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Detenzione Amministrativa dello Straniero: Normativa e Evoluzione

La detenzione amministrativa degli “immigrati irregolari” è un istituto relativamente recente nel nostro ordinamento: è stata infatti introdotta per la prima volta, come misura eccezionale di natura temporanea, solo nell’inverno del 1995, quando il cosiddetto decreto Dini ha sdoganato per la prima volta la possibilità di una privazione di libertà su base amministrativa di durata massima di 30 giorni all’interno di strutture indicate dal Ministero dell’Interno per gli stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione.

Intanto quello stesso anno la cosiddetta legge Puglia creava quello che è stato definito “il primo embrione degli attuali Centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara)”, decretando l’apertura di strutture ricettive lungo la costa pugliese - che era, in quel periodo e sino al 2001, la regione italiana più interessata dagli sbarchi.

L'Evoluzione Normativa della Detenzione Amministrativa

Ecco una panoramica delle principali tappe normative che hanno caratterizzato l'evoluzione della detenzione amministrativa in Italia:

  • 1995: Introduzione della detenzione amministrativa con il decreto Dini, limitata a 30 giorni.
  • 1998: La legge Turco-Napolitano segna l’ingresso della detenzione amministrativa nell’ordinamento giuridico italiano.
  • 2002: Approvazione della legge Bossi-Fini.
  • 2003-2005: Recepimento delle prime direttive comunitarie in materia, inclusa la Reception Conditions Directive.
  • 2009-2011: Innalzamento del termine massimo di detenzione a 180 giorni con il "pacchetto sicurezza" e successiva estensione a 18 mesi con il Decreto Legge n. 89/2011.
  • 2014: Riduzione dei limiti massimi della detenzione nei CIE con la Legge europea 2013 bis.
  • 2015: Il decreto legislativo 142 introduce la possibilità di trattenimento del richiedente asilo.
  • 2017: Il cosiddetto “decreto Minniti” introduce una riforma complessiva dei procedimenti in materia di protezione internazionale.

La Direttiva Rimpatri e le sue Implicazioni

In Europa, viene adottata la cosiddetta Return Directive (e cioè l’importantissima “direttiva rimpatri”), contenente una serie di norme fondamentali relative alla detenzione degli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione: si stabilisce che i paesi membri possono fare ricorso al provvedimento detentivo solo al fine di preparare ed eseguire l’espulsione e si sancisce il fondamentale principio della preferenza per i mezzi non detentivi di controllo, evidenziando come il ricorso alla detenzione debba avvenire solo in extrema ratio, qualora giustificato dalle circostanze del caso, tra le quali, in particolare, il rischio di fuga o i tentativi da parte dello straniero di ostacolare o impedire la sua espulsione.

La direttiva rimpatri ha quindi l’effetto di aprire le porte ad un allungamento dei tempi di trattenimento nei Cie, possibilità subito colta dall’Italia: con il “pacchetto sicurezza” del governo Berlusconi si alza così il termine massimo di detenzione da 60 a 180 giorni e si prevede inoltre - con l’introduzione dell’art. 10 bis del testo unico immigrazione - l’inserimento del reato di immigrazione “clandestina”, da giudicarsi con rito direttissimo di fronte al giudice di pace.

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Due anni dopo, con il Decreto Legge n. 89/2011 il termine massimo di trattenimento nei Cie viene poi esteso a 18 mesi. Con tale riforma la finalità sanzionatoria dell’istituto ha impropriamente preso il sopravvento su quello che invece, secondo il disposto della direttiva rimpatri, dovrebbe essere il solo scopo del trattenimento, e cioè il superamento degli ostacoli che non permettono il ritorno in patria.

Inoltre, attraverso la direttiva 1305 del 1 aprile 2011, il governo Berlusconi ha per la prima volta ristretto l’accesso ai Cie solo ad alcune realtà umanitarie, escludendo invece in toto la stampa.

