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Il viaggio a Reims: Trama e analisi di un capolavoro rossiniano

Ascoltandola sulla musica, diciamo che siamo finalmente entrati in una delle opere più enigmatiche di Rossini, Il viaggio a Reims. Una delle ultime, che il compositore chiama intenzionalmente “Cantata”, negandone sornione ogni possibile drammaturgia.

Il viaggio a Reims dovrebbe essere un omaggio celebrativo, per l’incoronazione di Carlo X, nel 1825. Ma nell’essenza autentica è il gesto di addio: ritratto sublime, affettuoso e malinconico a quella che è stata la mirabolante avventura dell’opera italiana. Rossini la dipinge in tre ore di musica, per numeri chiusi, su lunghe cascate di quinari e settenari, forgiando su ciascuno un fotogramma ideale.

Il viaggio non andrà da nessuna parte: la carovana internazionale di artisti, cantanti, ambasciatori, aristocratici, esemplari di una collettiva follia, resta ferma in uno spazio che per Rossini era la Casa dei bagni, all’insegna del Giglio, a Plombières. E che per Michieletto è la Gallery Golden Lilium, molto newyorchese, molto Moma, molto trendy, con Picassi e Keith Haring, nella scena come sempre stupenda di Paolo Fantin e coi costumi un po’ ottocento, e un po’ novecento, di Carla Teti, per una gallerista esagitata, in caschetto, tailleur e borsetta lucida (Madama Cortese), un esperto battitore d’aste (Don Profondo) e una giovane studentessa romantica, abitino giallo e occhiali da studiosa (Corinna). Loro rappresentano un mondo intermedio, tra noi seduti in teatro e il resto della compagnia. Fatta di nobili, marchese e contesse, baroni e cavalieri.

Finiranno tutti nell’ultima scena come personaggi finti di una vera tela, L’incoronazione di Carlo X di Francia di François Gérard, del 1827. E lì arriva l’affondo, il virtuosismo teatrale assoluto, perfetto al millimetro sulla partitura. Perché tutti, solisti e coro, entrano via via in questo gigantesco tableaux, alto (e come si sente meglio!) e grande come il boccascena. E prendono il posto che avevano nel quadro. Salendo al rallentatore la scalinata, disponendosi a quinta e ai lati, illuminati con taglio di luce sofisticata, da tela a olio, di Alessandro Carletti. Il tutto mentre Corinna, fuori dalla cornice, deliba accompagnata dall’arpa la sua struggente ultima Aria, un corteo lunare, pura astrazione di bellezze e pace. Qui Rossini sembra fisicamente riposare, pacificato col mondo, nella quiete del canto.

Questo emozionato ritratto in controluce di Rossini è l’aspetto che più ci ha commosso di uno spettacolo monumentale, a incastro come un orologio, da catalogare di diritto tra gli indimenticabili, nella galleria storica delle messinscene. Perché nel Viaggio si offrono disarmati tutti gli enigmi dell’autore. Che non a caso, nonostante le distillate pagine sublimi, lo volle subito distruggere, nascondere, mascherare in altre opere.

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Solo grazie alla tenacia, al fiuto e alla competenza di Philip Gossett la Cantata uscì dalla polvere degli archivi, mentre era rimasta ignorata per un secolo e mezzo tra i manoscritti dell’Accademia di Santa Cecilia. Per destino fatale, questa prima esecuzione assolta, a Roma, del Viaggio a Reims è avvenuta a due giorni dalla scomparsa, a Chicago, del suo padre adottivo, che a Roma aveva abitato e insegnato alla Sapienza. A Philip Gossett, grande musicologo, inventore di una dimensione umanistica della ricerca, sempre sul filo doppio della competenza e degli affetti, è stata dedicata la prima recita del “Viaggio”.

