Antropologi famosi stranieri e il loro impatto sull'antropologia italiana
Per molto tempo è invalsa l’idea che l’Italia non fosse un “campo” attraente per gli antropologi stranieri; che, in fin dei conti, le piccole realtà rurali, i territori alpini o il Mezzogiorno fossero “terreni di caccia” per gli antropologi italiani, senza l’attrazione, il fascino e l’esotismo delle isole Trobriand, del Sudan o della Siberia. Non sempre, però, questo apporto è stato pienamente riconosciuto, e ci sono capitoli che aspettano ancora di essere narrati.
Amerikaner in den Alpen: è questa la concisa definizione coniata da Norbert Ortmayr per quegli studiosi anglosassoni che - tra gli anni Settanta e Novanta - lavorarono nell’arco alpino italiano e in quello svizzero: antropologi famosi come John Cole, Eric Wolf e Robert Netting, o meno conosciuti come Frederik Bailey, Sandra Wallman e Patrick Heady (Ortmayr 1992; Krauß 2018: 3-4).
In questo senso, il nuovo volume di Francesco Faeta Vi sono molte strade per l’Italia. Ricercatori e fotografi americani nel Mezzogiorno degli anni Cinquanta (2022), ritorna sui passi degli antropologi statunitensi che precedettero di vent’anni quei loro connazionali dediti alle Alpi. Profondo conoscitore dell’opera demartiniana, Faeta si è occupato a lungo delle retrospettive storiche dell’antropologia italiana, specie per quanto riguarda il Mezzogiorno.
Oltre alla collaborazione con la RAI e con importanti riviste scientifiche in qualità di fotografo e documentarista etnografico, l’interesse di Faeta per i media visuali trova espressione nell’insegnamento di Antropologia visiva presso l’Università di Messina e la direzione della Scuola di etnografia visiva all’interno dell’Istituto superiore di fotografia e comunicazione integrata di Roma. L’anno scorso avevamo recensito il suo contributo nel volume curato da Vincenzo Matera, in cui la sua sensibilità per la fotografia e la complessità degli sguardi rimanevano dei tratti distintivi (Martellozzo 2021). Scriveva allora: «Non è importante cosa si guarda, ma come si guarda e lo sforzo critico e autocritico di ciascun etnografo deve essere improntato a una sistematica analisi del proprio, oltre che dell’altrui, way of seeing» (Faeta 2020: 225).
Edito da Rubettino, il volume si compone di tre capitoli preceduti da un’introduzione dello stesso Faeta e due postfazioni scritte rispettivamente da Michael Herzfeld e Marta Petrusewicz. Saremmo tentati di suggerire al lettore di far precedere alla lettura dei capitoli principali proprio queste due “lettere”, le quali forniscono delle importanti chiavi di accesso al testo e all’analisi condotta dall’antropologo romano. Ma andiamo con ordine, partendo proprio da alcuni temi storici tanto cari a Petrusewicz.
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Il contesto storico e le prime ricerche
Prima degli antropologi statunitensi fu la giovane aristocrazia inglese a percorrere, sull’impulso del Grand Tour, le “molte strade per l’Italia”. La maggior parte di questi viaggiatori terminavano il loro itinerario a Napoli: pochi si spinsero nell’entroterra campano, o in Lucania, Puglia e Calabria, territori difficili da attraversare e distanti dai sentieri convenzionali del Tour. Le stesse istituzioni centrali che governavano quelle terre, specie con l’avvento del Regno d’Italia, riscontrarono notevoli difficoltà nell’esercitare il proprio dominio, o finanche manifestare la propria presenza nelle “Indie di quaggiù”.
Nel secondo dopoguerra, e con la nascita della nuova Repubblica, presero dunque avvio numerose iniziative tese a indagare le comunità del Mezzogiorno. Nei manuali di antropologia, quando si accenna alle ricerche statunitensi nel Mezzogiorno vengono citati immancabilmente due nomi: Friedrich Friedmann e Edward Banfield. Friedmann condusse un’inchiesta sui Sassi di Matera nel primo lustro degli anni Cinquanta, un lavoro d’equipe coordinato dal sociologo naturalizzato statunitense (Friedmann 1952); il secondo fu il responsabile di una altrettanto famosa ricerca a Chiaromonte, promossa nel 1954 dall’Università di Chicago e dal Social Science Research Council (Banfield 1958).
Friedmann e Banfield sono indubbiamente i più importanti esponenti di quella applied anthropology che, come la descrive Massimo Squillacciotti, costituiva «il riferimento culturale per un successivo programma di intervento politico, nel clima della ‘ideologia della ricostruzione’ post-bellica» (Squillacciotti 1976: 302). Rispetto alle ricerche nel Mezzogiorno, de Martino annotava nei suoi appunti preparatori alla spedizione in Lucania: «II limite della applied anthropology americana e delle sue applicazioni meridionali (spedizione Friedmann) sta nella assoluta mancanza di problema storiografico» (Gallini 1986: 120). La stoccata, nemmeno troppo velata, a Tullio Tentori esprime bene quanto dicevamo sopra rispetto ai diversi posizionamenti possibili negli anni Cinquanta, prima che i meriti - e diciamolo pure, l’autorità - dell’etnologo napoletano opacizzasse questa parte di storia degli studi.
