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Ho Visto un Re: Significato e Interpretazioni di un Classico di Jannacci e Fo

Interpretata da Enzo Jannacci, «Ho visto un re» (testo composto da Dario Fo, musica di Paolo Ciarchi) fu pubblicata per la prima volta nel 1968. Jannacci, in finale a Canzonissima, voleva portare questo brano, ma la commissione Rai si oppose. Il cantautore scelse così un’altra canzone, «Gli zingari». In quegli anni «Ho visto un re», insieme a «Vengo anch'io. No, tu no», aveva dominato la Hit Parade per settimane.

La canzone popolare «finta», scritta appositamente per lo spettacolo teatrale «Ci ragiono e canto», dà voce ad alcuni contadini che spiegano come tutti i potenti, non appena vengono toccati i loro interessi e le loro proprietà, piangono, mentre i villani, nelle stesse condizioni, devono ridere.

La canzone: un'analisi

Il villano dunque racconta di aver visto un re (“Ho visto un re”), senza essere nemmeno compreso all’inizio (“Sa l’ha vist cus’è?”, “Cosa ha visto?”). Quel re “piangeva seduto sulla sella, / piangeva tante lacrime / ma tante che / bagnava anche il cavallo”. E perché tante lacrime? Perché l’imperatore (c’è sempre un potente più potente degli altri potenti) “gli ha portato via un bel castello”.

Per ultimo, il contadino ha visto un altro contadino, uno come lui. Costui aveva perso tutto quel poco che aveva: “Il vescovo, il re, il ricco, l’imperatore / perfino il cardinale / l’han mezzo rovinato. Il commento degli astanti è ovviamente di sorpresa: “Ma sa l’è, matt?” (“Ma è matto?”). Il narratore allora chiarisce inequivocabilmente qual è la realtà: “Il fatto è che noi villan / noi villan… / E sempre allegri bisogna stare / che il nostro piangere fa male al re / fa male al ricco e al cardinale.

Poi, tornato a casa, potrà dire alla sua famiglia: “Ho visto un re”. I meno giovani ricorderanno Ho visto un re, la canzone scritta da Dario Fo, leit-motiv di uno spettacolo portato per anni sulle piazze e nei teatri di tutta Italia. Il ritornello era: sempre allegri bisogna stare, ché il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale.

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La nuova canzone, in effetti, era di meno facile presa, pur presentando un messaggio non meno valido. Ho visto un re è una delle canzoni più famose di Dario Fo, tratta dallo spettacolo Ci ragiono e canto. La canzone costituisce un’ironica presa di posizione nei confronti dei potenti, i cui interessi vanno sempre a scapito della gente comune. Jannacci propose “Ho visto un re” alle audizioni per partecipare a Canzonissima 1968, ma la canzone fu respinta a causa del testo.

In Italia Jannacci ne è il caposcuola, con uno stile molto cabarettistico ma con venature jazz e rock’n’roll, e raggiunge uno straordinario successo di pubblico: i vertici sono Vengo anch’io, no tu no (1967), forse il suo brano più celebre, e Ho visto un re (1968), con testo di Dario Fo.

Il film "Ho Visto un Re" di Giorgia Farina

Giorgia Farina torna con una commedia sospesa tra la favola e il grottesco per raccontare il fascismo attraverso lo sguardo di un bambino. "Trasformare il dramma in avventura e il diverso in meraviglia". Sono le intenzioni che hanno spinto Giorgia Farina, regista capace di reinventarsi ad ogni film (Amiche da morire, Ho ucciso Napoleone, Guida romantica a posti perduti), a realizzare Ho visto un re (in uscita il 30 aprile grazie a Medusa Film), una favola antifascista ispirata a eventi realmente accaduti.

È la storia vera di Guido Longobardi, futuro giornalista, che ai tempi della campagna d'Africa, sogno collettivo e promessa di grandezza per un intero paese, era appena un bambino. Tra racconto di formazione, commedia grottesca e allegoria politica Farina catapulta lo spettatore in un mondo dominato dalle storture del fascismo, ma dove è ancora possibile rintracciare angoli di meraviglia grazie allo sguardo puro del piccolo protagonista.