Con una regia originalissima, di cui si è molto parlato, il 14 giugno 2017 si è messa in scena per la prima volta all’Opera di Roma Il viaggio a Reims, opera proposta nell’allestimento (proveniente dalla De Nationale Opera di Amsterdam) firmato da Damiano Michieletto, con Stefano Montanari sul podio. Dramma giocoso in un atto su libretto di Luigi Balocchi, Il viaggio a Reims è il primo lavoro parigino di Rossini, scritto nel 1824 ed eseguito l’anno successivo a Parigi in forma di cantata. Ruota intorno all’incoronazione di Carlo X re di Francia, cerimonia che avvenne appunto nella cittadina francese.

Damiano Michieletto, con la sua capacità innovativa, trasporta il gruppo di aristocratici, e i loro incidenti, equivoci e intrecci amorosi tipicamente “rossiniani”, in un museo. “Trattandosi di un'opera priva di una vera e propria drammaturgia - dice Damiano Michieletto - nel realizzarla ho cercato un pensiero che non fosse solo divertente o brillante, ma anche legato al motivo per cui il lavoro è stato scritto. La vicenda è ambientata in un museo alla vigilia dell'inaugurazione di una mostra. Tutti i personaggi sono in preda alla frenesia e all'ansia per l'attesa dell'evento, che corrisponde alla partenza per Reims del libretto dell'opera. Alcuni di loro sono personaggio reali: Madama Cortese per esempio è la direttrice del Museo. Altri sono personaggi storici, appartenenti ai dipinti esposti nel museo. L'arrivo di una grande e misteriosa tela darà una svolta alla vicenda - conclude il regista - sempre all'insegna dell'occasione storica per la quale Il viaggio a Reims fu scritto: l'incoronazione di Carlo X a re di Francia”.

Tra un Picasso, un Goya, un Magritte e gli altri dipinti della Galleria del Giglio, canta un cast d’eccezione. Le scene dello spettacolo sono realizzate da Paolo Fantin, i costumi da Carla Teti e le luci da Alessandro Carletti. La regia televisiva è curata da Carlo Gallucci.

Rappresentato per la prima volta al Théâtre des Italiens di Parigi la sera del 19 giugno 1825, Il viaggio a Reims, ossia L’albergo del Giglio d’oro segnò il culmine dei festeggiamenti organizzati per l’incoronazione di Carlo X, avvenuta a Reims, tradizionale città “du Sacre”, circa due settimane prima. L’esecuzione fu onorata dalla presenza del re e della famiglia reale.

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La sala del Louvois fu sfarzosamente illuminata, mazzi di fiori furono distribuiti ai presenti è un silenzio totale prevalse durante l’esecuzione - come voleva l’etichetta quando interveniva il sovrano -ma il pubblico dei “Dilettanti”, notarono le recensioni entusiastiche, stentò ad osservare questa regola e a non applaudire l’opera tanto attesa. Il Viaggio era il primo lavoro scritto da Rossini per la Francia e in ottemperanza al contratto che aveva firmato con la Maison du Roi.

La storia del Viaggio non finì con le rappresentazioni del 1825. Nel 1848 La cantata, rimaneggiata senza intervento dell’autore, e con il nuovo titolo di Andremo a Parigi?, fu data in onore della Rivoluzione invece che del re, con tutti gli adattamenti del caso. Un secondo “pasticcio”, almeno più consono alla destinazione, e col titolo Il viaggio a Vienna, fu dato nel 1854 nella capitale austriaca in occasione del matrimonio di Francesco Giuseppe con Elisabetta.

Questi due “pasticci” e il fatto che Rossini aveva riutilizzato una parte dell’Opera per il successivo Comte Ory aumentarono la dispersione delle fonti musicali e poiché di poche cose discettarono gli storici della musica, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro, più volentieri che di quelle che non conoscevano e non si potevano conoscere, nacque la leggenda che Rossini avesse distrutto la musica del Viaggio essendone insoddisfatto e dopo “averne tolti pezzi migliori”.

La vicenda dell’autografo del Viaggio non è dissimile da quella di altri rimasti in possesso dell’autore. Rossini lo conservò gelosamente in casa fino alla morte, ovviamente privo delle parti riutilizzate nell’Ory. Esso sarebbe dunque dovuto passare alla città di Pesaro, secondo le disposizioni testamentarie che tutta via consentivano alla vedova piena disponibilità.

