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"Ho visto cose che voi umani...": significato e impatto di un monologo iconico

Chi di noi non ha mai sentito dire: "Ho visto cose che voi umani..."? La frase è così celebre che è diventata di uso comune, moltissimi la citano e la usano addirittura senza mai aver visto Blade Runner, il film da cui è tratta.

Nella storica pellicola di Ridley Scott quella frase viene pronunciata verso la fine, in un monologo diventato parte integrante della storia del cinema. Certo, il protagonista fu interpretato da Harrison Ford, eppure la parte più iconica e memorabile di tutto il film è probabilmente proprio quel monologo pronunciato da Rutger Hauer, da poco scomparso.

Un errore nella memoria collettiva

Ma per quanto quella frase, quella parte di monologo, sia diventata celebre come lo è oggi, alcune cose sono ancora poco note. Un esempio? La frase è sbagliata. Sì, perché per quanto possa sembrare assurdo, Hauer non dice "Ho visto cose che voi umani non potete immaginare" ma "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi". Un classico caso di ricordo collettivo che, man mano che passa di bocca in bocca, di citazione in citazione, si è modificato allontanandosi dalla realtà.

La genesi del monologo

Un'altra curiosità interessante è che in parte quel monologo non fu soltanto interpretato ma anche scritto dall'attore olandese morto. Compresa la parte più bella e conosciuta del monologo:

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.»

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A rileggerlo oggi colpisce molto il tono, quella saggia rassegnazione e quella fierezza che si abbinano fin troppo bene al tragico evento della scomparsa dell'attore. Ma il fatto più interessante in assoluto è quel citare Tannhäuser, un riferimento esplicito al poeta tedesco vissuto nel duecento - e anche forse all'opera di Wagner - che fu voluto proprio da Hauer.

L'umanizzazione di Roy Batty

La poeticità di quel monologo, oltre che dall'interpretazione magistrale che ne fece Hauer, viene dall'effetto profondo e intimista delle parole dette prima di morire. Sono le cose che si dicono prima di spegnersi a suscitare nell'ascoltatore, nella vita reale come nei film, un senso di empatia e di emozione. Il riferimento alle lacrime nella pioggia poi è una metafora ideale per riportare lo spettatore all'immagine del film, e alla sua plasticità.

Rimarrà, c'è da starne certi, un monologo che sentiremo citare a lungo. Nel tentativo di saltare da un tetto all’altro, Deckard cade aggrappandosi fortunosamente a una barra di metallo sporgente, rischiando però di non mantenere a lungo la presa. A questo punto i due si guardano negli occhi e Roy ribadisce al nemico come ci si sente a vivere come schiavo. L’agente si rifugia in un angolo, sofferente e intimorito, mentre Roy si siede davanti a lui tenendo in una mano una colomba bianca.

“Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi… navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser… e tutti quei momenti andranno perduti… nel tempo… come lacrime nella pioggia.

Roy pronuncia queste parole con un’inflessione quasi teatrale, riflessiva, dando importanza a ogni secondo, a ogni esitazione che intercorre nel suo monologo. La pioggia scroscia latente sul suo corpo seminudo, svestito come la sua anima di androide che si rivela a un essere umano: Deckard, infatti, lo osserva meravigliato, ascoltando attentamente ogni parola.

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Roy appare magonato, timoroso della morte esattamente come un uomo, quello stesso uomo che lo ha schiavizzato e con cui ora egli si è riconciliato salvando una vita meritevole di essere vissuta. La sua avventura si conclude, Roy si accascia come se si fosse spento, lasciando spiccare il volo alla colomba bianca, simbolo della riconciliazione fra l’androide e l’essere umano.

Di origine cinematografica, a differenza di molte altre espressioni divenute famose grazie alla letteratura, la frase “ho visto cose che voi umani” si presenta leggermente diversa nel monologo del personaggio del film doppiato in italiano. La famosa frase, ormai divenuto un vero e proprio modo di dire, trae origine da Blade Runner, il film fantascientifico cult degli anni Ottanta diretto nel 1982 da Ridley Scott, interpretato, tra gli altri, da Rutger Hauer e Harrison Ford e liberamente ispirato al romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche? di Philip K. Dick.

Nel kolossal a pronunciare il monologo con la celebre frase pochi istanti prima di morire è l’androide Roy Batty, interpretato proprio da Rutger Hauer. Come anticipato, nel doppiaggio italiano la frase viene pronunciata in una forma leggermente diversa rispetto a quella attualmente in uso nel modo di dire.

La frase, al pari di altri modi di dire nati da film o libri particolarmente famosi, viene utilizzata prettamente in conversazioni informali e scherzose col significato di “ho visto cose difficili da credere” oppure “ho assistito ad una situazione inverosimile”.

Un monologo improvvisato e riscritto

Quando si pensa al meraviglioso film di Ridley Scott Blade Runner non si può non pensare al celebre monologo finale. Uno dei più bei discorsi della storia del cinema, la battuta pronunciata da Rutger Hauer è diventata un fenomeno. Quello di Blade Runner è uno tra i monologhi più famosi e influenti nella storia del cinema.

