Effetti della Guerra sul Turismo: Impatti Economici nel Medio Oriente e Nord Africa
Il conflitto a Gaza getta un’ombra sul quadro economico dei Paesi del Medio Oriente e Nord Africa (MENA). Di fatto, la guerra tra Israele e Hamas è intervenuta in una fase di calo della crescita già avviato, che per i Paesi MENA si attesterebbe al 2,0% nel 2023, in netta decelerazione rispetto al 5,6% del 2022.
Su questo sfondo, non sorprende che il Fondo Monetario Internazionale (FMI) nell’ultimo aggiornamento di gennaio dell’outlook economico abbia rivisto al ribasso, sebbene solo dello 0,5%, le proiezioni di crescita della regione MENA, rispetto al World Economic Outlook dello scorso ottobre, attestandola al 2,9% nel 2024.
Oltre a riflettere il rallentamento dell’economia a livello globale, questa riduzione dipende da fattori che hanno avuto un impatto diversificato sui Paesi MENA, quali tre successivi tagli alla produzione di petrolio da parte dell’OPEC+ (di cui l’Arabia Saudita, che conta il 55% dei tagli alla produzione, è membro) da settembre 2022 a giugno 2023, condizioni finanziarie più restrittive e un’inflazione elevata soprattutto nei Paesi importatori di idrocarburi.
La riduzione della crescita nella regione è più significativa nelle monarchie esportatrici di petrolio del Consiglio di cooperazione del Golfo (GCC) - 0,5% nel 2023, con una ripresa al 2,7% nel 2024 - proprio a causa della minore produzione energetica e della riduzione dei prezzi del petrolio rispetto all’anno precedente quando il costo del barile aveva raggiunto il picco di 120 dollari.
Impatto sui Paesi Limitrofi all'Area del Conflitto
L’incertezza legata all’evoluzione dello scontro tra Hamas e Israele e all’apertura di nuovi fronti, oltre al Libano meridionale e al Mar Rosso, ha dunque inevitabili ricadute a livello economico. I primi a risentire dell’impatto negativo sono gli Stati limitrofi all’area del conflitto.
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Secondo delle stime del Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP), il costo aggregato della guerra per Egitto, Giordania e Libano potrebbe ammontare a 10,3 miliardi di dollari, pari al 2,3% del PIL di questi tre Paesi. Se si considera che per questi tre stati il settore turistico pesa rispettivamente per il 10%, il 15% e il 40% del PIL, sono evidenti i rischi che incidono su contesti economico-finanziari già vulnerabili.
In Giordania e Libano, e in misura minore in Egitto, è il turismo il settore che finora ha risentito maggiormente dell’accresciuta instabilità sul piano geopolitico e che, con il protrarsi del conflitto, potrebbe registrare perdite ancora più significative. Il conflitto in corso ha di fatto frenato la ripresa che si era registrata da inizio 2023.
Secondo l’UN World Travel Organisation (UNWTO), infatti, la regione mediorientale nei primi nove mesi dello scorso anno ha avuto una performance migliore rispetto ad altre aree, superando del 20% gli arrivi del periodo pre-Covid. Se la crescita è stata generalizzata, un ruolo di traino è stato giocato dalle monarchie del Golfo che nei loro piani di diversificazione economica, le cosiddette Visions, hanno investito sul turismo tra i settori di punta delle loro strategie di sviluppo.
Egitto
In Egitto, al di là delle incertezze legate al settore turistico, i cui introiti hanno segnato un più 30% nei primi sei mesi dello scorso anno, è l’instabilità nel Mar Rosso a mettere ulteriormente alla prova un’economia già vacillante, con un’inflazione che ha toccato il picco del 34% a novembre e una valuta nazionale fortemente svalutata rispetto al dollaro.
Il calo del 40% delle entrate dal transito delle navi rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, registrato a gennaio dall’Autorità del Canale di Suez, acuisce la carenza di valuta estera di cui il Paese ha bisogno per importare grano e altri beni e per rimborsare il suo impressionante debito estero, che ha raggiunto i 164,5 miliardi di dollari nel settembre 2023, di cui 29 miliardi di dollari devono essere rimborsati quest’anno.