Fu cosi’ che l’autografo del Viaggio fu donato Vio Bonato, il medico che aveva assistito il compositore negli ultimi anni e aveva prestato la sua opera anche alla vedova. Come sia poi giunto a Roma, nella biblioteca di Santa Cecilia, dove è rimasto nei fondi non catalogati per decenni, non è noto. La partitura ancora oggi è chiusa nei cartoni originali, sul primo dei quali Rossini pose la scritta “alcuni brani della Cantata il viaggio a Reims / Mio Autografo G.Rossini”.

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Vincolato ad un evento come l’incoronazione di Carlo X, destinato a rimanere sul trono pochi anni, il Vaggio dovette sembrare a Rossini troppo legato ad una singolare circostanza. Da ciò derivò il suo desiderio di riutilizzare la musica e il conseguente divieto di rappresentare ancora la cantata. Ma la decisione derivò anche della sua nuova posizione a Parigi, della sua cautela nel proporre opere nuove e da un rapporto sempre più difficile con la creazione artistica che sarebbe sfociato di lì a poco nel ritiro definitivo.

Sappiamo oggi - alla luce di recensioni recentissimi studi - di opere iniziate ed abbandonate, di progetti e di impegni intrapresi e non portati a termine nel breve giro di mesi. Ma la riutilizzazione di parte del Viaggio nel Comte Ory non significa affatto una valutazione estetica sui singoli numeri. L’autoparodia, Il Rossini come un Bach e in tanti altri compositori precedenti, risponde ad un criterio eminentemente pratico di maggiore o minore attendibilità. Sono riutilizzati nel Comte Ory quei pezzi che possono avere analoga funzione in un contesto drammaturgico simile.

Tutta l’opera ricostruita ci consente di conoscere un prodotto assolutamente autonomo nel catalogo rossiniano e un rarissimo tentativo di elevare una “pièce de circonstance” teatrale, musicale, letteraria dell’epoca della Restaurazione, ad un significato cosmopolita ed universale. E se Carlo X doveva soccombere di lì a qualche anno al mutamento dei tempi e dei regimi, non sarà un caso che l’opera lui dedicata, e che sembrava sua volta travolta nell’oblio, riappaia alla luce.

Dopo che Don Prudenzio, il medico dell’albergo, ha esaminato con cura le colazioni preparate per gli ospiti, per verificarne la conformità alle proprie indicazioni, e Madama Cortese ancora una volta ha raccomandato alla servitù di adoperarsi per il buon nome della locanda, interviene la Contessa di Folleville, graziosa parigina che «delira per le mode», amante del Cavalier Belfiore, aitante ufficiale francese. La Contessa è preoccupata perché non sono ancora giunti i suoi abiti da indossare per la grande festa.

In seguito Luigino, cugino della Contessa di Folleville che doveva provvedere al loro ritiro, annuncia che la diligenza con gli effetti personali della nobile signora si è rovesciata, danneggiando il suo prezioso carico di scatole e cassette. A tale notizia la Contessa sviene, richiamando su di sé l’attenzione degli altri ospiti dell’albergo che cercano di rianimarla.

Nel frattempo il Barone di Trombonok, ufficiale tedesco fanatico per la musica ed eletto cassiere del viaggio dagli ospiti dell’albergo, prende gli ultimi accordi con il «mastro di casa» Antonio, affinché provveda ai bagagli e alle eventuali necessità dei viaggiatori. Entrano in scena Don Profondo, letterato membro di varie accademie, collezionista maniaco di antichità e Don Alvaro, Grande di Spagna, che presenta al Barone di Trombonok la Marchesa Melibea, bella vedova polacca di un generale italiano, di cui è innamorato, desiderosa di intraprendere il viaggio a Reims insieme con gli illustri membri della compagnia.