Il Decreto Minniti e le Ulteriori Modifiche

Poi è arrivato il cosiddetto “decreto Minniti”. Con il provvedimento in commento, al momento in sede di conversione da parte del Parlamento, il Governo ha provveduto con decretazione d’urgenza ad una riforma complessiva dei procedimenti in materia di protezione internazionale, con modifiche di notevole impatto sulla prassi (su tutte, la creazione di sezioni specializzate, l’abolizione dell’appello e la riduzione dei casi di comparizione del richiedente protezione davanti al giudice), che hanno suscitato reazioni fortemente negative, tra gli altri anche da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione Canzio e della sezione dell’ANM presso la Corte di Cassazione.

Una prima novità è quella prevista all’art. 18 co. 3 del decreto, che modifica il testo dell’art. 51 co. 3 bis c.p.p., ed inserisce anche il delitto di associazione a delinquere “realizzata allo scopo di commettere taluno dei delitti di cui all’art. 12 co. 3 e 3 ter d.lgs. 286/98” tra i reati per i quali è prevista la competenza della procura presso il tribunale del capoluogo del distretto: anche le associazioni criminali volte alla commissione delle ipotesi aggravate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare (ad esempio quando le modalità di trasporto dei migranti li abbiano esposti a pericoli per la loro vita, oppure a trattamenti inumani o degradanti) vengono dunque attribuite alla competenza della procura distrettuale, che già aveva competenza in relazione ad una serie di ipotesi in cui la fattispecie associativa era finalizzata al compimento di reati di particolare gravità.

Positiva ci pare anche l’apertura, prevista all’art. 13, di procedure volte all’assunzione da parte del Ministero della giustizia di un numero pur limitato (al massimo 60 unità) di figure “di funzionario della professionalità giuridico pedagogico, di funzionario della professionalità di servizio sociale nonché' di mediatore culturale (…) al fine di supportare interventi educativi, programmi di inserimento lavorativo, misure di sostegno all’attività trattamentale e al fine di consentire il pieno espletamento delle nuove funzioni e compiti assegnati al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità in materia di esecuzione penale esterna e di messa alla prova”.

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In materia di espulsioni, l’art. 19 come 2 lett. b) dispone che, per quanto riguarda le espulsioni disposte a titolo di sanzione sostituiva o alternativa alla detenzione (previste rispettivamente al co. 1 ed al co. 5 dell’art. 16 d.lgs. 286/1998), “quando non è possibile effettuare il rimpatrio dello straniero per cause di forza maggiore, l’autorità giudiziaria dispone il ripristino dello stato di detenzione per il tempo strettamente necessario all'esecuzione del provvedimento di espulsione” (nuovo co. 9 bis dell’art. 16 d.lgs. 286/98).

Con l’art. 19 co. All’art. 17 co. 3 si prevede una nuova e specifica ipotesi di trattenimento in tali centri, per la durata massima di 30 giorni, per gli stranieri che rifiutino di sottoporsi alle operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico (nuovo art. 10 ter co. 3 d.lgs. 286/98). È tuttavia il caso di segnalare come già secondo la normativa pre-vigente il mero “mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità” configurasse gli estremi del rischio di fuga ex art. 13 co. 4 bis d.lgs. 286/98, e dunque in sostanza già fosse consentito, una volta emanato il decreto di espulsione o di respingimento, disporre, in attesa dell’identificazione e del rimpatrio, il trattenimento dello straniero che si sottraesse alle procedure di identificazione.

Infine, l’art. 8 co. 1 lett. b) modifica l’art. 6 co. 3 del d.lgs. 142/2015 (recante la disciplina dell’accoglienza dei richiedenti protezione internazionale), relativo alla possibilità, quando la richiesta di protezione sia stata avanzata da soggetto in stato di trattenimento in un CIE (ora CPR), di prolungare il trattenimento “quando vi sono fondati motivi per ritenere che la domanda è stata presentata al solo scopo di ritardare o impedire l’esecuzione dell’espulsione”.

