Il Significato Profondo della Poesia sullo Straniero
La poesia sullo straniero esplora temi di alienazione, estraneità e la complessa ricerca di identità in un mondo in continuo cambiamento. Attraverso le opere di vari autori, emerge una profonda riflessione sulla condizione umana e sul significato di appartenenza.
Il Senso di Estraneità in Baudelaire
Se c'è un autore che più o meno tutti, concordemente, pongono all'inizio della letteratura moderna, questi è Baudelaire. Charles Baudelaire viene dunque considerato il fondatore della poesia moderna. Baudelaire esprime in vari testi il suo senso di estraneità rispetto al mondo che lo circonda. Ma quello in cui questo sentimento è dichiarato a più chiare lettere e in modo splendidamente poetico è senz'altro il poemetto in prosa L'étranger (Lo straniero), uscito la prima volta su rivista nell'agosto del 1862.
Questo testo occupa la prima posizione nella raccolta dei poemetti, uscita postuma nel 1869 con il titolo Le spleen de Paris, ma progettata da Baudelaire stesso. Non è certo casuale che, per aprire la raccolta di tali brani di prosa musicale, senza rima e senza ritmo costante, percepita dall'autore come tentativo di grande innovazione, Baudelaire avesse previsto proprio il dialoghetto de Lo straniero. Come a dire ai lettori: guardate, cari miei, che io, questo sono: uno straniero.
Uno senza famiglia, senza amicizie, senza patria, senza Dio, senza soldi e amante unicamente della bellezza, sì, ma della bellezza perennemente cangiante, mutevole, imprevedibile, fragilissima - la bellezza delle nuvole in fuga sull'orizzonte. Uno straniero, cioè un poeta. Ossia uno che scrive senza mandato sociale. Uno che assomiglia a San Giovanni che predica nel deserto.
In un luogo ulteriore dell'opera (sempre Spleen de Paris) Baudelaire presenta se stesso niente meno che come sacré bougre de marchand de nuages ovvero fottuto porco di un mercante di nuvole! Così infatti lo insulta la sua piccola folle incantatrice, mentre gli serve la zuppa, per cena. Mercante di nuvole, il che equivale a significare un mercante di prodotti invendibili. Baudelaire non ha mai scritto un best-seller, in effetti.
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Per questo, per questa mancanza di riconoscimento da parte della società in cui vive, egli, il letterato, può identificarsi solo con i reietti, i respinti, le figure sociali dell'emarginazione: la prostituta, il povero, il vagabondo, il pervertito, il dandy... Basti per tutti il vecchio saltimbanco, protagonista del quattordicesimo di questi cinquanta poemetti in prosa. Ma anche nell'opera maggiore di Baudelaire, le Fleurs du mal, ci sono varie poesie che esprimono la stessa idea di fondo, a cominciare dal celebre Albatros, l'uccello marino che è metafora dello scrittore, come lui prince des nuées e però exilé sur le sol, dove è oggetto dello scherno e degli scherzi dei perfidi marinai.
Su tali fondamenti, si può capire la definizione sorprendente con cui il poeta apre il sonetto Zingari in viaggio (Bohémiens en voyage): Tribù di profeti dalle pupille ardenti (tribu prophétique aux prunelles ardentes). Non vorrei si pensasse che Baudelaire si lagni di questa sua condizione di totale estraneità. Che se ne lamenti. Tutt'altro. Essa è il suo punto di forza. Solo chi è escluso può vedere cose che a tutti gli altri sfuggono. Il punto di vista dello straniero è un osservatorio privilegiato.
Le Nuvole come Simbolo di Libertà e Transitorietà
Alla domanda finale: “Eh! Che ami tu dunque, straordinario straniero?”, la risposta è sorprendente e carica di significato: “Amo le nuvole… le nuvole che passano… laggiù… laggiù… le nuvole meravigliose!”. La figura dello straniero in Baudelaire è una rappresentazione dell’alienazione e dell’estraneità che molti individui provano nella società moderna. Egli non si interessa delle cose terrene che normalmente danno senso alla vita delle persone: non ama né i genitori né la patria, né gli amici né il denaro. Questa indifferenza verso i legami umani e materiali è emblematica del disagio esistenziale e della disconnessione dal mondo circostante.