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Forse sarà una sorpresa, ma nella maggior parte dei casi la celebre citazione dal film del 1982 di Ridley Scott viene espressa nel modo sbagliato. Già, perché se chiunque riconosce la frase “Ho visto cose voi umani”, in pochi sapranno che in realtà le parole pronunciate dal replicante Roy Batty (Rutger Hauer, doppiato da Sandro Iovino) sono leggermente differenti. Chi ha visto Blade Runner saprà quanto sia topico il momento in cui vengono recitate queste parole. Nelle ultime scene che compongono il film Roy Batty, il replicante interpretato da Hauer, salva il cacciatore di androidi Rick Deckard. E prima di morire (visto il termine prestabilito della vita di ciascun replicante) pronuncia queste potenti frasi sotto la pioggia battente. Il destino ha voluto che questa fosse proprio l’ultima scena ad essere girata durante la produzione.

Come molte delle cose più stupefacenti realizzate nel cinema, questo celebre monologo fu un’improvvisazione di Rutger Hauer. Nel documentario Dangerous Days: On the Edge of Blade Runner il regista, così come l’intera troupe, sono stati intervistati dalla BBC in merito alle riprese del film. Oltre ad alcuni interessanti aneddoti, hanno svelato dettagli importanti anche per quanto riguarda questo monologo. Ridley Scott e il produttore hanno confermato che nel copione originale il monologo era molto più lungo. Come detto fu proprio Hauer a riscrivere la battuta e a voler condensare il tutto in meno frasi.

Secondo l’autobiografia dell’attore, egli decise di tagliare parte del monologo e di aggiungere semplicemente “E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia”. Questa frase, così come l’intero monologo, sono una sorta di riflessione del personaggio sui suoi simili, i replicanti. Ricordando le sue avventure e il suo passato, Roy Batty vuole far comprendere quanto lui e la sua specie siano ormai più che mai simili agli esseri umani.

L'eredità di Blade Runner

Una storia di un fascino inenarrabile quella di Blade Runner e di uno dei monologhi più celebri della storia del cinema. Se non credete che questa scena abbia influenzato così tanto l’immaginario comune fate una prova e chiedete a qualcuno di continuare la frase dopo le prime parole.

Blade Runner ha ridefinito i canoni della fantascienza. Uno dei più grandi capolavori di Ridley Scott, e uno dei massimi picchi del genere, Blade Runner è uno di quei film che hanno solcato nel profondo l’immaginario collettivo. La ricchezza visiva della pellicola è invecchiata bene, considerando che il film è del 1982: ancora oggi siamo meravigliati dalla regia e dalla sua fotografia.

Quello che però è il merito più grande di Blade Runner è di aver ridefinito la sfera emotiva e cognitiva degli androidi, impostando un nuovo perno di riflessione nel filone fantascientifico. Non più semplici robot, ma umanoidi, ovvero simili all’uomo. Non solo nell’aspetto fisico, ma nel modo di relazionarsi con se stessi e la realtà.

Uno dei momenti più alti del film è infatti il monologo finale, in cui il replicante Roy Batty dà libero sfogo alle sue memorie, che abbandona senza nascondere un’umanissima malinconia.

«Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi: navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, e ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.» Senza dubbio una pagina importantissima della storia del cinema.

L’incipit, passato alla storia come un vero e proprio modo di dire, marca la distanza tra i replicanti e gli uomini: “Ho visto cose, che voi umani…”. In effetti le imprese eroiche passate in rassegna da Roy sono davvero sovrumane. Gesta memorabili, che spariranno insieme a lui. I ricordi delle porte di Tannhauser e delle navi al largo di Orione non gli sopravvivranno. E in questa consapevolezza che il replicante si abbandona alla memoria, alla dolce reminiscenza delle sue esperienze.

Assistiamo così all’umanizzazione di Roy. Le sue lacrime, lavate dalla pioggia, spariscono come i suoi ricordi nel momento della sua morte. È tempo di morire, conclude infatti l’umanoide. La morte è il punto di contatto tra il guerriero dell’extramondo e l’uomo. Ciò che lo rendeva superiore agli umani sparirà nella fine più naturale ed umana di tutte. E in procinto di scomparire, decide di risparmiare Rick, innalzando la sua vita ad un significato più alto. Si azzera così la distanza tra l’uomo e il robot, quando quest’ultimo riesce a riconoscere se stesso negli occhi di chi gli è di fronte. Il guerriero perfetto e invincibile muore da uomo, muore da eroe.

Un soliloquio breve ed intensissimo. Narrativamente Blade Runner ha quindi l’enorme pregio di essere riuscito a spingere fino alla conclusione la spannung del film, in questo meraviglioso colpo di scena. Persino durante le riprese la troupe non resistette alla commozione quando Rutger Hauer recitò il suo monologo. In pochissime righe è riuscito a stravolgere i risvolti principali del film, rivelando la natura profonda del suo personaggio.