Sotto questo aspetto, il volume di Faeta recupera e giustifica l’importanza di altri way of seeing, eterodossi rispetto alla tradizione storicistica nazionale tanto cara a de Martino, come già sottolineato da Silvia Lipari in una recente recensione (Lipari 2020).
George Peck e l'indagine a Tricarico
Cominciamo proprio da George Peck, che nel corso della sua breve ricerca a Tricarico ebbe modo di incontrare molte delle figure che abbiamo evocato poc’anzi. Il suo arrivo nel paese lucano è assolutamente canonico: una borsa di ricerca del Fulbright Program, la mediazione di Rossi-Doria con l’Ateneo statunitense, l’interesse dell’Università di Napoli per una ricerca sugli effetti della riforma agraria del Mezzogiorno. Decisamente più particolare sarà la fine della sua permanenza, effetto di un clima politico alquanto teso e che segnerà profondamente l’esperienza di Peck.
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Faeta ci restituisce l’immagine di un giovane dalle idee libertarie, federaliste e anti-fasciste, insofferente verso certi atteggiamenti conservatori della sua patria: tutt’altro che un agente in incognito della CIA, come talvolta sono stati ritenuti questi antropologi statunitensi. Anzi, sarà lui stesso a criticare de Martino per la sua indebita assimilazione di Malinowski - e di altri ricercatori stranieri - a intellettuale al servizio della classe borghese e del capitalismo americano.
Gli intralci da parte dell’amministrazione statunitense, difficoltà personali e la brevità del campo resero difficile la compilazione di una vera e propria monografia su Tricarico; nonostante il materiale raccolto e la stesura di diversi capitoli, Peck dovette abbandonare il progetto, di modo che non possediamo altro che alcune note e relazioni sullo stato della ricerca. Anche così, tuttavia, Faeta nota la grande sensibilità del giovane ricercatore verso aspetti specifici del Mezzogiorno e della realtà di Tricarico, specie per quanto riguarda la struttura sociale della piccola comunità lucana, e i fenomeni di emigrazione e industrializzazione che accompagnano la riforma agraria dell’epoca.
«Il tentativo che traspare, sin da qui, è quello di conciliare il mero piano dell’economia agraria con quello più vasto dello sfondo storico e dell’inchiesta sociale e politica. L’inchiesta sociologica di Peck accoglie i riflessi delle più ampie dinamiche politiche nazionali - come la ricezione del comunismo tra i contadini del Mezzogiorno - nella realtà di Tricarico.
David Seymour e la fotografia come strumento etnografico
Anche il secondo dei nostri ricercatori, David Seymour, agisce nel segno di questa continua mediazione che, nel suo caso, assume una dimensione ancora più intima. Nemmeno Seymour, diciamolo subito, ha prodotto una etnografia nel senso classico del termine; in questo caso, però, non era nemmeno richiesta dal suo incarico, che fin dall’inizio prevedeva invece un approccio visuale attraverso la fotografia.
Tuttavia, prima di entrare nel merito della sua ricerca, Faeta compie una breve deviazione per parlare di Carlo Levi, promotore del viaggio di Seymour e tra i pochi a valorizzarne i risultati in Italia. Quello che Faeta compie - molto opportunamente - in questo capitolo è sviluppare l’immagine del ricercatore statunitense usando Levi come “negativo fotografico”; non solo perché la storia dei due è costantemente intrecciata, ma anche per il ruolo fondamentale dello scrittore italiano nel creare una nuova sensibilità verso il Mezzogiorno.
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Levi, non c’è bisogno di dirlo, come tutte le personalità di chiaro spessore è stato osannato, osteggiato e solo col tempo compreso nella sua giusta dimensione; Faeta ne ripercorre l’evoluzione intellettuale, mettendone a fuoco la “diversità” interna e la capacità, proprio negli anni Cinquanta, di mitigare la sua visione meta-storica e di dolorosa immobilità del Mezzogiorno.
Per Faeta, Seymour è rimasto influenzato dal suo contatto con Levi, e ne vediamo un esempio nella sua considerazione dell’analfabetismo non come mero gap culturale da colmare, sintomo di arretratezza e sorta di versione culturale delle malattie fisiche da debellare, bensì come questione più profonda, che comprende ad esempio la perdita di un’autonomia linguistica dialettale; e sarebbe facile, a questo punto, evocare nuovamente Scotellaro, o Pasolini.