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Per un Paese fortemente dipendente dalle importazioni di grano e cerali, di cui circa l’80% da Russia e Ucraina, l’aumento esponenziale dei prezzi di queste commodities dopo l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto un impatto significativo.
Per cercare di tamponare le ricadute negative del deterioramento del contesto mediorientale sull’economia egiziana il FMI sta accelerando la conclusione del prestito da 3 miliardi di dollari, deciso a fine 2022 e condizionato all’adozione di riforme da parte del governo del Cairo, incluse misure per favorire la crescita del settore privato. Secondo alcune fonti, il prestito potrebbe essere aumentato a 10 miliardi di dollari, includendo altri donatori, tra cui la Banca Mondiale.
Giordania
A inizio novembre anche la Giordania ha concordato con il FMI un nuovo programma di riforme quadriennale da 1,2 miliardi di dollari per ammortizzare l’impatto negativo del conflitto a Gaza. Oltre alle cancellazioni nel settore turistico, stimate tra il 50% e il 75%, nel regno hashemita la riduzione della crescita, prevista al 2,6% nel 2024, riflette una diminuzione degli investimenti e della domanda di importazioni dalla regione.
Libano
Rimane invece bloccato un pacchetto da 3 miliardi di dollari del FMI al Libano - dal 2019 alle prese con quella che la Banca Mondiale ha definito una delle peggiori crisi economiche e finanziarie della storia - a causa di perduranti divisioni interne che hanno prodotto una situazione di grave stallo politico e impedito le necessarie riforme strutturali richieste dall’istituzione monetaria internazionale.
Sebbene il rischio che un’escalation di violenza dalle aree del sud si diffonda all’intero Paese sembri al momento limitato, la fragile economia libanese ha già accusato i primi colpi dello scontro tra le milizie di Hezbollah e Israele. Non solo il turismo, ma anche altri settori economici chiave - quali commercio e agricoltura - ne stanno risentendo. È proprio nel sud infatti che si concentra oltre il 21% delle coltivazioni del Paese.
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Israele e Territori Palestinesi
Nell’attuale contesto di guerra, le più duramente colpite sono inevitabilmente le economie di Israele, di Gaza e della Cisgiordania. Se la Striscia è al collasso - meno 6% nelle previsioni di crescita del PIL del FMI - e la situazione umanitaria è sempre più drammatica dopo quattro mesi di azioni israeliane, anche la Cisgiordania ha subito una forte contrazione a causa sia delle restrizioni alla mobilità sia al deterioramento della sicurezza interna.
Quanto a Israele, secondo l’Ufficio centrale di statistica israeliano, il PIL del Paese ha subito una contrazione di quasi il 20% nell’ultimo trimestre del 2023, la più grave dalla pandemia quando si era registrato un meno 30% nel secondo trimestre del 2020. Le stime si basano prevalentemente sui dati dei primi due mesi di conflitto in cui Israele si è trovato a evacuare circa 200.000 persone dalle aree limitrofe a Gaza e al confine con il Libano, a richiamare oltre 300.000 riservisti e a sospendere di conseguenza tutta una serie di attività economiche, bloccando tra le altre cose l’accesso sul suo territorio dei lavoratori palestinesi da Gaza e limitando anche quello dalla Cisgiordania.
La contrazione è legata principalmente al calo dei consumi privati, dell’export e degli investimenti soprattutto nel settore delle costruzioni. Il costo della guerra è finora stimato dalla Banca d’Israele ad oltre 69 miliardi di dollari (255 miliardi di shekel), mentre l’aumento della spesa pubblica è stato di circa il 90%. Nonostante la ripresa a gennaio di diverse attività, anche in seguito al richiamo dei riservisti, l’agenzia Moody’s ha declassato Israele da A1 ad A2 e cambiato l’outlook in negativo.