La sceneggiatura, scritta da Hampton Fancher e David Webb Peoples, è stata liberamente ispirata al romanzo del 1968 Il cacciatore di androidi di Philip K. Dick. Rick Deckard è un ex poliziotto del L.A.P.D. Blade Runner è ambientato nel 2019 in una Los Angeles distopica, dove vengono abitualmente fabbricati dei replicanti aventi le stesse sembianze dell'uomo e utilizzati come forza lavoro in colonie extra-terrestri. I replicanti che tentano di darsi alla fuga o di tornare illegalmente sulla Terra vengono cacciati e "ritirati dal servizio", ovvero distrutti fisicamente, da agenti speciali chiamati "blade runner".

In maniera non troppo velata, il testo del monologo di Blade Runner fa sicuramente riferimento al passato da replicante di Roy, al tempo in cui ha militato nei corpi speciali extramondo. Ciò, sebbene, la pellicola non faccia alcun riferimento temporale o a fatti che ci aiutino a comprendere cosa possano essere i raggi B o le porte di Tannhäuser", lasciando tutto alla fantasia e alla libera interpretazione degli spettatori.

Per quanto riguarda i bastioni di Orione, in inglese c'è un riferimento più chiaro. Il replicante sembra rammaricarsi per il fatto che le memorie di cià che ha visto, quelle cose che gli umani non potranno mai vedere, svaniranno con lui. Deckard, sbagliando, finisce con l'impiccarsi involontariamente. Conscio del fatto che Deckard lo avrebbe ucciso se lo avesse liberato, Batty salva l'uomo, facendo dunque appello a tutto quel che resta della sua umanità, sebbene di replicante.

L'influenza culturale

L'influenza del monologo, nel cinema come nella cultura, può essere notata in innumerevoli riferimenti e tributi. Vale la pena di ricordare come nel film di Tony Scott Domino del 2005, il personaggio di Keira Knightley abbia un tatuaggio dietro al collo con la scritta "Tears in the Rain (lacrime nella pioggia)".

“Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser.

In tale direzione, occorre dunque riprendere (e parzialmente contraddire) il monologo di Roy Batty, che contrappone due locuzioni, e quindi due verbi: “ho visto cose” che “non potete immaginare”. In realtà, se l’esperienza è (stata) visibile solo per il testimone della stessa, tutto ciò che rimane al destinatario è proprio il potere dell’immaginazione, che rappresenta, al contempo, un tradimento e una consacrazione del reale.

Mi piace iniziare con un esempio tratto dal quotidiano - simile a tanti di cui tutti abbiamo avuto esperienza - che ci consenta di cogliere un primo e inequivocabile dato sul tema scelto per questo mese: non è necessario aver osservato i “raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser” per poter affermare che “ho visto cose”.

“I’ve seen things you people wouldn’t believe, attack ships on fire off the shoulder of Orion, I watched c-beams glitter in the dark near the Tannhäuser Gate. All those moments will be lost in time, like tears in rain.

Roy Batty, di fronte all’incapacità (molto umana) di fronteggiare la morte imminente e certa, ripensa alle proprie esperienze sensibili, cioè a quei “dati” che lo differenziano da ogni altro individuo e che da replica(nte) lo rendono, in realtà, unico. “Ho visto cose” rinvia dunque al racconto della propria esperienza che per lasciare traccia - per non morire con il proprio autore, scivolando via, appunto, come lacrime nella pioggia - deve essere riferita.

Il racconto quale momento ultimo e imprescindibile dell’esperienza, in grado di trasformarla da ricordo intimo a storia comune, narrazione nella narrazione, che ritorna più volte nella letteratura. Così Ulisse, prima di poter far ritorno a Itaca, deve condividere e dunque vivere nuovamente - presso la corte dei Feaci - il faticoso viaggio compiuto.

Così il vecchio marinaio della Ballata, dopo aver esperito il divino e la sua punizione, è condannato a un eterno racconto della propria colpa che ne rappresenta, al contempo, la via per la redenzione. E, d’altro canto, il racconto è condannato a rivelarsi come mera rappresentazione dell’esperienza: dunque non solo quantitativamente più limitata (parafrasando il paradosso del cartografo di Borges, per descrivere perfettamente una giornata sarebbe necessaria una giornata), ma anche qualitativamente traslata (perché potremo sempre scegliere cosa comunicare dell’esperienza e come comunicarla, e comunque sia potremmo non essere compresi).

Roy non è infatti interessato ad alcun racconto - o forse più semplicemente, è il tempo a difettargli - limitandosi a una scarna elencazione esemplificativa. Si palesa, per un verso, l’esigenza di far sopravvivere la memoria attraverso il racconto della stessa e, per altro, l’impossibilità di riferirla tutta e in modo perfettamente fedele. Il racconto o non riesce a dire o dice troppo, esagera, trasla il senso, inventa.

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