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Sociologia dello straniero: definizione e concetti chiave

In sociologia, il tema dell'estraneo non è un tema solo dei nostri giorni. Ai primi decenni del Novecento la società subisce così tante sollecitazioni a seguito di rivoluzioni industriali, globalizzazione dei mercati e politicizzazione delle masse da indurre numerosi studiosi a consolidare le basi di una nuova disciplina per poterle studiare, la sociologia.

Le trasformazioni indotte dalla inedita organizzazione dei commerci generano fenomeni migratori e portano all’attenzione dei padri della sociologia una nuova figura, lo straniero. Sarà un protagonista anche marginale per lo spazio che occupa nelle riflessioni dei sociologi ma non è marginale per l’importanza che ricopre nell’architettura dei loro pensieri.

Ecco perché la parola straniero merita attenzione. E di rado la necessità di capire è stata urgente come oggi per evitare di essere soffocati dall’immediatezza del presente. Per dare maggiore profondità al significato di straniero vale la pena attingere al ricco patrimonio della riflessione sociologica delle origini.

La figura dello straniero nella sociologia classica

Se nel 1921, quando le frontiere statunitensi chiudono all’immigrazione proveniente dall’Europa, il sociologo William Thomas offre il primo lavoro monografico sull’argomento, analizzando l’insediamento degli immigrati nella società americana, siamo solo all’inizio. Una manciata di anni dopo continua la ricerca a fianco di Florian Znaniecki studiando i contadini polacchi emigrati. Non si tratta però di casi isolati. Werner Sombart, Alfred Schütz, Norbert Elias, Robert Park, Robert Merton, prima e dopo di loro, non mancano di annotare le loro considerazioni sul tema anche se davvero pionieristico è il lavoro di uno dei padri fondatori della sociologia.

Nel 1908 Georg Simmel include l’Excursus sullo straniero nella sua immensa Sociologia. Per lo studioso tedesco ogni relazione è un’interazione che assume una forma particolare in virtù del rapporto che intrattiene con il senso di vicinanza e lontananza. Pertanto «la distanza nel rapporto - scrive - significa che il soggetto vicino è lontano, mentre l’essere straniero significa che il soggetto lontano è vicino».

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La questione diventa più cogente quanto «gli uomini si muovano da luogo a luogo», ammonisce Simmel, e questa tendenza diventa tanto più evidente nella società moderna. Lo straniero per Simmel non è un estraneo, un corpo separato. «È un elemento del gruppo stesso - continua il fondatore della sociologia -, non diversamente dai poveri e dai molteplici “nemici interni”, un elemento la cui posizione immanente e di membro implica contemporaneamente un essere al di fuori e di fronte».

Lo straniero si trova così in una situazione difficilmente collocabile. Egli «è abbastanza mobile per non fare completamente parte della comunità e abbastanza stabile perché quest’ultima si ponga il problema di definirne la posizione».

Ecco allora che lo straniero malgrado «la sua organizzazione inorganica - conclude Simmel l’Excursus - è un membro organico del gruppo, la cui vita unitaria implica il condizionamento particolare di questo elemento, soltanto che noi non sappiamo designare la caratteristica unità di questa posizione».

In parole semplici, per Simmel lo straniero costringe la società a reinventarsi incessantemente ponendosi continuamente il problema della propria forma. Lo stesso Simmel aveva scritto: I contrasti non solamente impediscono che i conflitti all’interno di un gruppo gradualmente si trasformino in qualcosa d’altro che non conosciamo, ma essi mettono a confronto classi e individui che forse non si incontrerebbero mai e danno all’ostilità la consapevolezza di ciò che rappresenta.

Diversa invece ma complementare è la questione per Roberto Michels che concepisce l’idea di comunità in termini volontaristici. Michels, tedesco naturalizzato italiano, insieme a Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto è considerato uno dei fondatori della scienza della politica. Noto per aver definito “la legge ferrea dell’oligarchia” che regola l’organizzazione dei partiti politici, Michels è però dimenticato per altri campi di studio.