Come noto, è ormai chiaro da anni che il sistema del trattenimento ammnistrativo in attesa del rimpatrio: a) pone enormi problemi di rispetto dei diritti fondamentali dello straniero (come testimoniano le innumerevoli denunce di commissioni di inchiesta istituzionali e di ONG, italiane e straniere, che negli anni hanno denunciato le condizioni inumane e degradanti di molti CIE); b) è foriero di gravi difficoltà sotto il profilo dell’ordine pubblico (tali condizioni sono state all’origine di numerose rivolte, anche violente); e c) è anche in larga misura costoso ed inefficace (le statistiche attestano che in meno del 50% dei casi gli stranieri trattenuti vengono effettivamente rimpatriati).

L’art. 19 co. 3 del decreto legge segna ora una decisa inversione di tendenza rispetto a tale recente passato. La norma prevede infatti l’adozione di iniziative volte a “garantire l’ampliamento della rete dei centri […], tenendo conto della necessità di realizzare strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona”, e destina la somma di 13 milioni di euro per le spese di realizzazione dei nuovi centri.

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Un’ultima novità riguarda la disciplina dei cd. hotspot, cioè dei centri di prima accoglienza ove vengono indirizzati gli stranieri al momento del loro arrivo sulle nostre coste. Per la prima volta, nel nuovo art. 10 ter d.lgs. 286/98 tali centri vengono definiti in un testo nazionale (la traduzione di hotspot è “punti di crisi”), e ne viene fornita una base normativa: “lo straniero rintracciato in occasione dell'attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto per le esigenze di soccorso e di prima assistenza presso appositi punti di crisi allestiti nell'ambito delle strutture di cui al decreto-legge 30 ottobre 1995, n. 451, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 dicembre 1995, n. 563, e delle strutture di cui all'articolo 9 del decreto legislativo 18 agosto 2015, n. 142”.

La scelta di disciplinare con fonti di rango primario i centri cd. hotspot, dove si svolgono le fasi delicatissime della prima identificazione e dell’informazione riguardo alla protezione internazionale, parrebbe lodevole, considerato come già in diverse occasioni fonti anche molto autorevoli (commissioni parlamentari e del Consiglio d’Europa) abbiano stigmatizzato come tali centri fossero privi di una chiara disciplina legale circa il loro funzionamento e le loro caratteristiche (in primis se luoghi chiusi o strutture di accoglienza aperte, da cui gli stranieri possono liberamente allontanarsi).

Volgendo tuttavia lo sguardo più da vicino al nuovo art. 10 ter d.lgs. 286/98, ci si rende conto che l’opera di normazione dei centri di prima accoglienza è soltanto apparente. La disciplina dei nuovi “punti di crisi” rinvia infatti ad un decreto legge del 1995 ed alla relativa legge di conversione (cd. legge Puglia), in cui il legislatore, in risposta al massiccio afflusso di migranti proveniente dalle coste dell’Albania, si limitava a consentire all’art. 2 “l’istituzione, a cura del Ministero dell’interno, sentita la Regione Puglia, di tre centri dislocati lungo la frontiera marittima delle coste pugliesi per le esigenze di prima assistenza a favore dei predetti gruppi di stranieri”. La legge oggi richiamata non dice però assolutamente nulla quanto alla natura e all’organizzazione dei centri.

Le ultime riforme in tema di detenzione ammnistrativa (negli ex CIE o nei “punti di crisi”) confermano in definitiva quel fenomeno di “bagatellarizzazione della libertà personale” del migrante irregolare, che ormai da più di quindici anni, almeno a far data dalla legge Bossi-Fini, caratterizza quasi ogni intervento in materia di immigrazione. La libertà dello straniero irregolare continua ad essere considerata come un valore di poco conto; al punto che, quando si tratta di detenzioni di qualche giorno (come accade negli hotspots), la legge sembra considerare tollerabile che tale libertà possa essere compressa de facto dall’autorità di polizia, al di fuori di qualsivoglia disciplina legale e di qualsiasi controllo da parte dell’autorità giudiziaria.

Il trattenimento può essere disposto dal Questore (con decreto scritto, motivato e tradotto) per 30 giorni in presenza di “situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento” ( d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 14), e in particolare in caso di:

  • pericolo di fuga;
  • necessità di procedere al soccorso dello straniero;
  • necessità di espletare accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità;
  • necessità di acquisire i documenti per il viaggio;
  • indisponibilità del vettore aereo o di un altro mezzo di trasporto idoneo.