Lord Sidney sopraggiunge lamentandosi per le sue pene d’amore e Corinna, ricevuta per mano di Don Profondo una lettera, ne legge il contenuto; rassicura Delia, orfana greca a lei cara, sulle sorti del suo Paese, e la invita ad aggiungersi alla compagnia pronta per andare a Reims. Il Cavalier Belfiore, trovata sola la poetessa, tenta di conquistarla, forte delle sue provate capacità di seduttore.

Risolleva lo spirito della compagnia Madama Cortese, che porge ai suoi ospiti una lettera giuntale da Parigi da parte del suo consorte, nella quale si dà notizia dei grandi festeggiamenti che si stanno preparando nella capitale in onore del re, e che lo accoglieranno al suo ritorno: una occasione piacevolissima per consolarsi del mancato viaggio a Reims. La Contessa di Folleville offre ospitalità a tutta la compagnia nella sua casa parigina; la proposta viene accettata con entusiasmo, e si decide di partire il giorno successivo con la diligenza giornaliera per la capitale.

Con parte del denaro messo insieme per il viaggio a Reims si organizzerà la sera stessa un convito aperto a tutti per festeggiare ugualmente l’incoronazione del re, e il resto si offrirà in beneficenza. I due innamorati si riconciliano e la scena si apre successivamente sul giardino illuminato dell’albergo, nel quale è stata imbandita una ricca tavola.

Il Barone annuncia, come la regola impone ed è già stato concordato, una serie di brindisi negli stili musicali dei vari Paesi d’origine dei convitati, in onore del re e della famiglia reale. Viene infine richiesto da tutti i presenti, come degna conclusione della festa, un intervento poetico di Corinna.

Una riflessione sullo spettacolo visto ad Amsterdam, dove è nato, ne 2015, poi attraverso la trasmissione televisiva delle recite romane e alla fine al Teatro Costanzi, per l'ultima di queste. Nel febbraio 2015 un melomane italiano raccomandava ai lettori di un forum di precipitarsi, se appena era possibile, ad Amsterdam per non perdere Il viaggio a Reims messo in scena da Damiano Michieletto: li avvertiva che se ne prevedeva infatti una sola ripresa, nella lontanissima Sydney. E invece questa inventiva, gustosissima produzione rossiniana adesso è approdata anche a Roma.

Chi scrive ha assistito a due recite olandesi, poi, la settimana scorsa, alla diretta televisiva di una recita romana e infine all’ultimo Viaggio al Teatro Costanzi, con Bruno de Simone rimasto come faro interpretativo ed evidente perno organizzativo (un interprete quintessenziato, insinuante) in mezzo a cantanti giovani e promettenti.

Già, Corinna. Non è un caso che uno dei più celebri ritratti di Giuditta Pasta (citato da Eugenio Gara per descrivere la Callas) sia proprio di Gérard - artista specializzato nel ritrarre le punte di “eccellenza” del primo venticinquennio dell’800. Rintraccio la recensione originale 1825 - non firmata - dell’austero Berliner Allgemeine Musikalische Zeitung; racconta di un piacevolissimo centone di motivi già noti, dalla Cenerentola all’Otello, spesso organizzati - più che altro per far lavorare le gazzette specializzate in anticipazioni sensazionali e per galvanizzare il pubblico - in pezzi d’insieme con un gran numero di esecutori.

Madame Pasta, con la sua capacità di improvvisazione musicale e di immedesimazione nel personaggio, risulta in quella cronaca la vera, la unica protagonista. È lei, a pari merito con Rossini, a fornire la teatralizzazione di questa opera-concerto. Ai nostri tempi occorre invece la manovra diversiva della regìa, i virtuosistici miracoli di metamorfosi di Michieletto - e non dimentico le luci di Alessandro Carletti - per intrattenere il pubblico quando Corinna canta in duetto o da sola.

Commovente che poco prima della produzione romana Philip Gossett ci lasci: lui che de Il viaggio a Reims è stato il padre e il ricostruttore. L’instancabile Marilyn Horne, prossima a trasferirsi in California, mi scrive a caldo il suo dispiacere. Lei che quando era in carriera adottava a volte la buffa italianizzazione “Filippo Gossetto”, adesso modifica confidenzialmente il cognome del vecchio compagno di fatiche rossiniane in gussett - toppa per rinforzare un maglione :“Phil Gusset è stato un caro amico e collaboratore… che impulso ha dato alla resurrezione delle opere belcantistiche!

