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Morte di un commesso viaggiatore: un'analisi del capolavoro di Arthur Miller

Ci sono capolavori che il pubblico conosce e ama; altri, meno numerosi, che la gente sente cuciti addosso, come si trattasse di un vestito su misura, che pure dà prurito. Morte di un commesso viaggiatore, scritto da Arthur Miller e pubblicato nel 1949, appartiene senz'altro a questa seconda categoria.

La trama e i temi principali

Morte di un commesso viaggiatore è una storia di fallimenti in un mondo che si ostina a non contemplare le difficoltà. Lo spettacolo affronta i temi del conflitto familiare, della critica al sogno americano e della responsabilità morale dell’individuo. Il contesto che si rivela è quello in cui l’unica cosa che conta veramente è la creazione del profitto.

Il mondo è quello in cui ancora oggi siamo immersi. Da questo punto di vista nulla è cambiato dal 1949, anno di pubblicazione del capolavoro di A. Miller, ad oggi. Anzi, tutto è peggiorato. Sprofondato. Morte di un commesso viaggiatore racconta benissimo ancora oggi gli scarti umani, familiari e sentimentali che produce il glorioso capitalismo. L’America di ieri e di oggi, quella del sogno americano, ma anche quella della ideologia trumpista: Make America Great Again!

Liberalismo estremo, competitività, fanatismo, materialismo, consumismo. Tutto si mischia nel mito americano. Ma se l’unico obiettivo della corsa è arrivare primi, quali reali possibilità rimangono per gli ultimi? La risposta di Miller chiude le porte alla luce e alla vita. La morte (anch’essa da capitalizzare con il riscatto dell’assicurazione) è l’unica possibilità che rimane a chi non arriva primo. È l’unica possibilità del commesso viaggiatore.

L'intreccio tra realtà e allucinazione

Il telone sul palco che accoglie gli spettatori, fin da prima che lo spettacolo abbia inizio, parla chiaro: raffigura il profilo grigio e caliginoso d’una metropoli qualsiasi, con tanto di grattacieli e fumi. Poi il telo viene sollevato e la recita comincia: siamo nella New York degli anni ’40 del Novecento.

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Willy Loman - interpretato da un indiscutibile Michele Placido in alcune versioni teatrali - è un anziano commesso viaggiatore nella misura in cui si guadagna da vivere andando a vendere stoffe girando su e giù per il New England, avvalendosi della sua parlantina e della sua fiducia nelle proprie capacità di convincimento. Per tutta la vita ha inseguito il sogno americano del successo e della felicità a tutti i costi, quella che consiste nel vedere che c’è qualcuno dietro di sé per potersi sentire superiori e poter vantare, davanti agli altri e a se stessi, di essere qualcuno che conta nella società, qualcuno che le persone rispettano e di cui ammirano le abilità professionali, nonché lo status economico.

Diciamolo subito, senza giri di parole: Willy non ce l’ha fatta; non ha raggiunto quella felicità tanto vagheggiata e inseguita, con una tenacia a tratti allucinata. Continua difatti a sperare che la svolta della sua vita sia imminente e che basterà un nonnulla - un incontro, quello giusto, una conversazione, una settimana - per realizzarla. Altre volte riversa questo sogno, incallito e duro a morire, sui figli, che educa in maniera vacua, senza offrirgli il valore della fatica e della lealtà. Tutto ciò che conta, non si stanca di ripetere ossessivamente, è farsi benvolere dalla gente, così da riuscire ad intercettare i contatti utili a fare carriera e ad avanzare nella scala sociale; che è mobile tanto quanto traballante.

La trama si dipana in un intreccio di epoche e ambientazioni diverse. La scenografia risulta, a ben ragione, dinamica; rappresenta l’interno di un’abitazione le cui pareti vengono di continuo ora chiuse ora aperte dagli attori in scena, così da simulare l’avvicendarsi di luoghi e ricordi diversi.

La famiglia Loman: un ritratto di disillusione

Nemmeno i due figli maschi, tuttavia, riusciranno a diventare qualcuno. Uno lavora senza grandi soddisfazioni e passa da una relazione sentimentale all’altra, senza cura e senza rispetto. L’altro, che è il personaggio forse più complesso, si sente inadeguato ai ritmi lavorativi, frenetici e spasmodici, che gli impediscono di godersi le piccole cose della vita: il sole in faccia e un bagno al mare. Sembra quasi rivendicare la libertà di non voler essere ambizioso, il che suona come un’eresia alle orecchie del padre e dell’intera società che lo guarda.

