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Gardaland: Testimonianze di Ex Dipendenti e Questioni Lavorative

La questione relativa alla chiusura anticipata di ben 13 attrazioni di Gardaland a causa della mancanza di personale continua a far discutere. Stanno infatti iniziando a comparire sul web, sempre più numerose, le testimonianze di alcuni ex addetti ai lavori.

Condizioni Lavorative Svantaggiose

Stando al racconto di questi ultimi, il fulcro del problema non sarebbe tanto la mancanza di disponibilità a lavorare da parte degli stagionali, quanto il fatto che le condizioni lavorative ad essi imposte dal parco di divertimenti siano svantaggiose e inaccettabili. Gardaland aveva annunciato nei giorni scorsi delle limitazioni all'accesso per 13 delle sue attrazioni, con chiusura anticipata dalle 23:00 alle 19:00, a causa, come dichiarato sui social, di una "forte carenza di lavoratori stagionali che sta sperimentando il settore turistico".

Una premessa che dovrebbe far pensare a retribuzioni e condizioni lavorative quantomeno accettabili. Dai racconti fatti dagli ex addetti, pare tuttavia evincersi il contrario.

"Lo stipendio medio di un animatore di Gardaland a tempo pieno è inferiore a mille euro al mese", scrive infatti qualcuno, e per un lavoro che prevede "turni lunghi e massacranti", tanto che "ti fanno lavorare 70 ore a settimana". Anche nel momento di conclusione del rapporto lavorativo le cose non andrebbero meglio: "Quando vogliono ti mandano via senza un valido motivo (offendendoti)".

Accuse di Discriminazione

Un dipendente di uno dei più affollati ristoranti del parco divertimenti Gardaland ha denunciato l’atteggiamento discriminatorio da parte del suo manager, che è stato licenziato. Insultato e deriso davanti a colleghi e clienti per il suo orientamento sessuale, con appellativi spregevoli e allusioni. Secondo il locale il manager non aveva “rispettato la dignità e l’orientamento sessuale” del collega, un 37enne apertamente omosessuale cassiere presso il ristorante, con “inammissibili atti di derisione” e altre infrazioni al codice comportamentale del parco.

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Adesso anche il Tar, a cui l’ex manager ha fatto ricorso contro la rescissione del contratto per giusta causa, dà ragione all’azienda rigettando la sua richiesta. Con la stessa sentenza la giudice Paola Vacca ha anche condannato un ex cameriere del locale per falsa testimonianza. Durante il processo ha negato di aver chiamato e sentito chiamare il collega con appellativi quali “principessa“, detto in tono denigratorio, e altre parole comunemente utilizzate per insultare un uomo omosessuale.

Un comportamento confermato invece dagli altri dipendenti del ristorante, che hanno delineato con le loro testimonianze un clima di sistematica denigrazione del collega, confermando di aver visto il manager e il cameriere “denigrare a parole e irridere a gesti” il cassiere. Nel corso della testimonianza, come riferisce Il Corriere del Veneto, il dipendente ha raccontato l’episodio che ha fatto scattare la denuncia: “Io ero alla cassa, era inizio servizio, la gente stava entrando in quel momento. Mentre stavo alla cassa, arriva il cameriere (lo stesso condannato per falsa testimonianza, ndr) che mi portava gli scontrini con i soldi, io dovevo dare il resto delle bevande extra e mi dice allungandomi uno scontrino con i soldi ‘tieni principessa’“.

A questo punto il manager avrebbe ripetuto il termine utilizzato in senso denigratorio e avrebbe cominciato a “muovere le mani in modo femminile” per prenderlo in giro. A lui vanno due anni di reclusione con condizionale.

Altri Casi di Molestie e Discriminazioni nel Settore

Intanto in Italia, dopo l’esplosione della bufera per la ormai famosa vicenda della chat sessista di almento un'ottantina di dipendenti, i vertici di We Are Social hanno rilasciato una serie di interviste per tentare di difendersi dalle accuse, confermando di non avere mai saputo nulla della chat prima della denuncia di alcune dipendenti nel 2017 e, pur ammettendo di avere sottovalutato la vicenda, di non avere avuto finora piena consapevolezza di tutti gli elementi emersi nelle denunce recenti.

«Ed è questo il motivo per cui stiamo ora aprendo un’indagine interna - ha detto a la Repubblica Gabriele Cucinella, uno dei tre fondatori della sede Milanese di We Are Social con Stefano Maggi e Ottavio Nava -. Avremmo dovuto farlo già allora, è stato un errore. Convocammo il senior team e condannammo l’episodio. Anni dopo, quando riemerse la questione, ne abbiamo parlato con tutta l’agenzia e abbiamo introdotto un codice etico e iniziative sulla diversity inclusion.

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Grande rilevanza viene quindi data dall’agenzia alla nuova indagine interna. Lo si evince dalle Instagram Stories pubblicate da Tania Loschi, copywriter pluripremiata e con precedenti esperienze in agenzie di spicco nel panorama della pubblicità, nonché la prima a pubblicare e raccogliere le testimonianze di altri lavoratori del media e della comunicazione, in cui si fa riferimento ad altri nomi ricorrenti di agenzie e direttori creativi che sarebbero dunque al centro di nuove denunce di molestie e discriminazioni.