Il trattenimento è disposto dal questore "per il tempo strettamente necessario” ( d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 14, co. 1) al superamento della difficoltà transitoria.

Poiché il trattenimento è una misura che incide sulla libertà personale, è necessaria la convalida giurisdizionale. Il Giudice di Pace fissa un’udienza in camera di consiglio con la partecipazione necessaria di un difensore e decide sulla richiesta di convalida con decreto motivato entro le 48 ore successive al ricevimento degli atti inviati da parte del Questore, secondo quanto stabilito dall'art. 13 Cost.

Il decreto questorile di trattenimento cessa di avere effetto qualora non sia osservato il termine di 48 ore per la decisione del giudice e quando il giudice non lo convalida, in tal caso però resta valido ed efficace il decreto di espulsione.

Il trattenimento può essere prorogato (d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 14, co. 5) dal Giudice di Pace, su richiesta del Questore per trenta giorni in presenza di gravi difficoltà per l’identificazione dello straniero e/o per l’acquisizione dei documenti per il viaggio (quindi per presupposti più stringenti rispetto a quelli che permettono il primo trattenimento). Allo scadere dei 60 giorni, se sono emersi "elementi concreti che consentono di ritenere probabile l'identificazione ovvero sia necessario al fine di organizzare le operazioni di rimpatrio" il Questore potrà chiedere una o più estensioni. Ciò significa che i Questore deve motivare tale esigenza e la proroga può anche essere disposta per pochi giorni. In ogni caso il termine massimo non può superare i 90 giorni.

Tali strutture erano denominate Centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA).

Del tutto diverso è il trattenimento de facto che si determina principalmente nelle zone di frontiera successivamente ai soccorsi in mare o comunque all'arrivo sul territorio italiano. Questo momento è molto delicato in quanto è necessario non solo procedere alla identificazione dello straniero ma anche individuare lo stesso come richiedente asilo o come persona che ha attraversato la frontiera in violazione della normativa che disciplina l’ingresso e quindi destinata all'espulsione.

La complessità del momento discende dal fatto che se le persone presentano domanda di asilo sono richiedenti asilo, diversamente, salvo regioni eccezionali che ne giustifichino la presenza, sono sul territorio italiano in modo non legittimo e sono passibili di espulsione.

Nel 2011 le persone sono rimaste nel centro di Lampedusa anche molto a lungo, ben oltre il tempo strettamente necessario per prestare assistenza, senza possibilità di lasciare la struttura e quindi in una situazione di detenzione di fatto. Tale situazione è stata posta all’attenzione della Corte europea dei diritti dell'uomo che ha affermato come ogni forma di privazione della libertà richiede una base normativa e un controllo giurisdizionale a prescindere dalla qualificazione della struttura come centro di accoglienza o dalla supposta presenza di una situazione di emergenza.

Infatti il d.lgs. n. 142 del 2015, cit. si è limitato a stabilire che “le funzioni di soccorso e prima accoglienza, nonché di identificazione continuano ad essere svolte nelle strutture allestite ai sensi del decreto legge n. 451/95, convertito dalla legge 563/95” (art. 8, c.2) e che “per le esigenze di prima accoglienza e per l'espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica, lo straniero è accolto nei centri governativi di prima accoglienza istituiti con decreto del Ministro dell'interno (…) per il tempo necessario, all'espletamento delle operazioni di identificazione, ove non completate precedentemente, alla verbalizzazione della domanda ed all'avvio della procedura di esame della medesima domanda, nonché all'accertamento delle condizioni di salute diretto anche a verificare, fin dal momento dell'ingresso nelle strutture di accoglienza, la sussistenza di situazioni di vulnerabilità” (art. 9).

