaggiatore visto quindi come simbolo di ogni uomo che giunge alla sua ultima stazione salutando una vita ricca di storie. Un vero e proprio esilio dalla vita, una decisione presa dal nostro protagonista perché inevitabile, e accettata come fosse una tappa da superare. La vita è vista come un attimo concesso ad ognuno di noi per salutare ogni parte del mondo, un momento forse troppo esiguo perché elimini in noi la preoccupazione di scendere ad una stazione buia.

Il Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee esce nel 1965 e nell’intento di Caproni doveva rimanere una raccolta aperta, soggetta ad eventuali ampliamenti e modifiche. Le due brevi poesie iniziali (In una notte d’un gelido 17 Dicembre e Senza titolo ) già delineano quello che sarà il percorso del poeta: un viaggio dentro se stesso all’insegna della solitudine e del buio della notte.

“Nel Congedo […] la metafora del ‘passaggio’ s’infrange nell’impatto con la realtà che non consente situazionismi e vanifica ferocemente qualsiasi progetto utopico. Il passaggio diventa viaggio all’interno della dissoluzione delle cose, percorso ad inferos - reso significativamente persino nei suoi termini tecnici: treni, scali, cacciatori, compagni di viaggio - nella consapevolezza “d’aver più conoscenze / ormai di là che di qua” e nell’unica certezza di cui ormai dispone che “io / son giunto alla disperazione / calma, senza sgomento.” Amara scienza, / si ricava dal viaggio! È positiva però, secondo me, la continua presenza del tema del viaggio in Caproni perché ciò significa costante desiderio profondo di cambiamento interiore.

Il viaggio è naturalmente immaginario, pur essendoci treni, stazioni, viaggiatori e percorsi. I luoghi sono, però, quelli interiori, ci si orienta seguendo una “geografia dell’anima” e ci si addentra nei meandri oscuri del proprio Io. Caproni - L’uomo sa bene che ad un certo punto è necessario allontanarsi dal caos e dal tumulto del mondo esterno perché occorre essere soli per entrare dentro di sé. Non c’è più comunione di idee e progetti: non si può più bere insieme, le strade si separano, l’uomo è solo nel buio, “[…] non ha / nessuno, nell’oscurità, / cui accostare il bicchiere…” (Il bicchiere).

“Nel Congedo” - scrive Antonio Barbuto “la metafora del ‘passaggio’ s’infrange nell’impatto colla realtà che non consente situazionismi e vanifica ferocemente qualsiasi progetto utopico: il passaggio diventa viaggio all’interno della dissoluzione delle cose, percorso ad inferos. C’è, in ultima analisi, la dichiarazione dell’impossibilità accertata d’una fede, la disperata eppure rigorosa e stoica affermazione di solitudine, nella estrema illusione di dare dignità alla propria, ma chiaramente non solo alla propria, fine.”

Con il Congedo del viaggiatore cerimonioso si apre la galleria delle prosopopee, di personaggi in ambiguo rapporto di identificazione e di estraneità. ”L’espediente dei plurimi sdoppiamenti, dei ‘finti dialoghi’, sembra tendere ad esorcizzare il vuoto assoluto, supponendo un’illusione comunicativa, postulando la presenza di altre comparse silenziose, di una compagnia, sia pur futile e temporanea. E ancora osserva Barbuto: “Lo schema prescelto di prestare ad altri i propri sentimenti e quindi di riconoscersi nelle prosopopee - lamenti borie - degli altri mèzigue traduce il tentativo ultimo di Caproni di sdipanare il filo della propria solitudine attraverso questa sorta di voci di dentro che nel momento in cui tendono a diventare dimostrazione di dialogo finiscono per confermare che l’unica soluzione possibile è il monologo e dunque riaffermano ulteriormente la coscienza della crisi comunicativa. In questo senso le invenzioni caproniane acquistano il significato di finzione eretta a difesa dall’assedio del deserto e del nulla.”

Nella prima prosopopea (Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee) si assiste dunque al distacco del viaggiatore, (ritorna la metafora viaggio/vita) che è il primo degli alter ego del poeta utilizzati nella raccolta, dai suoi compagni di viaggio: “Amici, credo che sia / meglio per me cominciare / a tirar giù la valigia. […]”, […] Ancora vorrei conversare / a lungo con voi. La necessità soggettiva ed ineliminabile di un avanzamento interiore permette di superare la paura dell’ignoto e si “parte” senza infatti sapere nulla, o quasi: “[…] Anche se non so bene l’ora / d’arrivo, e neppure / conosca quali stazioni / precedano la mia, / sicuri segni mi dicono, / da quanto m’è giunto all’orecchio / di questi luoghi, ch’io / vi dovrò presto lasciare. […]”, “[…] Il luogo del trasferimento / lo ignoro.

I versi successivi presentano la prima immagine di nebbia, simbolo dell’indeterminato che tutto nasconde e confonde. “[…] mentre il mio occhio già vede / dal finestrino, oltre il fumo / umido del nebbione / che ci avvolge, rosso / il disco della mia stazione.

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