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Note di Viaggio nel Mondo di Guccini: Un'Esplorazione delle Radici e del Significato

Compiere gli anni significa anzitutto ricordare quando si è nati, un viaggio a ritroso, intrapreso dalla memoria lungo il tempo trascorso, che trova il suo compimento nell’età che ci portiamo addosso. Compiere gli anni significa allora ritornare alle proprie radici e osservarne lo scarto dal presente.

Manco a farlo apposta, Radici (1972) è uno dei primi album realizzati da Francesco Guccini, che non si è limitato a compiere soltanto ottant’anni. Sì, perché oltre che un cantautore fra i più blasonati e apprezzati, Guccini è pure scrittore. E lo è da un sacco di tempo: praticamente da quando ha iniziato a scrivere canzoni.

Che penna e chitarra siano mondi sostanzialmente complementari ce l’ha già insegnato qualche anno fa il buon vecchio Dylan, aggiudicandosi a sorpresa (e non senza polemiche) il Nobel per la letteratura. E ancora non sarebbero sufficienti a riassumere i mille mondi portati alla luce dallo stile prismatico dei suoi componimenti. Ma forse proprio la parola “radici” ci viene in aiuto, rappresentando, più di tutte le altre, il cuore della sua ispirazione artistica.

Le Radici di Guccini: Un Viaggio nel Tempo e nello Spazio

Sono radici ben salde quelle che legano Guccini a Pavana, piccolo paese tra Emilia e Toscana, rievocato anche in quest’ultimo romanzo. E sono radici anche quelle che il cantautore si dimostra capace di rintracciare dentro le parole, giocando con le etimologie fra l’italiano e il dialetto. Ricordiamo, a tal proposito, la sua ultima apparizione discografica (nel novembre scorso) con il brano Natale a Pavana, pensato per il progetto di Mauro Pagani, Note di viaggio, e cantato interamente in dialetto.

Proprio Radici, allora, ci sembra il disco adatto per riscoprire questa poesia e tentare un ricerca simile, per dare definizione più precisa a ciò che la parola radici può voler dire per noi e per lui, nel giorno del suo compleanno. La prima, omonima traccia ci ricorda come le radici siano anzitutto dei confini: confini della sera e confini dei ricordi. Oltre le nostre radici c’è il nulla, per noi, perché noi oltre non esistiamo. Ed è inutile cercare risposta ad ogni cosa non capìta.

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Analisi di Alcune Tracce Chiave dell'Album "Radici"

  • La Locomotiva: narra invece la storia del macchinista Pietro Rigosi, che il 20 luglio 1893, ventottenne, dirottò un treno scagliandolo a forte velocità verso la stazione di Bologna. La corsa fu fatalmente deviata su un binario morto e Rigosi sopravvisse, ma amputato e sfigurato.
  • Piccola Città: altro non è che Modena, sua città natale. Viene qui definita “bastardo posto” e “vecchia bambina”, luogo di “visi e dolori e stagioni, amori e mattoni che parlano”. Le radici, ci insegna allora Modena, sono le origini, nel senso letterale del termine: ciò che ci ha visti “oriri”, in latino “cominciare”.
  • Incontro: La stessa città di Modena fa poi da sfondo a Incontro, il brano seguente, che narra il trovarsi inaspettato e sospeso: quello fra due vecchi amici.
  • Canzone dei Dodici Mesi: ci ricorda che per ogni luogo ci sono anche dei tempi, al plurale. I mille tempi della nostra vita: lineari, mancati, confusi, assenti, scanditi dai mesi che passano lenti o veloci, catturati o impalpabili. Poi i colori chiari di luglio e le ore fiacche di agosto aprono la via ai mesi autunnali. Quei mesi fatti dai ripensamenti di settembre, dall’ebbrezza di ottobre, tempo di vendemmia, per arrivare, attraverso le nebbie inquietanti di novembre, al mese di dicembre.
  • Canzone della Bambina Portoghese: forse la più ermetica e riflessiva di tutte, ricorda come le radici siano anche intuizione: parziale svelamento di una verità alla quale comunque non potremo mai accedere.

Note di Viaggio: Un Omaggio a Guccini

Lo scorso novembre un gruppo di artisti si è confrontato con l’opera di Francesco Guccini in un album di cover ideato e arrangiato da Mauro Pagani. Il 9 ottobre uscirà “Note di Viaggio - Capitolo 2: non vi succederà niente” con altri 12 canzoni dell’artista emiliano rivisitate in modo spesso inaspettato.

«Scoprire Guccini è stato come aprire le porte sulla poesia» dice Levante, che interpreta “Culodritto”. A Ermal Meta tocca “Acque”: «L’ho scelta perché è in sintonia con le mie corde melodiche» dice. Fiorella Mannoia canta “Madame Bovary”: «Per la mia generazione Guccini è stato fondamentale» racconta.