La sua risposta sulle nuvole rappresenta un’ancora di salvezza, un punto di contatto con qualcosa che va oltre il quotidiano. Le nuvole, in continua trasformazione e movimento, rappresentano la libertà assoluta e l’impossibilità di essere incasellati o posseduti. Le nuvole, in quanto oggetto dell’amore dello straniero, diventano un potente simbolo di libertà. Esse non appartengono a nessuno e non seguono alcuna regola se non quella del vento che le muove.
Questa libertà estrema, però, ha un costo: le nuvole sono anche simbolo di transitorietà, della continua mutazione e della precarietà dell’esistenza. In un mondo dove tutto è in movimento e nulla può essere veramente posseduto o fissato, le nuvole diventano l’emblema della bellezza fugace e dell’impossibilità di afferrare completamente la realtà.
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L'Estraneità e l'Assurdo in Camus
Non riassumerò ora la trama de Lo straniero di Camus; è troppo nota; basti dire che il protagonista, l'insignificante impiegato Mersault, viene condannato a morte per aver ucciso un uomo senza un perché preciso. Ma l'impiegato dalla vita insulsa, chiuso nella sua cella, in attesa dell'esecuzione capitale, diviene metafora della condizione umana nella sua interezza. Una condizione segnata dall'assurdo.
E, nel famoso saggio Il mito di Sisifo, uscito nello stesso anno, 1942, Camus spiega bene il nesso tra la figura dello straniero e la sua concezione del senso della vita: Un mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo di colpo spogliato d'illusioni e di luci, l'uomo si sente uno straniero, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa.
Alla base delle riflessioni di Camus stanno sia Dostoevskij sia Kafka. Ad affascinare il filosofo francese non è solo, nei Demoni di Dostoevskij (1873), il personaggio Kirillov, con la sua metafisica del suicidio, ma anche l'enigmatico Stavrogin. Egli è lo straniero per eccellenza. E lo afferma lui stesso, nella lettera a Dar'ja: in Russia nulla mi lega: ci sento tutto altrettanto estraneo come dovunque... non sono riuscito nemmeno a odiare nulla in essa... da me non è uscito altro che negazione.
Anche il protagonista de L'idiota (1869), l'epilettico principe Myschkin, è, a ben guardare, uno straniero, e non solo in via metaforica. Quanto a Kafka, tutta la sua opera, si sa, non è che una lunga, articolata, compatta variazione sul tema dell'estraneità. Culminata, due anni prima della morte, nel Castello (1922), l'ultimo romanzo incompiuto, postumo come gli altri due. Chi più dell'agrimensore K. incarna il ruolo dello straniero, dello Straniero? Nessuno. K. è l'archetipo dello straniero.
Ungaretti e il Sentimento di Inappartenenza
C'è però un poeta italiano del Novecento, molto noto, in cui la particolarità biografica si riflette nei testi in modo inequivocabile. Ungaretti era nato a Alessandria d'Egitto da genitori italiani (nel 1888); la sua formazione fu in lingua francese; le sue prime poesie le scrisse in francese; poi passò all'italiano; ma non sapeva bene se era francese o italiano. Tutta la sua opera, nella prima fase, esprime questo senso d'inappartenenza.
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Si sarà visto che i termini sono proprio quelli de L'étranger di Baudelaire: assenza di casa, di famiglia, di amicizie. In effetti Baudelaire, assieme a Mallarmé, è uno dei numi tutelari della prima poesia ungarettiana.
La Letteratura Italiana della Migrazione
La letteratura italiana della migrazione, cioè quella letteratura espressa in italiano da scrittori di origine immigrata o prodotta da emigranti italiani, ci parla dell’Italia in un modo inedito e inconsueto, perché assume il punto di vista di chi guarda dalla giusta distanza. Uno sguardo venuto da lontano è dentro e fuori insieme, colpisce e destabilizza: specialmente se si esprime nella nostra lingua.
Un primo aspetto da sottolineare è il doppio binario indicato dall’espressione “letteratura della migrazione”: questa rappresenta un dittico, due fenomeni distinti ma che si ricongiungono andando a chiudersi come un cerchio: la letteratura dell’emigrazione e la letteratura dell’immigrazione.