Bruno de Simone ha conosciuto il musicologo di Chicago al R.O.F. di Pesaro in occasione della Matilde di Shabran. Con lui, napoletano, grande buffo, fine dicitore, esegeta di libretti antichi, il discorso delle revisioni rossiniane si amplia; osserva che la filologia operistica deve ancora affrontare i libretti, il testo, in maniera onnicomprensiva. Un onore, in realtà, e anche un divertimento.

Anche ricordo la sua straordinaria onnipresenza alla Semiramide del Metropolitan nel 1990; non mi sarei stupita di vederlo parcheggiare la macchina della Anderson o vendere i programmi di sala. Ma prima ancora, Gossett è colui che nel 1976-’77 convinse la Horne a cantare Tancredi.

Il viaggio a Reims, ovvero il viaggio mai fatto: Avevo visto in passato delle esecuzioni in video dell’opera, e ne ero rimasto affascinato. Ma, ripeto ancora una volta, e credo giusto farlo, non c’è ripresa video, film o DVD che possano simulare, neppure da lontano quello che si prova a teatro, ad avere davanti agli occhi il palcoscenico e cantanti-attori che vi si muovono, che sono davanti a te in carne e ossa. Se dalle riprese televisive mi sentivo affascinato, giovedì sera, davanti al palcoscenico scaligero le mie sensazioni erano di pura gioia.

È ben noto che Rossini ha composto l’opera come cantata per celebrare l’incoronazione di Carlo X a Reims nel 1825. Dopo di che la partitura ha avuto una vita difficile; circa una metà Rossini l’ha utilizzata per un’altra opera, Le Comte Ory, il resto si è variamente disperso. Essendo un’opera di circostanza, non ha una trama vera e propria.

Un gruppo di persone di alto lignaggio e di diversa nazionalità si sono riunite nell’albergo del Giglio d’Oro e si stanno preparando a partire per Reims. Intendono partecipare ai festeggiamenti per l’incoronazione di Carlo X. Nell’attesa che vengano approntati i mezzi di trasporto, i diversi personaggi sono coinvolti in piccole beghe che sono un po’ l’asse portante dell’opera: Madama Cortese, la proprietaria del Giglio d’Oro si dà da fare per il buon nome dell’albergo e stimola il personale ad essere efficiente; la contessa di Folleville, francese, patita per la moda, è disperata perché i suoi preziosi abiti non arriveranno, ma si consola davanti al ritrovamento del cappellino; scoppia una lite fra il conte di Libenskof (russo) e don Alvaro (spagnolo) per l’amore della bella marchesa Melibea (polacca); Corinna, poetessa, canta una dolcissima canzone che distende gli animi; Lord Sidney, inglese, si dispera perché è timido e non riesce a dichiarare il proprio amore a Corinna, che a sua volta viene importunata da un bellimbusto, il Cavalier Belfiore, francese, tombeur de femmes, e così via.

Altri personaggi di varia natura si intrecciano, come il barone Trombonok (tedesco), che funge un po’ da organizzatore, don Prudenzio, medico approssimativo e ignorante che fa brutte figure, don Profondo, collezionista di oggetti rari, che controlla che nulla manchi alla partenza, eccetera. Alla fine, disastro dei disastri, si viene a sapere che il viaggio a Reims è impossibile. Non ci sono cavalli disponibili. La comitiva dovrà rinunciare.

Ma a riportare la gioia nei cuori arriva una lettera che annuncia che le vere feste si faranno a Parigi, dove re Carlo X si recherà subito dopo l’incoronazione. E allora tutto si illumina, e prima di partire per Parigi si farà qui al Giglio d’Oro una grande festa che vedrà ogni dissapore sorto nella giornata, riconciliato.

