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Stranieri alle porte: significato e implicazioni

A usare questo termine è la scrittrice premio Nobel Toni Morrison, nel suo libro L’origine degli altri. La sua indagine sulla creazione dell’altro si concentra principalmente sulla questione razziale e la percezione del nero e del migrante nella società occidentale. Oggigiorno, infatti, il migrante rappresenta l’altro per eccellenza: arriva da luoghi lontani, ha un diverso colore della pelle, viene relegato nel basso della scala sociale.

Secondo Toni Morrison alla base della nostra necessità di creazione dell’altro ci sarebbe un bisogno non solo psicologico, ma sociale. La paura di essere stigmatizzati come non conformi, ufficialmente propagata e coltivata nella società disciplinare, è stata sostituita, nella società della prestazione dalla paura di rivelarsi inadeguati.

In una società come la nostra, cosiddetta della prestazione (Byung-Chul Han), in cui l’individuo ha una valenza in quanto produttore e consumatore, in cui si promuove l’individualizzazione, il rischio dell’anonimato e di una crisi identitaria (e depressiva) derivante da esso è dietro l’angolo. In siffatta società, fondata e sorretta da leggi di mercato, classificarsi (o peggio: essere classificati) come individui deboli, inutili, ci relega tra quei reietti posti all’ultimo gradino della scala sociale; veniamo in questo modo messi di fronte ai nostri limiti, la nostra inutilità.

Troviamo, dunque, anzi costruiamo la nostra identità tramite la scissione “noi-altro”, tramite negazione: io non sono (come) lui. Ma la scissione non basta: a questa deve seguire la partecipazione in un gruppo che condivida valori considerati, ragionevolmente o meno, la “norma”. La comunità, il gruppo, ci permette di identificarci in un ideale che sentiamo come valevole, giusto, poiché accettato dalla maggioranza. Paradossalmente l’identità dell’individuo si forma solo con l’affermazione di gruppo; viene, dunque, a mancare l’elemento individuale e originale che contraddistingue il nostro io da quello altrui: diventiamo collettività, siamo assorbiti da essa e ne condividiamo i tratti caratteristici. Si crea, in questo modo, uno squilibrio tra la sfera personale e quella comune, propendendo per una sorta di spersonalizzazione.

Per spiegare questo concetto Toni Morrison fa riferimento a un racconto di Flannery O’Connor, datato 1955, dal titolo Il negro artificiale. In questo racconto è espressa l’azione comunitaria, rappresentata da un anziano -povero- sul singolo individuo, incarnato nella figura di un bambino, un foglio bianco sul quale poter scrivere i dettami dell’alterizzazione. Così, l’uomo istruisce il bambino sulla figura del diverso, identificata nel nero: gli insegna a riconoscerlo, ad averne paura, a evitarlo. Questo meccanismo di separazione permette non solo, come abbiamo detto, di autodefinirci, ma l’appoggio del gruppo, della tribù, ci fa da scudo da accuse morali come l’ingiustizia dell’ostracismo del diverso, con la scusante della pratica comune, del “fanno tutti così”. Ci deresponsabilizza come individui perché ci fornisce una risposta collettiva.

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La creazione dell’altro è un qualcosa che non avviene sempre in modo volontario e cosciente da parte della massa e Bauman ci mette in guardia a tal proposito. Per individuare l’altro prima lo si spersonalizza, così da allontanare ogni tentativo di empatia (basti pensare a come vengono percepite le morti in mare, complice la fredda statistica che trasforma persone in numeri da elencare); poi si passa alla disumanizzazione. Si rimarca, ad esempio, sulla nazionalità quando ci sono episodi di cronaca nera, si crea un clima di paura e di ostilità; si fanno continui richiami alla sicurezza nazionale, alla sicurezza del singolo cittadino. Questo meccanismo di difesa da un lato, e valorazione dell’identità dall’altro, non riguarda solo la figura del migrante.

E sull’altro, questa esclusione, che effetti ha? Una prima risposta di chi subisce l’alterizzazione è l’umiliazione: essere esclusi causa un dolore e una vergogna tali da far maturare il disprezzo di sé, che può sfociare in vera e propria depressione. Nella situazione del migrante, che lascia la sua comunità per entrare in contatto con un’altra, la ferita è maggiore e più profonda. Si viene infatti ad innescare il meccanismo della cosiddetta doppia assenza di cui parla il sociologo Abdelmalek Sayad: chi ha lasciato la propria casa per cercare una possibilità di sopravvivenza altrove, crea un vuoto nella società che lascia e dentro di sé.

