Lungo viaggio verso la notte: Un'immersione nel dramma di O'Neill
Lungo viaggio verso la notte è il capolavoro del drammaturgo statunitense Eugene O’Neill.
Scritto tra il 1941 e il 1942, fu rappresentato per la prima volta a Stoccolma nel 1956 e vinse il Premio Pulitzer l’anno successivo, dopo la morte dell’autore.
Ambientato nel 1912, il dramma, potente e struggente, racconta una giornata della famiglia Tyrone, tra conflitti, dipendenze e segreti dolorosi.
Un’opera segnatamente autobiografica, forse quella che più di tutte rispecchia la vicenda privata dell’autore; premiata e conosciuta nel mondo intero, al punto da guadagnarsi la definizione di classico della drammaturgia contemporanea.
La trama e i suoi temi
Durante una lunga giornata, i membri di una famiglia disfatta da miserie fisiche e morali, si urlano in faccia l'uno contro l'altro la propria disperazione e la propria solitudine.
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Sono: il padre, un ex-attore ricco ma avaro che si rifugia nell'alcool; la madre, una morfinomane che ha paura della realtà; il figlio minore, tubercolitico che presagisce la fine; il maggiore, che vede lucidamente la situazione ma tutto quello che sa fare è rifugiarsi nello scrivere.
Ritiratasi nella sua residenza estiva, la famiglia Tyrone si confronta, nell’arco di un’intera giornata, dal mattino a notte fonda, col proprio passato, i propri fallimenti e rimpianti.
La madre Mary è schiava della morfina, il padre James è un ex-attore di teatro ormai ossessionato dal denaro e dalle proprietà terriere, i due figli Edmund e Jamie sono a un passo dall’alcolismo.
Edmund si scopre affetto da tubercolosi, mentre la madre Mary è prossima a una delle sue crisi deliranti…
In pratica O’Neill trasforma gli anni della propria formazione giovanile in cupissimo materiale per una decadente tragedia familiare.
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Come già in altre sue opere teatrali, il modello greco classico informa temi e modalità di rappresentazione, ricollocati nel preciso contesto della cultura americana.
Anche Lungo viaggio verso la notte vede rapporti conflittuali tra padri e figli, madri morbose, risonanze freudiane, ambivalenze emotive e sconfitta predestinata.
Tuttavia, ne Il lungo viaggio verso la notte pare di assistere a un ulteriore giro di vite sulla disperazione, l’esacerbazione di rabbie e conflitti, l’accumulo di sciagure.
Non ultima, una cupa idea di fede cattolica, schiacciante e oppressiva, ai limiti del fanatismo castrante.
Adattamenti cinematografici e teatrali
Sidney Lumet ne diresse il primo adattamento cinematografico nel 1962, con Katharine Hepburn e Ralph Richardson.
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Tratto dall’omonima pièce di Eugene O’Neill, Il lungo viaggio verso la notte di Sidney Lumet tenta la rilettura cinematografica di una fonte teatrale cercando di evitare l’asservimento espressivo nei confronti del testo originario.
Gabriele Lavia e Federica Di Martino portano in scena questa opera-confessione, “un viaggio all’indietro” nella vita di O’Neill, precipizio impietoso nell’amarezza di un fallimento senza riscatto.
Il lavoro diretto da Gabriele Lavia ci sembra fedele e rispettoso del testo originale: si intende rappresentare un grande classico, nei modi e nei tempi “classici”, senza particolari sorprese né tocchi di originalità.
Ma è proprio questa, forse, l’incisività dell’allestimento: trasmettere l’atmosfera di precarietà e di transitorietà che regna sovrana nella saga familiare di O'Neill.
Lungo viaggio verso la notte è un’opera che deve fare male, che lascia socchiuso un solo spiraglio di luce (nella penombra malinconica e solitaria di casa Tyrone) nell’avvenire di Edmund - alter ego di Eugene O'Neill - e nelle sue ambizioni di scrittore.
Analisi della scenografia
La prima cosa che colpisce dell’allestimento diretto da Gabriele Lavia è la scenografia: la casa dei Tyrone è rappresentata come una prigione; i quattro protagonisti - padre, madre e due figli - vi si muovono piegandosi e facendosi largo tra le inferriate, adattandosi e non provando a liberarsi.
La bellissima scena di Alessandro Camera è infatti recintata come fosse una gabbia, una prigione.
Vi campeggiano due alte librerie, torri d’avorio contenenti centinaia di libri.
Milioni di parole scritte, altrettante recitate dai personaggi.
Ma quella alta recinzione in ferro nero, ci è sembrata anche la delimitazione di uno spazio prezioso: quello del teatro novecentesco ormai quasi rinchiuso in una riserva.