I numeri musicali sono 9: dopo l’introduzione orchestrale, che descrive il sorgere del giorno e annuncia il bellissimo e allegro tema del viaggio, vi sono arie per i soprani, di grande virtuosismo e coloratura, con trilli, glissandi, acuti, etc., pur con differenze molto palesi: la gioia dell’aria di madame Cortese fa contrasto con la disperazione dell’aria della Contessa Folleville che ha perso i suoi vestiti alla moda; le arie di Corinna, sono invece improntate alla dolcezza e alla poesia, e accompagnate dal dolce suono dell’arpa; aria disperata per un amore che non si conclude ci viene da Lord Sidney in uno splendido duetto col flauto, mentre un aria tipicamente da buffo è offerta da don Profondo, che esamina i bagagli prima della partenza.

Molto belli sono i duetti, il cavalier Belfiore che tenta, senza successo di sedurre Corinna, e il conte Libenskof che si deve far perdonare dalla marchesa Melibea. E infine i due grandi pezzi d’assieme: il sestetto e quello a 14 in cui l’invenzione rossiniana si sbizzarrisce nei modi più fantasiosi, con motivi che comunicano a volte disappunto (si pensi all’introduzione del brano d’assieme a 14, a cappella), a volte minaccia, a volte entusiasmo, a volte pace, a volte con pause improvvise e successivi ricuperi, e che si avviano a concludere con crescendi di grande forza propulsiva. Insomma una musica che per tutta la durata, non dà tregua, rapisce lo spettatore.

La messa in scena è quella famosa di Luca Ronconi, quella di Pesaro del 1984 e scaligera del 1985. Ronconi è qui nella sua forma migliore: fantasia e ironia sono le sue armi preferite. La scenografia, di Gae Aulenti, è semplice: sullo sfondo facciate di edifici ottocenteschi, spesso coperti da schermi bianchi (tre per l’esattezza, uno centrale sul fondo e due obliqui laterali) sui quali vengono fatte proiezioni: a volte si vede il corteo reale che procede verso la cerimonia di incoronazione, a volte si vedono i personaggi, come ad esempio la silhouette di Corinna quando, fuori scena, canta la sua prima aria, o anche altre proiezioni.

Il piano del palcoscenico è diviso in due: uno più alto e una più basso, uniti da una scalinata; il piano inferiore si continua verso il pubblico con una passerella che di volta in volta funge da ingresso, luogo di fuga o di incontro dei personaggi. Alcuni dei personaggi giungono sul palcoscenico provenienti dalla sala, dando in questo modo la sensazione di una fusione molto divertente fra spazio della scena e spazio del pubblico.

I costumi, di Giovanna Buzzi sono molto fantasiosi, arricchendo in questo modo le gestualità, i movimenti che si susseguono sulla scena, la teatralità dei personaggi. I colori si riferiscono spesso alla nazionalità dei protagonisti, spesso gli stessi sono avvolti dalle bandire del paese di appartenenza. Nel finale dell’opera mentre il coro intona il «Viva la Francia e il Prode Regnatore», dall’ingresso della sala entra il corteo Reale che sullo schermo avevamo visto percorrere la Galleria Vittorio Emanuele e avvicinarsi alla facciata del teatro. L’opera finisce col re incoronato seduto in trono al centro del teatro.

L’esecuzione musicale è stata all’altezza. I personaggi dell’opera sono molti: vale la pena di ricordare i principali. I tre soprani: Carmela Remigio (Madama Cortese), Annik Massis (Contessa Folleville) e soprattutto Patrizia Ciofi (Corinna) hanno sciorinato tutto il repertorio del virtuosismo canoro femminile in arie di coloratura di grande impatto emotivo. Alla stessa altezza il mezzosoprano Daniela Barcellona (Marchesa Melibea), con la sua bellissima voce rossiniana e le sua grande bravura tecnica.

Musica e azione teatrale si sono sviluppate in un matrimonio strettissimo che ha avvolto gli spettatori, stregandoli letteralmente. La cosa che mi ha colpito, è stata che gli applausi alla fine dei vari numeri sono stati pochissimi, quasi che il pubblico non volesse disturbare lo svolgersi dell’azione.

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