Successivamente nel 2017, il legislatore ha introdotto il d.lgs. 286 del 1998, cit., art. 10 ter che prevede disposizioni relative alla “identificazione dei cittadini stranieri rintracciati in posizione di irregolarità sul territorio nazionale o soccorsi nel corso di operazioni di salvataggio in mare”. Tale normativa prevede che la persona rintracciata nel corso dell’attraversamento irregolare della frontiera o condotta in Italia a seguito di salvataggio deve essere collocata negli hotspot istituiti nelle strutture di cui alla legge Puglia o nelle strutture di cui al d.lgs. n. 142 del 2015, cit., art. 9. In queste strutture devono essere effettuate le operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e le conseguenti segnalazioni ai sensi del regolamento Eurodac e deve essere assicurata l’informazione sulla procedura di protezione internazionale e sul programma di ricollocazione in altri Stati membri.

Segnaliamo che il Consiglio dei ministri, ha approvato un decreto-legge contenente nuove disposizioni di contrasto al fenomeno migratorio irregolare. Il decreto interviene, in particolare, in materia di detenzione amministrativa (art. 14 T.u. immigrazione) estendendo sino a 18 mesi il tempo massimo di trattenimento nei Centri per il rimpatrio (CPR) di cittadini stranieri in attesa di espulsione. La nuova disciplina non si applica ai cittadini stranieri richiedenti asilo.

Il D.L. 20/23, conv. in L. 50/23, contiene il più ambizioso progetto di isolamento e detenzione di massa dei cittadini di Paesi terzi dell’Italia repubblicana.

Prototipo di questo ambiente ibrido, nonché modello per analoghi vuoti giuridici, è l’hotspot - approccio, prima ancora che luogo - al contempo sede di adempimenti burocratici (la raccolta delle impronte, l’informativa sull’asilo), di soccorso e prima assistenza, ma anche di trattenimento amministrativo, in particolare per la determinazione dell’identità degli stranieri e per i richiedenti protezione internazionale sottoposti alla cd.

Eppure, la novella non solo ignora le condanne della Cedu ma, per ampliare la capacità ricettiva del sistema, prevede che «Per l’ottimale svolgimento degli adempimenti di cui al presente articolo, gli stranieri ospitati presso i punti di crisi di cui al comma 1 possono essere trasferiti in strutture analoghe sul territorio nazionale, per l’espletamento delle attività di cui al medesimo comma» (art. 10-ter, c. 1-bis, D. Lgs. 286/98).

La norma prevede la possibilità del trattenimento «al solo scopo di accertare il diritto ad entrare nel territorio dello Stato». Ulteriore requisito è la mancata consegna del passaporto, o di altro documento equipollente in corso di validità, o l’assenza di idonea garanzia finanziaria.

La legislazione nazionale prevede che i casi di applicazione della procedura accelerata siano determinati dal presidente della Commissione territoriale, con obbligo di tempestiva informazione al richiedente «delle determinazioni procedurali assunte» (art. 28, c. 1, D. Lgs. 25/08).

Tale procedura prevede la decisione della Commissione territoriale entro 7 giorni dalla ricezione della domanda di protezione, ciò che evidenzia la necessità di individuare saldamente il momento di «ricezione della domanda», nozione ancora incerta nella giurisprudenza di merito e legittimità.

L’esternazione della volontà di chiedere protezione è dunque il momento a partire dal quale lo straniero acquisisce lo status di richiedente asilo e decorrono i termini per l’adozione del decreto di trattenimento e per la registrazione dell’istanza.

La riforma riscrive, anche qui ampliandolo a dismisura, il trattenimento del richiedente asilo in presenza del «rischio di fuga» (art. 6, c. 2, lett. d), D. Lgs. 142/15), sostituendo la precedente nozione con l’omonimo istituto previsto dall’art. 13, c. 4, D. Lgs. 286/98.

Altra ipotesi inedita di restrizione in Italia è quella dell’art. 6-ter, D. Lgs. 142/15, che introduce il trattenimento del richiedente asilo soggetto alla procedura Dublino.

Il trattenimento è dunque misura eccezionale, residuale e non generalizzabile.

Anche l’attuale governo non ha resistito alla tentazione di ritoccare la durata massima del trattenimento presso i C.P.R., infliggendo all’art. 14, D. Lgs. 286/98, la quindicesima modifica in 25 anni.

Il trattenimento degli stranieri è un poderoso strumento di propaganda a disposizione del governo di turno, che l’attuale riforma porta alla sua massima espansione.

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