Troppi Stranieri Genitori di 12 Bambini: Statistiche e Integrazione Scolastica in Italia
Il contesto scolastico pratese si presenta oggi come uno dei più significativi laboratori per l’inserimento e l’integrazione degli alunni stranieri in Italia.
L'Immigrazione Straniera a Prato: Un Caso Studio
Prato è una delle città italiane con la più alta incidenza di cittadini stranieri. L'immigrazione straniera è cominciata a Prato all'inizio degli anni '90, con l'arrivo di numerosi cinesi, e si è sviluppata rapidamente assumendo una incidenza sempre più rilevante sulla popolazione. Se nel 1990 risultavano iscritti, per la prima volta, all'anagrafe comunale circa un migliaio di residenti stranieri, già alla fine del decennio essi superavano ampiamente le 7.000 unità. Questa forte immigrazione ha determinato un significativo incremento degli abitanti della città, compensando largamente il calo demografico degli italiani. Alla connotazione accentuatamente multietnica degli abitanti di Prato (circa il 12% di stranieri tra i soli residenti iscritti all'anagrafe) hanno contribuito, in primo luogo, i cittadini cinesi, cui, dalla metà degli anni '90, hanno cominciato ad affiancarsi prima gli albanesi e i marocchini e, poi, i pakistani, richiamati dalla crescente richiesta di forza lavoro straniera nelle industrie locali. Consistente, negli ultimi anni, è stato il tasso d'incremento per ognuno dei cinque gruppi.
La Presenza di Alunni Stranieri nelle Scuole di Prato
Lo sviluppo dell'immigrazione straniera a Prato nel corso degli anni '90 ha coinvolto sempre più le scuole presenti nel territorio. Secondo i dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione nell’anno scolastico 2005/06 nelle scuole di ogni ordine della provincia di Prato i giovani migranti erano 3.589 e costituivano il 11,4% del totale degli alunni iscritti. La loro presenza è inoltre in rapido aumento: l’incremento dall’anno scolastico 2002/03 è infatti del 56,6%. Un ulteriore indicatore del livello di concentrazione a Prato dei ragazzi le cui famiglie provengono dalla Cina è dato dal confronto con le loro presenze a livello nazionale. Secondo i dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione nella provincia di Prato nell’anno scolastico 2005/06 era concentrato quasi il 7 % del totale dei ragazzi cinesi presenti in Italia.
Distribuzione Provinciale degli Alunni Cinesi (a.s. 2005/2006)
Di seguito, una tabella che illustra la distribuzione provinciale degli alunni cinesi nell'anno scolastico 2005/2006:
Provincia | Percentuale del Totale Alunni Cinesi in Italia |
---|---|
Prato | Circa il 7% |
Il Mondo dei Bambini e dei Ragazzi Cinesi a Prato
Il mondo dei bambini e dei ragazzi cinesi presenti nelle scuole di Prato è un universo fluido e in continuo cambiamento. Accanto ai minori che lasciano la Cina e le figure affettive di riferimento per raggiungere uno o entrambi i genitori emigrati, è in costante aumento anche il numero dei ragazzi, figli di migranti cinesi nati in Italia e sempre vissuti in Italia. "Ciò che accomuna i bambini e ragazzi con progetti e storie così diversi è il vissuto - reale o simbolico- della migrazione, intesa non solo come spostamento da un luogo di vita ad un altro, ma anche come cambiamento profondo, ridefinizione dei legami di filiazione, delle appartenenze e della fedeltà. Cambiamento che si traduce spesso in sentimenti ambivalenti di perdita e di separazione che influenzano i riferimenti allo spazio e al tempo, al paese d'origine e al paese d'immigrazione, l'immagine di sé, la cultura del quotidiano, le pratiche linguistiche".
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Il ragazzo cinese che arriva in Italia per ricongiungimento familiare può attraversare, durante la prima fase del suo arrivo, un momento di "sradicamento" segnato da fratture e cambiamenti improvvisi. L'attesa di una nuova vita da condividere con il padre emigrato (o con la madre, o con entrambi i genitori partiti qualche anno o molti anni prima) si accompagna all'ansia, al senso di perdita dei legami affettivi stabiliti con le figure di riferimento che lo hanno cresciuto fino a quel momento. La fase immediatamente successiva all'arrivo è, quindi, per il ragazzo "ricongiunto" segnata da cambiamenti improvvisi, vulnerabilità e tentativi di ridefinire la propria appartenenza fra fratture e incontri. Con l'iscrizione a scuola comincia per il ragazzo nuovo arrivato anche la formazione di una nuova identità, definita di volta in volta come identità "sospesa, multicolore, a mosaico, soggetta a rotture, ambivalenze, vulnerabilità. Identità che ha a che fare con la condizione esistenziale e psicologica dell'essere e del sentirsi 'tra': tra due culture e due mondi, tra due lingue e riferimenti, tra le aspettative della famiglia e le richieste della scuola".
Ai ragazzi cinesi può pesare anche la mancanza di una casa vera e propria. Spesso i ragazzi, infatti, vivono insieme alla famiglia nei laboratori dove lavorano i genitori e condividono gli spazi con gli altri operai e i loro figli. A volte si crea la possibilità di ricavare uno spazio individuale, ma nella maggior parte dei casi la vita personale si interseca con la vita del laboratorio e segue i tempi di lavoro degli adulti. Anche nel caso in cui i ragazzi vivano in una casa separata dal laboratorio, i ritmi dell’economia etnica lasciano comunque poco spazio ai momenti di condivisione familiare, e i ragazzi passano gran parte della giornata da soli. Queste situazioni portano spesso a responsabilizzare molto i figli maggiori che devono prendersi cura dei fratelli più piccoli. Una volta giunti in Italia si trovano, anche, a dover fare quotidianamente da interpreti per le famiglie, che dipendono da loro anche per le pratiche burocratiche di ordinaria amministrazione. In molte occasioni succede anche che un ragazzo che parla l'italiano meglio dei genitori si trovi costretto a gestire in prima persona situazioni traumatiche, e in questi casi il carico di responsabilità che i genitori sono costretti a delegare al figlio può portare con sé conseguenze pesanti perché provoca un rovesciamento dei ruoli particolarmente dannoso per gli equilibri familiari. Da un lato gli adulti si ritrovano confusi e pervasi da un senso di fallimento per la perdita di prestigio e autorevolezza.