Letteratura dell'Emigrazione
La letteratura dell’emigrazione ha una storia molto travagliata: nasce con la massiccia emigrazione italiana, a cominciare dal periodo post-unitario, inizialmente verso le Americhe e poi verso paesi europei settentrionali come la Germania, e continua per anni nell’oblio, ignorata dalla critica letteraria italiana del Novecento, quasi che l’emigrazione italiana fosse un qualcosa da rimuovere, un aspetto rifiutato dall’immagine che l’Italia vuole dare di sé.
Paradossalmente, è stata proprio la nascita della letteratura dell’immigrazione a riaccendere i riflettori su questi testi e a mettere in evidenza quanto i due fenomeni siano correlati ed inscindibili: la letteratura italiana già nell’Ottocento si era aperta al mondo, e gli scrittori migranti ci riportano a questa dimensione globale e plurale della nostra letteratura.
Letteratura dell'Immigrazione
La letteratura dell’immigrazione in Italia nasce all’inizio degli anni Novanta del Novecento: in una prima fase, gli autori translingui, ovvero quegli autori immigrati che abbandonano la lingua madre per scrivere in quella del paese di accoglienza, scrivono in un italiano approssimato, prevalentemente per raccontare la propria esperienza di vita, il viaggio - non solo in senso fisico - e le proprie sensazioni, spesso traumatiche, legate all’avventura migratoria, in genere in collaborazione con scrittori autoctoni.
Si tratta di quella che Armando Gnisci definisce “prima ondata” piuttosto che prima generazione, perché l’espressione richiama meglio il riferimento all’altrove che questi scrittori portano con sé. Esempi importanti ne sono i romanzi autobiografici Immigrato,del tunisino Salah Methnani (1990), scritto con Mario Fortunato e Io, venditore di elefanti (1990), di Pap Khouma con Oreste Pivetta, e Dove lo stato non c’è. Racconti italiani (1991), di Tahar Ben Jelloun (con Egi Volterrani), che racconta il viaggio dell’autore nel sud Italia.
La “Seconda Generazione” di Scritture Migranti
I testi della letteratura migrante “di seconda generazione”, cioè quelli riferiti all’ultimo ventennio, esprimono un cambiamento e propongono vere e proprie poetiche della migrazione: non vanno letti, cioè, solo come scritture che descrivono un’esperienza migratoria, ma come testi che pongono modelli di narrazione e ideologie in grado di esprimersi al di là della tematica immigrazione.
In molti autori è avvenuto un passaggio dal figurante, cioè dalla narrazione dell’avventura migratoria e quindi dal racconto autobiografico puro, al figurale (Sinopoli 2001), cioè all’espressione di ciò che il viaggio ha prodotto: un’esperienza di sé che comprende anche la consapevolezza dell’Altro.
Dall’Autobiografia alla Narrativa
Caratteristica prevalente di queste scritture letterarie è dunque il carattere autobiografico, di cui adottano lo stile e il lessico, ma sono in grado di incrociare forme e generi diversi, che spesso vengono attraversati trasversalmente e il cui denominatore comune rimane una poetica del sentire e della transitorietà (Sinopoli 2001), che oltrepassa l’esperienza migratoria e rende possibile il loro inserimento in un sistema ipertestuale che ne permette la trasposizione in altri linguaggi mediali.
Un caso esemplare da questo punto di vista sono i romanzi di Amara Lakhous, autore, tra gli altri, di Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio (2006), (di cui è stata realizzata una versione cinematografica nel 2010, regia di Isotta Toso) e Divorzio all’Islamica (2010), testi in cui l’esperienza migratoria si inserisce nel genere giallo e si affianca ad altri caratteri (pensiamo all’eterogeneo condominio di Piazza Vittorio a Roma e alla caratterizzazione dei vari personaggi, quali, ad esempio, la portiera napoletana Benedetta).