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Da buon allievo di Max Weber si è occupato di economia, storia delle idee e, nei suoi Prolegomena sul patriottismo del 1933, di Sociologia dello straniero, che ora Aragno pubblica in maniera autonoma. Seppur cedendo a alcune mode dell’epoca, il sociologo italo-tedesco traccia una ampia fenomenologia dello straniero mettendo in luce come le dinamiche di accoglienza e di rifiuto a cui è sottoposto dipendano sia da lui sia dal tipo di società di arrivo.

Michels non esita a riconoscere come «lo straniero sia il rappresentante dell’ignoto, e l’ignoto significa assenza di associazione. Indi suscita una specie d’ansia che può andare fino all’antipatia» ma quando «l’ambiente stesso non lo sente più come forestiero» diventa possibile l’inclusione nella nuova realtà.

La chiave di questo avvicinamento per Michels è l’Einfühlung che noi traduciamo con empatia, «l’addentrarsi imitativamente nell’elemento straniero» e diventa possibile purché scattino reciproci movimenti di comprensione dettati dalla volontà. Michels non è ingenuo. Sa bene che non è facile ma sa anche che i nuovi arrivati possono esse cittadini ottimi, «forse superiori alla media degli stessi connazionali, i quali per appartenere alla medesima comunità nazionale non hanno avuto altro merito che quello di nascervi».

Integrazione e identità sociale

In breve, la presenza dello straniero mette in luce, volenti o nolenti, i meccanismi di definizione del Sé e dell’Altro da Sé, circostanza che fa venire alla luce le modalità esistenti a proposito di integrazione e di assimilazione. Soprattutto, può avere un’idea diversa sul modo di riferirsi all’essere umano e alle sue condizioni sociali di esistenza.

In breve, per la Social Identity Theory (SIT) il gruppo è il luogo di origine dell’identità sociale. La SIT è stata sviluppata in Inghilterra da Henri Tajfel e John C. Poi osservava come, del tutto spontaneamente, i soggetti assegnati ai due gruppi iniziassero a auto-percepirsi come se fossero un gruppo diverso, migliore dell’altro.

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Il concetto sociologico di “integrazione” è storicamente centrato sul processo di avvicinamento e sulle dinamiche di incontro tra una società ricevente ed una sopraggiunta componente di popolazione immigrata. Tale incontro, solitamente concepito e descritto come problematico per la difficoltà di assorbire all’interno della società maggioritaria persone “diverse” ed esterne al suo spazio politico e socio-culturale, risulta caratterizzato da una (spesso inquieta e turbata) rappresentazione di una distanza dello “straniero” dalla cultura dominante.

In effetti, pur in presenza di una grande varietà (per modalità, tempi, profondità e risultati) dei fenomeni di integrazione secondo i paesi di destinazione, le specifiche minoranze implicate e le particolari circostanze storiche e politiche, sembra esservi una costante nel tempo e nello spazio: l’integrazione tende, in passato come oggi, ad essere rappresentata e agita molto più come processo di adattamento unilaterale dei nuovi arrivati al contesto ospitante che come scambio culturale e interazione tra immigrati e autoctoni.

Solitamente la società di destinazione immagina e articola l’inserimento dei migranti come funzionale e non “dannoso” ai suoi interessi e ai suoi assetti politici e socio-economici, secondo un punto di vista unicamente basato sullo sguardo, le esigenze e le logiche del paese di immigrazione.

Si tratta di una declinazione difensiva della “questione” dell’integrazione, che coniuga la riaffermazione anacronistica di una supposta solidità ed omogeneità nazionale e l’irrigidimento dei propri “modelli” politici e sociali, con un’idea dei migranti come soggetti, nel migliore dei casi, da “acculturare” e portare “al livello” dei cittadini autoctoni e, nel peggiore, da includere gerarchicamente nel mercato del lavoro e comprimere e disinnescare nelle loro esplicite ed implicite richieste di trasformazione sociale, politica e culturale.