La terza reazione è una via di mezzo tra le due precedenti: in questo caso l’escluso non si sente toccato da questo ostracismo, considerandosi un essere umano normale e vedendo -invece- la devianza nella collettività. In apparenza questa terza risposta potrebbe sembrare quella di colui che, estraneo a certe dinamiche sociali, è in grado di autodeterminare il proprio io, senza l’approvazione di terzi.

Con l’avanzare della storia, delle scoperte scientifiche e tecnologiche che ci permettono di cambiare la realtà come fin’ora l’abbiamo percepita; con il risveglio delle coscienze, con l’affermarsi di moti identitari che chiedono -a ragione- maggiori ed egalitari diritti, atteggiamenti di alterizzazione, di chiusura, di xenofobia, sono ormai anacronistici e inutili.

Basta un muro a proteggerci dalle invasioni? Perché muro? Perché proteggerci? Perché invasioni? La scelta delle parole non è casuale, ma allude a una visione del mondo che, nel momento in cui si pone come narrazione egemone, esclude da sé ogni possibilità non solo di critica, ma di dialettica in senso lato.

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L’antropologo francese Michel Agier per riassumere quanto constatato da Zygmunt Bauman in Stranieri alle porte (2016) sceglie questa frase: «I muri sono nelle nostre teste». L’Europa, dice Bauman, nonostante la sua tradizione dei Lumi e il cosmopolitismo di estrazione kantiana, ha esacerbato nel tempo una ostilità profonda nei confronti dello stranger, dell’altro; e questo nonostante la presenza del nomadismo e delle migrazioni come costanti antropologiche nel corso dell’intera storia dell’umanità. Quali sono le radici dell’ostilità? Superando una lettura semplicistica in termini di competizione nell’accesso a risorse di fatto limitate (territorio, lavoro, sanità, …), Bauman assume da Bachtin la nozione di paura cosmica, quell’ansia disordinata che ci prende di fronte a un universo incognito, minaccioso, perturbabile; a un futuro fragile e incerto.

L’altro, colui che da sponde opposte alle nostre si affaccia sulla nostra terra, colui che con noi condivide un’umanità di base ma ha diversi da noi colore della pelle, lingua fede costumi; costui diventa appunto incarnazione di questa minaccia pervasiva e incontrollabile, specie quando il suo affacciarsi si atteggia, al nostro sguardo sgomento, a silenziosa invasione. Possiamo sederci sulla riva, scrive Bauman citando Robert Winder, e implorare la marea di non sommergerci, ma sarà ben difficile che la marea ci presti ascolto e che il mare si ritiri: è la condizione psicologica di chi si sente sotto assedio.

Citando Ulrich Beck, Bauman riconosce che nel nostro modello di civiltà è l’individuo a dover farsi carico, nella sua solitudine, di problemi che hanno invece un’origine esterna, sociale (it is now individuals who are charged with the all but unfulfillable task of finding, individually, solutions to socially produced problems): compito evidentemente destinato al fallimento. Nel momento in cui l’obbedienza ad un capo o a l’aderenza a un valore fissato da altri sono finalmente svuotate di senso, l’uomo è libero di dedicarsi al soddisfacimento esclusivo dei desideri che appartengono alla propria sfera privata (as long as our mots d’ordre are no longer obedience, law and obligations to be met, but liberty, desires and a penchant for enjoying their satisfaction); il prezzo da pagare è però alto.

La priorità della prestazione, a sua volta, è anch’essa imposta all’individuo, il quale si trova a doverla sostenere non soltanto al di fuori di strutture di sostegno comunitarie, ma anzi contro di esse, in una cultura del precariato radicale (culture of sink-or-swim individualism) in cui ogni predicato della stabilità è denunciato a gran voce come retaggio di un passato irrecuperabilmente perduto. Fragilità endemica, dunque, che perversamente diventa terreno fertile per l’insorgere di meccanismi antichissimi di individuazione e designazione del capro espiatorio, cui addebitare la colpa di una condizione di realtà cui non si sa far fronte; meccanismi ormai svincolati dall’ambito rituale cui in origine appartennero (Frazer), e consolidati in un agire storico ben determinato. Il capro espiatorio, la vittima, l’homo sacer (Agamben, da Bauman citato esplicitamente) è però oggi a portata di mano: è l’altro, lo stranger. Già in partenza in una posizione di debolezza, egli viene privato rapidamente di quel residuo di diritti che il riconoscimento di una comune umanità dovrebbe garantire, attraverso un processo che Bauman chiama di adiaforizzazione (dal greco ἀδιαφέρω, rendo indifferente).

