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E visto che la vita non regala niente significato

Così il pittore Gustav Klimt ha voluto rappresentare le tre età della vita: l’infanzia, la giovinezza e, infine, l’inevitabile declino della senescenza. Tre donne: una ancora piccolina dalle guance rosee rannicchiata senza pensieri tra le braccia di una fanciulla anch’essa addormentata, o forse solo assorta, tutta presa da un affetto materno nei confronti della bambina che abbraccia teneramente.

Dietro, un po’ discosta, una terza donna, con la pelle rugosa e cascante, il corpo magro, quasi emaciato, il ventre solo un lontano ricordo di una maternità che è stata. La donna anziana è separata rispetto alle altre due, suggerendo quasi che stia lasciando la scena. Ill volto è nascosto da capelli ormai grigi e dalla sua stessa mano scarna, in un gesto impotente, disperato, in netto contrasto con la tranquillità e la sicurezza della giovinezza.

Ma è davvero così che vogliamo pensare a questa età della vita? Non è certamente di questa opinione Enzo Bianchi, che nella conferenza tenuta lo scorso giugno presso l’Università del Piemonte Orientale proprio sul tema della vecchiaia, ha ribaltato completamente questo punto di vista. Monaco cattolico, fondatore della comunità di Bose in Piemonte, che ha retto fino al 2017, ormai ottantenne, Enzo Bianchi sta vivendo in prima persona la senilità e ha deciso di rivalutare questo periodo ribattezzandolo paradossalmente come “età di vita”.

Perché paradossalmente? In fondo, da vecchi si vive eccome, anzi, secondo Enzo Bianchi questo momento è da intendere come una vera e propria occasione. Vediamo quindi momenti più significativi del discorso di Bianchi, ispirato anche dal saggio che ha da poco pubblicato su questo tema, “La vita e i giorni. Anzianità, senilità, vecchiaia, senescenza: sono tanti i nomi attribuiti agli ultimi anni della vita di un essere umano.

Secondo Bianchi, un compagno di viaggio inseparabile dal momento in cui nasciamo è il senso del limite. Come sosteneva il teologo Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), “L’uomo comprende veramente se stesso solo a partire dal proprio limite”. Tutto, dagli oggetti materiali ai concetti più astratti, è limitato da precisi confini. Le pareti di una casa, la linea dell’orizzonte che separa una distesa d’acqua apparentemente infinita dal cielo, il tempo.

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L’essere umano non è in grado di concepire le cose senza il concetto di limite, o comunque lo fa con fatica, se non addirittura con un pizzico di timore. La nostra giornata è scandita da ore, minuti, secondi, ognuno con un inizio e una fine precisi. Tutto ha un limite ed è così che l’esistenza stessa viene divisa in stagioni.

Uno dei motivi della frequente non accettazione della senilità è, secondo Enzo Bianchi, l’incapacità della nostra società attuale di comprendere i segnali provenienti dal proprio corpo. Manca nell’educazione di stampo occidentale l’ascolto del proprio corpo, un’abitudine invece molto più diffusa e considerata normale nella cultura orientale. Si assiste anche all’accostamento, tutto occidentale, della vecchiaia al concetto di improduttività e quindi di inutilità.

Sembra urgente darsi da fare per apparire giovani non solo nel corpo ma anche nella mente. Il modello è un corpo giovane e quello vecchio non viene ascoltato. Come dicono i sapienti dell’Oriente, invece, il nostro corpo ci ammonisce, ha un linguaggio a cui dovremmo prestare attenzione. Bisogna imparare ad accettare e a convivere con i segni dell’usura del corpo, magari anche rivalutandoli.

Per esempio, le rughe sul volto di un anziano sono la narrazione della sua storia. La diminuzione delle forze a cui si assiste durante la vecchiaia ci annuncia che una nuova fase della vita sta iniziando. Tuttavia, in un periodo storico in cui l’età anagrafica si è sicuramente allungata, la tendenza è purtroppo quella di aggiungere altri giorni alla vita in un modo quasi morboso, come se la pienezza e l’autenticità dell’ultima fase dell’esistenza dipendessero esclusivamente dalla sua effettiva durata.

Non è così, sostiene Bianchi, il cui motto è “aggiungere vita ai giorni, non giorni alla vita” in modo che, anche se l’esistenza fosse abbreviata, la vita che c’è nei giorni possa comunque essere piena. Se però è vero che la vita si è allungata in termini quantitativi, si può dire lo stesso anche della sua qualità? “Senectus ipsa est morbus” (la vecchiaia è per se stessa una malattia), diceva Terenzio.

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Bianchi stesso non può negarlo: invecchiando, arrivano i primi acciacchi, l’udito diminuito, poi la vista offuscata e infine le sempre maggiori difficoltà nel movimento. Anche lui ci è passato, soprattutto negli ultimi anni. Nasce quindi la paura della malattia invalidante, quella che toglie autonomia, la paura dell’abbandono e della solitudine, ben espressa dalle parole di Gabriel Garcia Marquez, che scriveva “La morte non arriva con la vecchiaia ma con la solitudine”. Ancora una volta, ciò che si è guadagnato in quantità non sempre corrisponde a un guadagno in qualità.

Nella società moderna, la solitudine nell’anziano è frequente, anche quando i familiari non fanno mancare nulla dal punto di vista materiale, al contrario del mondo contadino del passato, dove la famiglia si stringeva intorno all’anziano accompagnandolo durante il tramonto della vita. La vecchiaia è una tappa della nostra vita che dovrebbe essere intesa come un compito, un’ora verso la quale dobbiamo prepararci con consapevolezza, non lasciando che ci venga incontro trovandoci incapaci di comprenderla e di accettarla.