In Ho Visto un Re, il giovane Emilio (Marco Fiore), figlio del Podestà (Edoardo Pesce) di un piccolo centro del Nord Italia, scopre nel giardino della casa di famiglia un “ospite” molto particolare: Abraham Imirrù (Gabriel Gougsa), un principe etiope rinchiuso in una gigantesca voliera, come fosse un animale esotico o un trofeo.

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La vita del piccolo paese laziale è destinata ad essere sconvolta dall'arrivo di un ospite d'eccezione, Abraham Imirru (Gabriel Gougsa), un Ras etiope catturato e rinchiuso in una voliera nel giardino della villa del podestà Marcello (Edoardo Pesce). La sua presenza accende l'immaginazione degli abitanti, abituati a una vita semplice e scandita dalla propaganda politica e diventa rapidamente oggetto di curiosità, paura e pettegolezzi tra i cittadini.

Per Emilio, un ragazzino di dieci anni con la passione per Sandokan, figlio del podestà e di Regina (Sara Serraiocco), il Ras non è né un nemico, né una minaccia. Attraverso gli occhi sognanti di Emilio la realtà si trasforma, e la brutalità della guerra e della sopraffazione si dissolve nel desiderio di conoscere ed evadere dai rigidi dogmi del mondo paterno.

Il film si arricchisce inoltre di personaggi secondari che donano profondità e stratificazione al racconto. E poi c’è lo zio, Lino Musella, vera rivelazione della storia: artista sensibile, omosessuale nascosto, uomo colto, fuori dal tempo e contraltare morale alla società gretta e conformista che lo circonda. Isolato ma libero dentro, è lui a insegnare a Emilio l’importanza dell’immaginazione, della libertà di essere sé stessi, dell’accoglienza come atto rivoluzionario. Tra i due c’è un’intesa fatta di sguardi, parole sottovoce e silenzi pieni di significato.

Giorgia Farina firma una favola moderna in bilico tra l'incanto dell'infanzia come arma di evasione e i toni caricaturali della commedia che riflette sulle bassezze e le contraddizioni del fascismo. Il piccolo Emilio, straordinariamente interpretato da Marco Fiore, incarna la capacità dell'immaginazione di superare i pregiudizi e di vedere oltre la retorica della propaganda.

Una lente infantile la cui abilità di trasformare la realtà in meraviglia trasfigura il dramma storico in un’avventura dal tono fiabesco, dove la scoperta dell’altro diventa occasione di crescita e apertura al mondo, permettendo così allo spettatore di avvicinarsi a vicende dolorose e complesse con una prospettiva nuova, in grado di suscitare emozioni senza mai risultare didascalica.

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Farina costruisce un racconto in cui la delicatezza non esclude la forza del messaggio, ma anzi lo amplifica, rendendolo accessibile e toccante per un pubblico ampio e trasversale. Il personaggio del Podestà, interpretato da un convincente Edoardo Pesce, è il simbolo dell’ipocrisia e della sottile brutalità di un potere che pretende di “civilizzare” l’altro mantenendolo in catene. Tuttavia, Ho Visto un Re non lo dipinge mai come un mostro, bensì come un uomo mediocre, figlio del suo tempo, convinto delle proprie ragioni.

In un’epoca in cui le differenze spesso dividono anziché arricchire, Ho Visto un Re ci ricorda che l’incontro con l’altro, se vissuto con apertura e stupore, può essere fonte di crescita e umanità. Il passato, evocato con sensibilità e intelligenza, non è solo cornice narrativa, ma una lente attraverso cui leggere le dinamiche del presente riconoscendo come certi errori e certe chiusure possano ripetersi se non vengono compresi fino in fondo.

Usando espedienti a lei cari, come le incursioni animate per rappresentare il mondo immaginario del piccolo protagonista, il tono grottesco della commedia e quello sognante della favola, Giorgia Farina realizza con "Ho visto un re" un piccolo capolavoro. Attraverso un racconto di formazione riflette sul valore della libertà e sul potere dell’immaginazione come atto sovversivo.