In questa epoca di confusione politica e culturale, di smarrimento e di forte deterioramento delle certezze sociali, economiche e politiche delle società europee, infatti, si sono decisamente accentuate rigidità, ostacoli, barriere e confini ai processi di integrazione, come più in generale alla migrazione tout court.

Per un verso, è aumentata la pressione verso i migranti per uniformarsi a modelli civici sempre più stringenti ed a requisiti di non facile ottemperanza anche per una parte dei cittadini autoctoni, come è evidente nel modello della civic integration, ormai diffuso in moltissimi paesi europei, la cui idea sottostante è che il migrante sia un soggetto da controllare in quanto potenziale minaccia alla sicurezza e all’integrità nazionale sottoponendolo a continui “tagliandi” di idoneità.

Sembra di trovarci, in tal senso, di fronte ad una concezione e ad un dispositivo fortemente selettivo dell’integrazione e della cittadinanza, organizzato su diversi livelli concentrici di natura sia giuridica che materiale, che filtra e dosa ingressi (peraltro oggi quasi tutti sbarrati), diritti, accesso al welfare, ma anche collocazione lavorativa e mobilità sociale.

E ciò avviene, perlopiù, sulla base di decisioni spesso arbitrarie, come nella concessione del diritto di asilo, o legate al caso e alla fortuna, come nel caso del possesso di un contratto di lavoro regolare necessario a non ricadere nell’irregolarità o, addirittura, all’eroismo del “bel gesto”, quando cittadinanza o permesso vengono elargiti al singolo migrante come premio al merito (per salvataggi di persone, blocco di malviventi, rischio o addirittura perdita della propria vita).

In sostanza, nel pensiero politico e istituzionale e nell’opinione pubblica la questione dell’immigrazione e dell’integrazione sembra aver subito un doppio movimento. Da una parte, da problematica complessa, multiforme - e persino appassionante - caratterizzata dal contatto tra molteplici componenti di popolazioni straniera ed autoctona, si è ridotta alla rappresentazione e alla gestione emergenziale degli ingressi irregolari via mare e via terra, concentrandosi su una minoranza e contraendo allo stremo la sua capacità di visione.

In questo scenario non sembra più esservi spazio per una reale o dichiarata disponibilità della società di ricezione a farsi cambiare dall’immigrazione, e la popolazione autoctona appare, per quanto allarmata e continuamente aizzata ad opporsi ad una società pluriculturale e meticcia, sostanzialmente non direttamente implicata e quindi deresponsabilizzata rispetto al tema dell’integrazione e dell’inclusione dei migranti.

In questo caso, l’immigrazione non è tanto la causa quanto una delle spie, per quanto distorta ed occultata, dei processi e dei problemi che toccano ed affliggono l’intera popolazione. Ed è perciò anche una preziosa cartina di tornasole attraverso cui leggere lo stato di salute della nostra società tutta.

Siamo invece convinti che i processi più sopra abbozzati e più in generale le dinamiche che caratterizzano il mondo dell’immigrazione, se letti criticamente e fuori dal senso comune imperante, possano dirci molto su di noi, sulla nostra società, sullo stato dei nostri impianti giuridici, organizzativi ed etici, sulle nostre vicende politiche e socio-culturali, sul benessere o sul malessere della popolazione.

A patto, però, di distogliere uno sguardo prevenuto ed ossessivo dai migranti per rivolgerlo anche verso la “controparte”, di utilizzare la “questione migratoria” per guardarci dentro e riflettere, in un certo senso di usare lo “sguardo migrante” sul nostro mondo come metodo, come chiave interpretativa sulle società “ospitanti”.

I livelli su cui riteniamo che la questione dell’integrazione ci interpelli e le relative domande che proponiamo di esplorare in questa sede sono essenzialmente due: “che cosa il modo in cui ci rappresentiamo e comportiamo con i migranti può dirci su noi stessi?” E poi: “in che modo la condizione del migrante è o può/potrà essere anche la nostra?”