C’è via di salvezza? Come nella favola delle rane e delle volpi, in cui si narra che queste ultime, spaventate da un branco di cavalli, trovano sollievo nel panico che a sua volta la loro vista provoca tra poche ranocchie, così i sommersi dell’Occidente, esclusi da ogni possibilità di salvezza da un meccanismo produttivo spietato, godono nella scoperta di un ulteriore livello di disperazione. L’altro, lo stranger che arriva dal di là delle sponde e da una vita oltre la nostra comprensione, è effettivamente estraneo perché privo di quei caratteri identificativi minimi che accomunano gli ultimi e i primi della civiltà occidentale.

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Bauman critica esplicitamente il Front National di Marine Le Pen e le esternazioni di Donald Trump, ma avrebbe potuto con altrettanta efficacia far menzione di Prawo i Sprawiedliwość, il partito conservatore di maggioranza in Polonia i cui leader hanno costruito la loro fortuna sullo slogan Polska dla Polaków (“La Polonia ai polacchi”, cfr. una recente intervista a Jarosław Kaczyński). Spacciate per programmi politici, queste vulgate non sono che indizi di un meccanismo sempre uguale, in cui l’Occidente tenta di curare la ferita narcisistica conseguente alla perdita definitiva della sua centralità nel mondo attraverso l’individuazione di un nemico comune nell’altro, in chi viene dal di fuori della comunità ed è, nello stesso tempo, superfluo in quanto potenziale competitore nell’uso di risorse a cui egli non ha titolo e dannoso in quanto erode una presunta identità occidentale, un presunto massimo comun denominatore da cui l’altro è escluso esattamente perché altro.

Ad un certo Occidente, ormai lontano nel tempo, o almeno a certi suoi episodi, andrebbe dato atto di aver saputo farsi modello di accoglienza non prevaricante, di apertura alla non-linearità, alla pluralità e alla misticanza dei punti di vista. Anche di punti di vista irriducibili l’uno all’altro, di dissoi logoi (ne parla Franco Cassano in Il pensiero meridiano, Laterza, Bari, 2007, richiamando la drammatica trattativa tra Meli e Ateniesi ricordata da Tucidide): si pensi all’insediamento musulmano di Lucera, voluto da Federico II, pur con le sue luci ed ombre.

Comprendere quanto la presenza dell’altro, la biodiversità culturale, possa essere fonte di sviluppo; non perseguire ad ogni costo una riduzione a fattor comune che conferisca ad una soltanto delle parti il diritto di forzare l’altrui omologazione al proprio sistema di cultura. Essere luogo aperto al confronto, alla discussione plurale, alla poliglossia (Bachtin); essere agorà, nel senso classico e civile della parola. Costruire non il muro, ma l’antimuro. Ne parla Régis Debray in Eloge des frontières (Folio, Paris, 2013): opponendo l’identità-relazione all’identità-radice, rigettando come insensata la scelta tra l’evaporato e l’incistato (entre l’évaporé et l’enkysté), aprendosi a una condivisione universale (un partage du monde).

Infine, una riflessione sulla lingua. Dalla metà degli anni settanta Bauman smette di scrivere in polacco, ed abbraccia in modo risolutivo la cultura e la lingua del mondo anglosassone; il quale ne ricambia la scelta di campo con una stima profonda e non meno definitiva. Mark Davis, che in un articolo apparso su Times Higher Education dichiara Bauman “the greatest sociologist writing in English today”, non fa che esprimere un giudizio di valore unanimemente condiviso. Ed è innegabile che Bauman abbia saputo trovare un equilibrio maturo ed estremamente fertile nell’intersezione tra un radicamento persistente nella cultura di origine e un’adesione sincera e trasformativa alla cultura di elezione, di cui egli fu molto più che un ospite gradito.

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