Lo stanco venditore, dal canto suo, solo a tratti e per poco riesce a contentarsi della vita che nei fatti conduce; della moglie - un’Alvia Reale che dà l’ennesima prova di un’interpretazione superba - che è sempre lì a cercare di consolare le sue frustrazioni, accudendole con tutto l’amore e l’abnegazione di una sposa totalmente dedita al marito. Le delusioni e gli slanci che il (troppo) grande sogno americano induce e inculca sono ben presenti agli spettatori, tanto ieri quanto oggi.

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Il crollo di Willy Loman

Willy Loman è ormai giunto quasi al termine di una lunga carriera in qualità di commesso viaggiatore di una importante società, ma ad un tratto tutto sembra cadergli addosso. La sua vita, costellata di rate e di cambiali, uno dei figli (Happy) conclude poco e forse si sposerà presto, l'altro (Biff), da sempre in urto con il padre (che tutto aveva puntato sulle possibilità di sportivo), dopo vari vagabondaggi è rientrato deluso a casa, ma non ha né lavoro, né prospettive.

La moglie di Willy - Linda - è una donna dimessa, querula e assillata dalle preoccupazioni quotidiane. Willy continua pervicacemente a credere nel proprio lavoro e nelle buona relazione che, a suo dire, ha stabilito da anni con la clientela, ma in realtà è un fallito, perduto dietro ad impossibili sogni di modesti successi. Il crollo avverrà quando Howard Wagner, il titolare della società in cui da trentacinque anni Loman lavora, lo licenzia da un giorno all'altro.

Loman è ormai un uomo invecchiato ed usurato, che aveva tentato di proiettare tutto se stesso nei due figli, senz'altro sfortunato (mentre al più spericolato suo fratello le cose sono andate molto bene) e tanto orgoglioso da rifiutare, a lavoro perduto, la mano offertagli dal vecchio amico Charley, che negli ultimi tempi ha praticamente provveduto, una settimana dopo l'altra, al suo sostentamento. Il prediletto Biff, dopo l'ennesima, amara disputa con il padre, lascia per sempre la famiglia.

Non resta a Loman che la triste ipotesi del suicidio: il capitale coperto da una polizza assicurativa permetterà almeno a Linda di vivere una dignitosa e più tranquilla vecchiaia.

L'attualità della critica al grande sogno americano

La prima volta che andò in scena Morte di un commesso viaggiatore, nel 1949, alla fine dell’ultima replica successe una cosa anomala.

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“Papà sbagliava i sogni.” Bastano queste quattro parole - pronunciate da Biff alla fine del dramma - per raccontare l’intera parabola tragica di Willy Loman, protagonista di Morte di un commesso viaggiatore di Arthur Miller.

Willy è un uomo qualunque. Lavora da una vita, si spezza la schiena, crede nei valori del successo e della famiglia. Ma quando arriva alla vecchiaia, si accorge di non aver ottenuto nulla di ciò che sognava. È un commesso viaggiatore - un venditore - che ha passato la vita a macinare chilometri per vendere i suoi prodotti. Ma quando si alza il sipario, di quel sogno rimangono solo le macerie.

Tornato a casa dopo l’ennesima giornata fallimentare, inizia a confondere i ricordi con la realtà. Si rifugia nel passato, nel ricordo dei figli bambini, quando tutto sembrava ancora bello, ancora possibile. I suoi figli, però, non sono quelli di una volta. E non sono diventati quello che lui sognava. Happy si accontenta di una vita vuota, senza ambizione. Biff, che sembrava destinato al successo, ha lasciato tutto per fare il bracciante. Il loro rapporto è ormai spezzato.

Il loro punto di rottura ce lo racconta un flashback centrale: Biff scopre che il padre ha un’amante. L’idolo crolla. E con lui crolla anche il sogno. È un momento importante, perché rende Biff un disilluso, dove nulla ha più senso! E per noi spettatori è l’occasione per riflettere sul mito del Sogno Americano: è una promessa o una trappola?

Intanto Willy Loman è un uomo sempre più confuso e disperato. Si rende conto che non riesce più a svolgere la mansione che ha sempre portato avanti. E così, convinto da sua moglie Linda, chiede un lavoro più leggero. Ma viene licenziato.