Il primo livello lavora sul piano della differenza e focalizza la dialettica noi/altri come l’asse su cui leggere in senso inverso tale dialettica: non come sono e devono essere i migranti ma come noi ci rapportiamo alla diversità, sia dal punto di vista materiale che di rappresentazione; il secondo tematizza il piano della somiglianza e delle comunanze: in che cosa siamo simili ai migranti e cosa condividiamo con loro nel complicato rapporto con il mondo contemporaneo. Come l’integrazione dei migranti ci parli in realtà di noi.

Si invita a utilizzare il tema dell’immigrazione/integrazione come una sorta di “liquido di contrasto” con cui leggere il “corpo della nazione”, riflettendo criticamente su leggi, disposizioni, attitudini e comportamenti pubblici e privati verso i migranti come qualcosa che tocca nel profondo il nostro modo di essere, agire, costruire ed immaginare le relazioni, il potere, la giustizia, il presente ed il futuro della nostra società.

Addentrarsi in questo gioco di rimandi significa, ad esempio, chiedersi che cosa i processi di disumanizzazione del migrante raccontano rispetto alla cultura solidale e umanistica del nostro paese, di matrice cattolico-sociale come laico-progressista; che approcci e logiche seguano le istituzioni ed il pensiero di stato quando trattano con categorie diverse di cittadini; fino a che punto, all’interno di una più generale precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro, i meccanismi del “mercato” e le logiche estrattive del capitalismo neoliberista si possono spingere nello sfruttamento delle persone; che cosa succede all’immaginario popolare e alla capacità di discernere dell’opinione pubblica di fronte all’immigrazione e più in generale rispetto all’altro da sé, alle diversità, alle vulnerabilità.

E poi, ancora e non necessariamente in negativo, come le differenze territoriali del nostro paese contano ed orientano le condizioni e le pratiche di integrazione; se e come la cultura dell’infanzia nel nostro paese abbia orientato approcci e trattamenti verso i minori stranieri e le loro famiglie; quali sono le tensioni e gli umori del mondo solidale, antirazzista, umanitario, e molto altro.

Se per “integrazione” consideriamo quella complessa navigazione di ciascun individuo tra sé ed il contesto circostante, e se per “straniero” intendiamo quella umana condizione di esclusione o non appartenenza, la sensazione di non adesione ed estraneità a ciò che succede fuori dal proprio spazio privato, un intero campo di considerazioni, anche molto concrete, si apre.

La ripresa massiccia dell’emigrazione dei giovani italiani verso l’estero, le difficoltà di integrazione di una parte importante della popolazione italiana nel mercato del lavoro, le problematiche di convivenza e coesione sociale sui territori, le difficoltà di appartenenza culturale, valoriale e psicologica ad una “comunità” da parte di tanti cittadini, tra cui le giovanissime generazioni con le loro culture giovanili incentrate sui social media, le tecnologie e le relazioni fra pari: si tratta di elementi che costituiscono un terreno comune di esperienza e di condizioni materiali, largamente condiviso con la componente della popolazione migrante, che indica come anche la popolazione italiana risulti per molti versi “straniera a se stessa” ed al mondo sociale e politico circostante e si trovi anch’essa variamente collocata sulla scala delle opportunità, della mobilità sociale, dei diritti materiali, della accettazione sociale, della violenza strutturale e dell’espatrio.

Se poi si considera che il saldo migratorio stagnante e quasi negativo dell’Italia è causato non solo dagli impedimenti all’ingresso e alla stabilizzazione, ma anche dall’allontanamento volontario degli immigrati dal nostro paese (che sia dovuto a ritorni in patria o a nuove migrazioni), il fallimento dell’integrazione prende qui una luce ancora più sinistra, bifronte.

Più in generale ed in conclusione, si tratta di andare al cuore della questione: liberare le migrazioni dall’idea che costituiscano un cataclisma esterno da cui difenderci per considerarle, invece, come un fenomeno transnazionale che è parte dello scenario contemporaneo e che riguarda in molti modi anche noi come individui, cittadini, consumatori, italiani ed europei.

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