La presentazione del disco, lo scorso 14 novembre in zona Porta Romana a Milano, ne è stata la testimonianza. Forse senza la presenza di Francesco non ci sarebbe stato tutta questo eco di stampa. Guccini, nonostante l’età, il passo un po’ incerto dovuto anche ai problemi di vista, appare molto lucido e non lesina oltre ai soliti aneddoti sulla sua vita, anche accenni al suo primo concerto all’estero in terra elvetica, che dovrà raccontare nei dettagli visto l’ilarità che gli ha provocato nel ricordarlo.

Una nota anche sulla copertina dell’album che rappresenta tutti gli interpreti su un barcone, l’opera è di TVboy, street artist siciliano. L’impressione è che Guccini sia stato costretto a cantare un pezzo (Natale a Pavana) per far sì che il disco avesse un vero senso ed ottenesse riscontri di vendite anche se i colleghi che cantano i suoi brani sono di tutto rispetto.

Però nel disco c’è una questa interpretazione del Guccio di Natale a Pavana, una sua poesia precedentemente pubblicata e magistralmente musicata da Pagani che impreziosisce l’album. Tra l’altro, come già avvenuto per “L’ultima Thule”, la montagna è andata da Maometto, anzi da Francesco refrattario ormai da anni agli studi di registrazione.

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Sicuramente più denso e diretto, questo volume 2 ha racchiuso, vuoi anche per la scelta degli interpreti, meglio il significato di ogni canzone. Complice anche e soprattutto lo stile personale che ogni interprete ha portato nei pezzi uscendo forse dall’interpretazione standard.

Io, ad esempio, a un concerto di Francesco Guccini ho avuto l’onore di partecipare. “Delle volte, forse, ho scritto delle buone canzoni, ho scritto anche delle musiche piacevoli, decenti, ma non mi sono mai visto come un musicista, sulle parole forse riuscivo meglio”. A dirlo, e ribadirlo in gran parte delle sue ultime uscite pubbliche, è uno dei cantautori che hanno fatto la storia della musica italiana, un uomo racchiuso in quelle parole.

Per capire chi è Francesco Guccini, fresco finalista del Premio Campiello 2020 con il suo ultimo libro Tralummescuro (Giunti), basta vedere la sua reazione ogni volta che in una trasmissione televisiva viene riproposta questa canzone, che lui, in fondo, non voleva nemmeno pubblicare. Lui a questa domanda ha già risposto nel 1976 proprio ne L’avvelenata, inserita nell’album Via Paolo Fabbri 43.

Quando si pensa a Guccini, quando si vivono le sue canzoni, è inevitabile scontrarsi con “l’eterno gocciolare del tempo” (Vite, canzone scritta nel 2002 per Adriano Celentano. Dio è morto è, per ammissione dello stesso autore, una della prime canzoni “generazionali”. La stesura sarebbe avvenuta nel 1966 e la canzone è un ritratto del “disorientamento di una generazione di ventenni”.

Un altro tratto distintivo della poetica di Guccini, che si può riscontrare anche nei suoi numerosi romanzi, è il rimando alla “casa”. Per lui il collegamento ai suoi luoghi d’origine è fondamentale e lo si intuisce subito in Radici, una canzone inserita nell’omonimo album del 1972.

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Nei testi gucciniani è spesso presente l’io (“Ho visto”, “Non so”, “Mi han detto”, ecc) ma è un io che ammette replica, un io che insinua il dubbio, senza lasciare traccia di “un’intenzione definitoria”. Sono pochi gli autori che titolano una canzone (e un album) con l’indirizzo della propria abitazione. Guccini lo fa nel 1976 con Via Paolo Fabbri 43.

Il brano inizia con “fra krapfen e boiate le ore son volate”, una scena comune a qualunque ragazzo che frequenti dei propri coetanei. Per fortuna, dopo le cover-strazio che hanno infettato etere e web nei mesi scorsi, il capitolo secondo di «Note di viaggio» fa meglio del primo e ci regala un Guccini rivisto e corretto, ma con gusto.

E non le manca comporre nuove canzoni? O il pubblico dei concerti? «I concerti proprio no, non mi sentivo mai pronto, a mio agio. Però mi manca la mia band e le cene dopo lo show, con barzellette, cibo, racconti, bevute, fino a 16 bicchieri della staffa».

Insomma, tutto va bene nel buen retiro di Pàvana. «Ma sì, ora c’è il coronavirus, ma io al massimo esco per andare allo spaccio e qualche sera a cena con gli amici alla caciosteria Due Ponti, che non manca nei crediti del disco. Cosa faccio? Scrivo, guardo RaiStoria, programmi frivoli come i quiz, il tg che sento più vicino alle mie idee, ma sadomasochisticamente anche quello più lontano, così posso arrabbiarmi un po’. E ascolto audiolibri, gli occhi, come la voce, non funzionano più».

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