Nasce così la necessità di attraversare la vecchiaia con arte, l’ars vivendi, ovvero l’arte di vivere, considerando questa fase come una buona stagione in cui si devono cambiare molte delle proprie abitudini, per esempio rassegnarsi a lavorare meno, dedicare più tempo a osservare, ad assaporare la natura e il susseguirsi delle stagioni. Enzo Bianchi riporta un esempio banale ma significativo che lo riguarda in prima persona.

Da sempre ha dimostrato una grande passione per le piante, tanto è vero che, quando a 14 anni suo padre gli chiese che regalo volesse come premio per i bei voti a scuola, lui rispose: un orto. Il padre glielo regalò e ancora oggi il monaco di Bose si diletta a raccogliere i suoi ortaggi, coltivati con passione. Tuttavia, mai come durante la vecchiaia, ha percepito una sensibilità di amore per la natura che lo circonda, un legame un po’ romantico che gli permette di sentirsi un tutt’uno con le cose di questo mondo, fino a entrare in un rapporto di contemplazione e meraviglia verso le cose naturali, siano esse animate o inanimate.

Non si vergogna ad ammettere che, spesso e volentieri, durante le sue frequenti passeggiate nei boschi, si ritrova ad abbracciare gli alberi e sovente gli sembra di percepire che anche loro hanno una voce, sebbene diversa da quella umana. Se in passato non si era accorto di questa comunione con la natura, la vecchiaia gli ha dato tempo e modo di rendersene conto, e per questo le è infinitamente grato.

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È impensabile rimanere testardamente aggrappati a ciò che si faceva, serve un distacco, da non vivere però in senso negativo. Non si tratta infatti di rassegnazione ma di occasione di cambiamento, per ridurre le proprie responsabilità e le frenesie quotidiane. Giunge il tempo di avere tempo, del “dolce far niente”, del dedicarsi a ciò che più ci fa felici, cucinare, dipingere, leggere un libro, magari sorseggiando un bel bicchiere di barolo chinato (suggerimento di Bianchi, da vero monferrino)!

Oltre che un’occasione per riflettere meglio sul presente, la senilità è anche tempo di anamnesi, di ricordo. Ricordare ha un significato che va oltre il meccanico rammentare e che richiede una consapevolezza responsabile per ripercorrere a ritroso, piano piano, tutte le tappe della propria storia, fino alla sua sorgente. Sempre Gabriel Garcia Marquez scriveva che “La vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.

In questo senso, gli anziani hanno anche un vantaggio, soffrendo spesso di quella che Bianchi chiama “presbiopia della memoria”: dimenticano fatti recenti ma conservano una memoria di ferro per eventi lontani nel tempo. Bianchi dice che ogni volta che ci si affaccia a una nuova età della vita si è come dei novizi. Serve quindi un periodo di apprendistato e quello più efficace per prepararsi alla vecchiaia è, molto semplicemente, la vicinanza agli anziani, il saperli ascoltare.

Forse la vecchiaia è il momento della vita più attivo di tutti, in cui l’ars vivendi viene trasmessa alle nuove generazioni per accompagnarle da un’età all’altra. Oggi, invece, secondo Bianchi (che qui, per la prima volta, fa trasparire una punta di delusione verso l’atteggiamento della società attuale), si tende a fare della vecchiaia un tabù, o, per dirla con le parole di Simone de Beauvoir, “…una sorta di segreto vergognoso di cui non sta bene parlare”.

La si vede come un affronto, un’ingiustizia, si vogliono tenere i bambini lontano dagli anziani quando questi ultimi non sono più autosufficienti, per paura che i piccoli soffrano nel vedere la sofferenza altrui. Tuttavia, è proprio questa sofferenza che deve essere considerata una scuola di vita. Nel suo saggio, Bianchi riporta le parole di un amico politico, che gli ha confessato di essersi ritirato dalla vita parlamentare per lasciare spazio ai giovani.

Ciò che però gli ha fatto più male è stato il non essere mai consultato da loro, l’essere dimenticato. C’è un bel passo del Qohelet* che descrive magistralmente la vecchiaia. Tra le tante immagini metaforiche si fa riferimento a un’anfora che si rompe presso la fonte e a una carrucola che cade nel pozzo (Qohelet, o Ecclesiaste, 12:6); un’immagine che ben spiega il senso di perdita delle forze e di “lasciare la presa”.

Enzo Bianchi, però, ha voluto modificarla leggermente con un commento molto personale. Lasciare la presa non è un lasciar cadere completamente la corda del secchio nel pozzo, bensì lasciare alcuni fili per stringerne altri con più forza, accettare l’incompiuto, senza volersi sentire supereroi che devono portare necessariamente a termine ciò che non hanno avuto modo di finire, riponendo invece fiducia in chi verrà dopo di noi.

Enzo Bianchi invita quindi a vedere la vecchiaia come l’autunno della vita ma non nel senso che la maggior parte di noi è abituata ad attribuirgli, piuttosto come una stagione di colori e, quindi, di vita. John Donne scriveva: “Nessuna bellezza di Primavera / nessuna bellezza estiva / ha la grazia / che ho visto in un volto autunnale” (John Donne, Elegia IX). Tutto dipende da come vogliamo vivere la nostra senilità ed è per questo che Enzo Bianchi, nel suo saggio, regala questo augurio: “Si possa dire di te un giorno che hai amato molto, che la tua vita è stata una storia di amore, perciò una vita che valeva la pena vivere.” (Enzo Bianchi, La vita e i giorni.

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