Impatto Globale e Considerazioni Finali
Sullo sfondo di un conflitto che non accenna a volgere al termine, va da sé che le conseguenze economiche, sia per Israele e i Territori Palestinesi sia per i Paesi del Medio Oriente, saranno tanto più gravi quanto più a lungo si protrarranno le ostilità e quanti più saranno i nuovi fronti aperti. Se appare chiaro che gli stati mediorientali non hanno intenzione di essere trascinati in una guerra regionale, non altrettanto evidente è la fine della guerra a Gaza.
Il settore turistico italiano, storicamente robusto e resiliente, si trova oggi di fronte a situazioni che necessitano una attenta analisi; il turismo è infatti, influenzato da vari fattori geopolitici e sociali. La Russia è stata storicamente una fonte significativa di turisti per l'Italia, con numerosi viaggiatori russi noti per la loro alta capacità di spesa. Tuttavia, le sanzioni economiche e le restrizioni sui viaggi hanno drasticamente ridotto questi flussi.
Parallelamente a queste tensioni, le imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti tra Donald Trump e Joe Biden stanno catalizzando l'attenzione di milioni di americani. Durante i periodi elettorali, gli americani tendono a ridurre i viaggi internazionali, concentrandosi sugli sviluppi interni.
L'Italia deve affrontare con attenzione queste dinamiche globali per mitigare l'impatto negativo sui flussi turistici. È cruciale diversificare i mercati di origine dei turisti, promuovendo maggiormente il paese in regioni meno affette da questi conflitti. La situazione richiede una strategia di marketing flessibile e adattabile, in grado di rispondere rapidamente ai cambiamenti geopolitici e sociali.
Sull’impatto sul turismo, gli analisti di S&P Global Ratings hanno condotto uno studio in cui vengono stimati gli impatti finanziari di tre scenari: -10%, -30% e -70% di ricezione di turisti nei paesi analizzati. «Molto dipenderà dalla durata del conflitto e dall’eventualità che si allarghi nelle altre regioni oppure no», sottolineano gli analisti.
Tra i quattro, Israele è il meno penalizzato, in quanto il turismo rappresenta solo il 2,7% delle partite in conto corrente dello Stato. Ciò si traduce in una perdita compresa tra 0,1 e 0,7 punti pil nel migliore e nel peggiore dei casi. Ciò che deve preoccupare l’economia di Israele non è certo il turismo, conclude lo studio, ma altri elementi come i danni alla logistica e alle infrastrutture, e le interruzioni delle aziende, nonché un calo degli investimenti e dell’occupazione.
Egitto, Libano e Giordania ne escono invece più danneggiate economicamente. In queste economie il peso del turismo è maggiore. Basti pensare che il settore dà lavoro a circa il 20% della popolazione di Giordania e Libano. In un mercato del lavoro molto precario: in Libano il tasso di disoccupazione sfiora il 30%, in Giordania il 19%. In Egitto, si andrebbe incontro a una perdita compresa tra 0,3 e gli 1,8 punti pil a seconda dello scenario.
Paesi come la Turchia, per esempio, sono geograficamente molto lontani dal conflitto. Altri, come gli Emirati Arabi Uniti, sono a livelli di turismo oltre quelli pre-pandemici. Addirittura, sottolinea lo studio, in questi due Paesi potrebbe aumentare il flusso di turismo proprio dai turisti che decidono di cambiare meta a causa del conflitto. Per altri, come Iraq e Arabia Saudita, buona parte del turismo è per fini religiosi, meno suscettibile, sottolinea lo studio, alle cancellazioni.
Le conseguenze della guerra in Ucraina e delle sanzioni economiche alla Russia sono il motivo del calo esponenziale del numero di turisti provenienti da Russia e Ucraina in molti paesi Europei. Il settore del turismo rappresenta il 10% del PIL in Europa, con oltre 23 milioni di posti di lavoro; solo per il nostro paese, la Russia costituiva il decimo mercato per numero di arrivi e addirittura l’ottavo per numero complessivo di presenze.
Il conflitto che si allarga sempre di più affossa un settore cruciale per il Pil di molti Paesi dell’area. Della Giordania in primis, con Petra svuotata.
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