A conferma del fatto che nei prossimi giorni potrebbero uscire nuove storie e nuove denunce anche un articolo di Selvaggia Lucarelli, uscito sabato su Il Fatto Quotidiano. “Intanto, in un’altra famosa agenzia internazionale si respira un clima di grande paura perché, secondo la testimonianza di alcuni ex dipendenti, una chat molto simile a quella di We Are Social esisteva anche lì, almeno fino al 2019. E anche in quel caso la faccenda fu gestita con grande superficialità”, si legge nell’articolo.

“In particolare, in una delle più prestigiose agenzie, c’è molta agitazione per via di testimonianze di ragazze su molestie e umiliazioni pubbliche che convergono su uno dei soci. Ai nostri microfoni ha raccontato che “Tante persone si sono attivate in modo indipendente, raccontando la propria esperienza anche per mettere in guardia i profili più junior rispetto alla realtà di alcune agenzie. La situazione è molto più ampia rispetto al caso We Are Social e rispetto a quanto è emerso all’inizio.

Testimonianze di Donne alla Michelin

Giuliana, Irma, Bice, Annamaria: i racconti di donne che lavorarono nello stabilimento di via Sanseverino, raccolti nell’ambito del progetto “Fiori dalla fabbrica” di Anna Scalfi Eghenter. Storie di donne che lavoravano alla Michelìn, in lung’Adige Sanseverino, pronunciato alla trentina, con l’accento sulla “i”. Le sta raccogliendo Anna Scalfi Eghenter, artista, performer, sociologa.

Tutte e cinque di Sardagna le operaie che raccontano sé stesse: Maria Gardumi (in fabbrica dal 1947 al 1984), Irma Demozzi (dal ’57 al ’78), Giuliana Degasperi (dal ’58 al ’62), Bice Berloffa (dal ’59 al ’65), Annamaria Berloffa (dal ’72 al ’95). Raccolta anche la testimonianza di Alessandra Degasperi, sorella di Giuliana. Voci che mettono in rilievo quanto quella fabbrica padronale e “paternalistica” rappresentò l’affrancatura dalla miseria per tanti trentini, per moltissime famiglie.

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Ma anche che, sull’altare del “piatto pieno” e dell’offerta di servizi dopolavoristici da parte dell’azienda, si immolarono per molto tempo i diritti, le condizioni salariali e la salute che solo negli anni Sessanta vennero rivendicati e in buona parte ottenuti. Il cottimo era la norma, le condizioni di lavoro pessime, per pranzare c’erano poche decine di minuti e spesso e volentieri era il parroco a garantire e raccomandare per i nuovi assunti.

“Avevo 16 anni quando mia mamma mi chiese si andare a lavorare in fabbrica - racconta Maria Gardumi - Mi svegliavo alle 4 e mezzo per andarci, scendendo in città a piedi, mettendoci un’ora (prima che ci fosse la corriera). Non c’erano soldi, con quello che guadagnavo si sfamava la famiglia, avevo 7 fratelli. E che mal di schiena quando lavoravo alle bobine. Negli ultimi anni ero caposquadra e quando sono andata in pensione ho dato la buonuscita ai fratelli…”. “In reparto era sempre un gran caldo, in mensa si andava di corsa e per mangiare c’era mezz’ora, tanto da non riuscire, a volte, a mettere insieme il primo con il secondo”, aggiunge Giuliana Degasperi.

La Sindrome di Tourette e l'Importanza dell'Ambiente Sociale

Salve, sono papà di un bambino affetto da disturbo da TIC, e sono il fondatore di questo sito. Mio figlio ora ha 9 anni ed i suoi disturbi presenti fin dalla nascita sotto la forma di ipersensibilità sensoriale, si sono trasformati in ticcosità più o meno all’età di 2 anni.

In questi tre anni le manifestazioni ticcose si sono alternate con periodi di maggiore e minore intensità, attualmente siamo in un buon momento, il bambino sta imparando a controllare le sue scariche ed a orientarle in spazi socialmente accettabili. E’ un bambino bellissimo e molto intelligente e tante volte io e sua mamma ci siamo chiesti cosa sarebbe potuto accadere se l’ambiente, anziché accettarlo ed aiutarlo, lo avesse represso, redarguito e sgridato (come è istintivo fare, da parte di un genitore, di fronte a manifestazioni che sembrano “vizi”).

Con la scuola materna ce la siamo cavata abbastanza bene (più avanti vi mostro il documento che a suo tempo inviai agli insegnanti, pensando che possa essere preso ad esempio), ora ci stiamo preparando alla scuola elementare. La forte incidenza dell’ambiente sull’evoluzione del disturbo ovviamente ci preoccupa un po’ per le incertezze del futuro, anche se ci rincuora vedere questo bambino sempre più forte e sicuro di se stesso.

La Sindrome di Tourette è una manifestazione comportamentale di origine neurologica, su base genetica e con incidenza ereditaria, la cui precisa fisiologia non è ancora completamente identificata, i ricercatori segnalano la possibilità che questa sindrome conduca ai deficit attentivi (difficoltà a concentrarsi su degli stimoli, quindi a controllarli) o che possa associarsi alle forme di ipersensorialità (reazioni abnormi ad alcuni stimoli sensoriali).

I soggetti con Sindrome di Tourette, quando la manifestazione non scompare spontaneamente entro l’adolescenza (casistica non infrequente), possono sviluppare forme di disistimia psicologica se le loro azioni ticcose vengono redarguite o derise dall’ambiente sociale, il quale non sa che tali manifestazioni sono involontarie e che anzi per il soggetto possono essere addirittura necessarie al controllo e mantenimento di alcune importanti funzioni cognitive.

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