Fatto sta che Seymour è particolarmente sensibile a questi fenomeni di acculturazione: nato David Szymin da una famiglia ebraica, uccisa nei lager nazisti, Seymour «diviene americano attraverso la strada di Parigi e per mezzo della fotografia». Sul piano metodologico, il suo lavoro tradisce quella che Faeta riconosce come una fiducia nell’evidenza discorsiva della fotografia: essa talvolta basta da sé, senza bisogno di didascalie o appendici esplicative che, tuttavia, ha accluso nel progetto sull’analfabetismo.
Come osserva Herzfeld nella sua lettera, l’immagine lascia “impliciti” molte informazioni e messaggi, che spesso non possono essere tradotti in un testo pena il tradimento di quell’indicibile. Seymour ne era ben cosciente, e pertanto ha lasciato ai testi una funzione ancillare, lasciando alle fotografie il compito di narrare l’indicibile (anzi, l’inscrivibile) dell’analfabetismo nel Mezzogiorno. Una selezione di quell’album è stata riprodotta nel libro, ma rimandiamo il lettore direttamente al commento di Faeta, che ogni sintesi da parte nostra finirebbe per essere inadeguata.
Frank Cancian e l'esperienza a Lacedonia
A rigore, l’unico ad essere antropologo di professione è Frank Cancian, che nel 1957 si recò a Lacedonia, piccola comunità dell’Irpinia, per svolgere un’inchiesta sulla dimensione locale avvalendosi principalmente della fotografia. Per Cancian sarebbe più corretto parlare di un ritorno, giacché entrambi i rami della sua famiglia provenivano dall’Italia, e precisamente da alcuni paesi veneti poco distanti da dove gli Amerikaner di Ortmayr svolsero le loro ricerche. Questa storia famigliare fu determinante nella scelta della carriera di antropologo e dei primi interessi del giovane statunitense.
Prima di giungere in Italia, grazie alla mediazione di Tentori, Cancian compì una breve survey negli Stati Uniti, affinando la sua metodologia e l’uso della fotografia su alcune comunità di nativi americani. In un certo senso la ricerca a Lacedonia rappresentò una breve parentesi nel lavoro dell’antropologo, che tornato in patria si dedicò al contesto latino-americano; una parentesi che tuttavia non venne mai dimenticata, e che anzi trova un bel momento di ritorno (l’ennesimo) con il dono dell’archivio fotografico alla comunità di Lacedonia.
Un gesto di restituzione che, a sessant’anni di distanza, corona l’esperienza di Cancian in Italia. Tutto ciò emerge con forza in questo ultimo capitolo che Faeta ha scritto insieme allo stesso antropologo statunitense, morto purtroppo prima che il volume venisse dato alle stampe. Lo possiamo leggere perciò non solo come un inestimabile documento di memoria, ma come un tentativo di rimediare alla mancanza di una monografia su Lacedonia.
Come Seymour, seppure in modo meno programmatico, anche Cancian ha affidato la sua esperienza etnografica alla fotografia; altri strumenti, compresi quelli più quantitativi e “tipici” della applied anthropology, non diedero i risultati sperati: un esempio fu il questionario messo a punto da Klukhohn e fortemente promosso dallo stesso Tentori, che incaricò Cancian di testarlo sulla comunità irpinese.
Una scelta di metodo che accomuna il ricercatore statunitense a Peck e Friedmann, e che permette a Faeta di mostrare l’infondatezza di certe rappresentazioni stereotipate di questi antropologi d’oltreoceano. In particolare, Cancian dimostra notevole spirito critico nei confronti delle posizioni di Banfield, il cui uso del concetto di ethos finisce per produrre una visione semplificante ed eccessivamente astratta della realtà sociale.
A questa lettura Cancian oppone il tentativo di cogliere, attraverso la fotografia, le dinamiche e i processi di una comunità che sta cambiando, senza alcuna pretesa di immortalare oggettivamente la comunità. «L’Albano di De Martino è abitata da contadini e braccianti poverissimi, la Lacedonia di Cancian presenta una stratificazione di classe ben più complessa, cui egli dedica molta attenzione: vi sono i braccianti, i contadini, i possidenti, la piccola borghesia rurale, gli intellettuali disoccupati, i benestanti e gli amministratori (benestanti in quanto amministratori e amministratori in quanto benestanti).
Sono le ragioni di queste scelte che rendono conto della diversità degli sguardi di tutti questi ricercatori: da Friedmann a Peck, da Seymour a de Martino, ciascuno di essi ha guardato le realtà del Mezzogiorno cogliendone frammenti separati; alcuni di questi pezzi sono andati dimenticati, ma non per questo vanno considerati come episodi di minor valore. Prendendo a prestito le parole di Lipari, questo volume «porta una convincente testimonianza su forme di rappresentazione diverse, che non ebbero la possibilità di divenire egemoniche, della vicenda sociale del nostro Sud, mostrando una concreta modalità di descriverlo attraverso le immagini» (Lipari 2020).
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