Ora, la sua unica speranza rimasta è che Biff, il figlio prediletto - quello su cui aveva scommesso - abbia successo. Ma Biff ha smesso di credere al Sogno Americano già da tempo. Rifiuta quel modello di vita e affronta suo padre in una delle scene più dolorose di Morte di un commesso viaggiatore. “Io non valgo niente papà, e nemmeno tu!”

Tutto si ferma. Happy e Linda assistono inermi a quella sfuriata. Biff crolla e inizia a piangere come un bambino. Willy è incredulo. È una verità brutale e proprio in quell’istante Willy, per la prima volta, sembra davvero capire Biff!

Ma la sua lucidità dura un momento. Willy Loman tornerà preda del Sogno Americano, che ora prende le sembianze del defunto Ben, il fratello che ha fatto fortuna! In uno dei suoi momenti in cui confonde il passato con la realtà, Willy prende una decisione estrema. Si toglie la vita, forse sperando che l’assicurazione garantisca un futuro migliore alla sua famiglia. Forse sperando che, almeno da morto, possa valere qualcosa.

Willy Loman: un personaggio tragico e moderno

Il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore è un personaggio tragico. Ma nel senso più moderno del termine. Non ha infatti la classica evoluzione che spesso hanno i protagonisti delle buone storie. Non migliora, non capisce i propri sbagli… Eppure, è uno dei personaggi teatrali più intensi e memorabili… come mai?

Beh, perché Arthur Miller, con il suo Willy Loman rappresenta il lato malato del Sogno Americano. Ci fa vedere tutte le sue storture: l’ossessione per l’apparenza, il culto per il successo a tutti i costi, il mito del “se vuoi, puoi”!

Arthur Miller non ci fa sconti: vediamo tutti i fallimenti di Willy, le sue fragilità e i suoi errori! Eppure, alla fine, non riesci a giudicarlo. Perché Willy Loman è buono, è un uomo che - con tutti i suoi limiti - si è sempre fatto in quattro per la famiglia! E che arrivato a sessant’anni si rende conto di non avere niente in mano, di non aver concluso niente.

La grandezza di Arthur Miller sta tutta qui: raccontare un fallimento, senza condannarlo. Farci provare empatia per un uomo perduto, senza chiedere compassione. In una parola, Arthur Miller racconta Willy Loman con umanità.

Interpretare Willy Loman: consigli per attori

Arthur Miller ha scritto un personaggio memorabile, in cui ancora oggi possiamo rispecchiarci. Ma cosa possiamo fare noi attori per renderlo altrettanto potente sulla scena? A mio avviso, è necessario lavorare su tre diversi livelli:

  1. Livello Fisico

    Willy è un uomo stanco, piegato dalla vita, ma si sforza di sembrare ancora forte. La tua postura, il tuo respiro e il tuo modo di camminare non devono imitare un uomo anziano e stanco. Devono mostrarci un anziano che lotta per sembrare ancora forte!

  2. Livello Emotivo

    Willy Loman, per tutta la durata del dramma oscilla tra l’euforia e la disperazione. L’euforia emerge nei flashback e nei momenti in cui i ricordi si confondono con il presente. La disperazione invece compare nei momenti di consapevolezza.

  3. Livello Psicologico

    Willy Loman è un uomo perso, confuso. La sua mente è debole. Parla con fantasmi, ricorda il passato, rimuove il presente. Per rendere autentico questo personaggio, devi studiare per bene ogni sua battuta. Capire il significato che c’è dietro le parole, capire il sottotesto.

Curiosità: chi ha ispirato Willy Loman?

Willy Loman non è solo frutto della fantasia. Arthur Miller si è ispirato a due figure reali: lo zio Manny Newman, venditore competitivo ossessionato dal successo, e il padre Isidore, imprenditore caduto in rovina durante la Grande Depressione. Il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore è perciò la perfetta sintesi delle loro fragilità, dei loro sogni infranti, del loro bisogno disperato di contare qualcosa.

Un messaggio che ci riguarda tutti

Oggi non rincorriamo più le provvigioni. Rincorriamo i like. Le visualizzazioni. L’attenzione. Ma l’inganno è lo stesso. Ci convincono che per valere qualcosa dobbiamo funzionare, produrre, essere visibili. E se non piaci? Se smetti di funzionare? Sei zero. Non conti niente. Willy Loman è l’emblema tragico di questo inganno. La sua storia non è vecchia. È attuale.

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