La Poesia della Migrazione in Italia
Ecco alcuni poeti migranti: Ndjock Ngana, autore di varie raccolte di poesie, tra cui Nhindo Nero (1994), Il segreto della capanna (1998), Maeba. Dialoghi con mia figlia (2005) e La nostra Africa (2017). Nato in Camerun da una famiglia contadina di etnia basaa, fortemente impegnata politicamente nella lotta per l’indipendenza del Paese, Ngana, detto Teodoro, ha trasposto il suo impegno politico e gli echi dell’oralità africana nella sua poesia in italiano.
Il Poeta Meticcio
Filosofo, poeta e scrittore migrante che da molti anni scrive in italiano è Cheikh Tidiane Gaye, chiamato il “poeta meticcio”: di origine senegalese è stato il primo traduttore in italiano del grande poeta della Negritudine, il senegalese Léopold Sédar Senghor. Oltre alle sue numerose opere letterarie e poetiche (tra cui Rime abbracciate - L’étreinte des rimase, 2012, Curve alfabetiche, 2011, Il sangue delle parole, 2018), Cheikh ha il merito di aver creato un movimento nella società civile per promuovere la cultura, nel senso più ampio e ricco del termine, attraverso una serie di iniziative inclusive.
Secondo Mia Lecomte, studiosa di letteratura transnazionale ed esponente dell’iniziativa culturale della Compagnia delle Poete, per i migranti scrivere significa ricostruire un mondo proprio, di cui sentirsi pienamente parte, e, accantonata l’appartenenza originaria con tutto il suo universo simbolico potersi avvicinare a quello del paese di accoglienza, pur senza possederne la cittadinanza: e dichiararsi “cittadini della letteratura” (Lecomte 2006).
In conclusione, possiamo affermare la letteratura italiana contemporanea non esiste senza la letteratura della migrazione. In una prospettiva transnazionale, può essere capace di proiettare nel mondo la letteratura italofona offrendole nuova linfa vitale e spirito creativo, sia da un punto di vista linguistico che dell’immaginario.
La Parola "Straniero" e l'Identità
Designare qualcuno con la parola «straniero» ha come necessario presupposto quello di porre sé stesso in uno spazio del “dentro”. Il prefisso latino “extra” indica infatti la dimensione dell’esteriorità, dell’essere fuori o venire da fuori, il che si ritrova d’altronde anche nel termine “forestiero”. È stimolante interrogarsi sull’impiego e sull’orizzonte di una parola svolgendo l’esercizio di andarne a cercare il contrario.
Da una parte, avremo un gruppo di termini quali connazionale, compatriota, conterraneo. Il secondo gruppo di contrari rinvia altrimenti al campo dell’origine e dell’originalità: indigeno, nativo, autoctono. Senza questo significante implicito, non avrebbe senso dire dell’altro che è straniero.
Che l’altro sia straniero, che io stesso sia straniero, sono condizioni di linguaggio particolarmente dipendenti, come visto, da elementi terzi, piccolo o grande altro, senza i quali l’affermazione non terrebbe. La parola straniero, insieme ai suoi, per così dire, difettosi contrari, illustra meglio di altre la realtà descritta da Jacques Lacan per la quale “il significante, inversamente al segno, non è ciò che rappresenta qualcosa per qualcuno, è ciò che precisamente rappresenta il soggetto per un altro significante”.
Nel gioco imperfetto dei contrari, in altre parole, l’impiego del termine straniero, più che spingerci ad indagare ostinatamente che cosa si intenda dire dell’altro quando lo definiamo straniero, dovrebbe in realtà condurci a questa domanda: che cosa sono io, essendo l’altro straniero? Alcuni di questi significanti sono, ovviamente, semplici strumenti burocratici.
In fin dei conti, l’abitudine ad ignorare l’arbitrarietà del legame tra significante e significato, fino a determinare l’azione sulla base di una fragile identità, è uno dei più potenti lasciapassare per la violenza. La parola “straniero” è uno degli esempi più nitidi di come spesso perdiamo il controllo di ciò che è per sua natura incontrollabile, mossi dall’ossessione di compierci in una fantomatica identità che non abbiamo mai avuto.
La poesia, attraverso le parole di Baudelaire, Camus, Ungaretti e molti altri, ci invita a riflettere sulla nostra percezione dello straniero e sulla nostra stessa identità, aprendo la strada a una comprensione più profonda e inclusiva dell'umanità.
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