Enzo Jannacci: Innovazione e Profondità nella Canzone Italiana

Enzo Jannacci è stato uno degli artisti maggiori della canzone italiana e, per certi aspetti, mondiale. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta, in Italia le capitali del triangolo industriale sono anche il luogo di origine di una nuova canzone, sociale e poetica, con radici popolari, legami con il cabaret e il teatro d’avanguardia, diramazioni nei generi più moderni, dal jazz al rock-n’roll (e prima ancora allo skiffle), allo swing.

In Italia, sono le tre città allora più industrializzate, non a caso, a fare da incubatrice: Torino, Genova e Milano. Fra i milanesi, negli anni Sessanta Enzo Jannacci è senza dubbio l’artista più dirompente, profondo, geniale. Probabilmente, all’epoca Jannacci è l’artista più innovativo in assoluto della canzone italiana, anche rispetto alla scuola di Genova.

Intanto c’è la vena satirica. In Italia Jannacci ne è il caposcuola, con uno stile molto cabarettistico ma con venature jazz e rock’n’roll, e raggiunge uno straordinario successo di pubblico: i vertici sono Vengo anch’io, no tu no (1967), forse il suo brano più celebre, e Ho visto un re (1968), con testo di Dario Fo.

Rispetto alla satira, o alla mera ironia, Jannacci però ha qualcosa di particolare, unico, per quei tempi, perfino a livello mondiale. Su una tavolozza dai colori surreali, i suoi testi combinano la satira con il nonsense, considerazioni agrodolci e giochi di parole dadaisti. Jannacci anticipa il rock demenziale degli Skiantos o di Elio. E per quanto possa sconfinare nel demenziale, la satira rimane, e resta anche la profondità dello sguardo.

Jannacci riesce a mescolare, nella stessa canzone, e con esiti artistici molto alti, la protesta e il nonsense, il sorriso e il dramma. Se non l’unico, egli è stato in questo il primo e il migliore, in Italia e forse nell’intero mondo della canzone occidentale.

Altre volte, Jannacci è puramente e solo drammatico. Sfiorisci bel fiore (1963) è il suo primo capolavoro di questo tipo. Tanto bella che sembra una canzone popolare, di autore anonimo. Ecco Il Duomo di Milano (1971), «pieno di acqua piovana», e a te «han cambiato il cervello» in via Lomellina. Oppure Vincenzina e la fabbrica (1975), canto del cigno, letteralmente, della parabola fordista. O ancora L’uomo a metà (2003), che apre e intitola l’ultimo album di inediti.

Jannacci ha scritto canzoni che fanno divertire e che fanno piangere, a volte contemporaneamente. All’apice del successo ha deciso di lasciare tutto per laurearsi in medicina, di lasciare perfino l’Italia per specializzarsi nei migliori centri al mondo di cardiochirurgia. Poi è tornato.

Lungo i decenni, Jannacci ha mantenuto una linea poetica coerente, che ne ha fatto il massimo cantore critico, in Italia, del miracolo economico. Jannacci è stato il controcanto della Milano ottimista e consumista, cercando di illuminare in quella frenesia ciò che resta dell’animo umano, come nella bellissima E io ho visto un uomo cantata da Milva. Ha cantato i barboni, gli esclusi, i tossicodipendenti, le prostitute, i matti o, semplicemente, una persona qualsiasi, che scoppia a piangere senza un motivo, nell’abisso che si apre tra le vette della produzione e i fondali della nostra psiche.

Enzo Jannacci è stato non solo uno degli artisti maggiori della canzone italiana e, per certi aspetti, mondiale, ma è stato anche, fra i maggiori, il più sottovalutato. Probabilmente perché preso poco sul serio, per la sua vena satirica e nonsense, da un Paese e da una cultura poco pronti alla sua carica innovativa, sul piano artistico, e troppo presi dal sogno dell’agognato benessere per coglierne la critica.

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