Nei ragazzi di seconda generazione presenti a Prato la lingua del paese d’origine rimane comunque la lingua dominante nella comunicazione. I ragazzi vivono, quindi, in una realtà di plurilinguismo in cui mescolano il putonghua nel rapporto con gli amici, il dialetto, anche se in misura sempre minore, nel rapporto con i genitori e con altri adulti e l’italiano a scuola. Raramente i ragazzi continuano a studiare il cinese scritto una volta in Italia, disincentivati spesso dalle famiglie stesse a favore dell’italiano, altri, invece, non hanno nessun tipo di competenza scritta. Il legame con la Cina e la lingua è rafforzato anche dalla facilità di fruizione e reperimento di film, riviste e di musica cinese così come l’uso delle chat per mantenere o stabilire nuovi rapporti con i coetanei in Cina.
Iniziative Scolastiche e Integrazione: Un Percorso in Evoluzione
“Nel 1989 comparve nella nostra scuola media il primo alunno cinese. A partire dal 1997-98 sono iniziati, invece, i primi arrivi consistenti di alunni immigrati per effetto dei ricongiungimenti familiari, ma le scuole non disponevano ancora di strumenti adatti per accogliere ed integrare i nuovi studenti la cui presenza non era più percepita con “curiosità”, ma è diventata col tempo un fenomeno che ha assunto una rilevanza tale da porre problemi nella didattica, nella modalità di relazione e nell’organizzazione scolastica.
Nella realtà di Prato, da un punto di vista pratico, si è ricorsi, inizialmente, a degli insegnanti sopranumerari, quasi sempre insegnanti di Educazione tecnica senza cattedra utilizzati nelle scuole per progetti di alfabetizzazione. L’offerta formativa della scuola non poteva assolvere da sola agli obiettivi di integrazione, quindi, in coerenza con la normativa nazionale e regionale nell’ambito della programmazione territoriale, a Prato l’Assessorato alla Pubblica Istruzione e alla Sicurezza Sociale tramite il Centro Ricerche e Servizi per l’Immigrazione, interviene nelle scuole dal 1994 per favorire l’integrazione degli alunni nel rispetto del diritto all’istruzione.
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Rispetto agli attori coinvolti nell’organizzazione e nell’implementazione dei primi laboratori di italiano L2, in contemporanea con gli insegnanti sopranumerari, sono stati inseriti nelle scuole insegnanti cinesi che parlassero l’italiano e laureati in cinese anche senza esperienza didattica e nessuna formazione specifica nell’insegnamento delle lingue seconde. Contemporaneamente sono stati organizzati dal COSPE dei laboratori di intercultura. Nel 2000 il Comune di Prato ha stilato una graduatoria di insegnanti da poter mandare nei laboratori, basandosi principalmente sulla conoscenza del cinese, e questo ha portato alla creazione di una figura ponte tra quella del mediatore culturale e del facilitatore, il cui compito è stato quello di organizzare i laboratori di italiano L2 e di essere il mediatore di riferimento per ogni scuola nelle diverse situazioni richieste, ossia traduzione degli avvisi scolastici, interpretariato durante i colloqui con i genitori e durante la consegna delle pagelle e mediazione nel rapporto scuola-famiglia.
A partire dal 2004 il Centro ha iniziato a inserire nell’organico nuovi insegnanti privilegiando la loro conoscenza delle teorie e delle tecniche di insegnamento dell’italiano L2, senza necessariamente conoscere la lingua cinese. Questo cambiamento ha portato da un lato ad un innalzamento della qualità dell’intervento nelle scuole e ad una definizione più chiara del ruolo del facilitatore dell’apprendimento distinto dal ruolo del mediatore culturale, ma dall’altro è stato vissuto nelle scuole, soprattutto nel primo periodo, come perdita di una risorsa importante. Il Comune, infatti, offriva e offre tuttora, la possibilità di ricorrere a dei mediatori, ma nelle scuole con un alto tasso di presenza di alunni cinesi gli interventi di mediazione e di traduzione sono quasi quotidiani e non è prevista una presenza così massiccia di un mediatore nella scuola. Nel novembre 2006, infine, è stata stilata dal Comune di Prato una nuova graduatoria di facilitatori scelti sulla base dell’esperienza di insegnamento e delle competenze didattiche, senza dare alcun punteggio alla conoscenza del cinese. Questa scelta è sicuramente in linea con la definizione della figura del facilitatore dell’apprendimento, ma in una realtà specifica come Prato la presenza di un facilitatore linguistico e culturale, che non solo ha competenze glottodidattiche e nell’insegnamento dell’italiano L2, ma che conosce anche la cultura e la lingua di origine degli alunni che sono in queste scuole per la maggior parte cinesi, permette di organizzare un intervento più strutturato e rispondente ai bisogni sia degli alunni che della scuola.
Rispetto alla tipologia dei laboratori attivati nelle scuole la maggior parte delle ore sono state utilizzate per i laboratori linguistici permanenti rivolti a studenti inseriti nella scuola primaria del secondo ciclo e nella scuola secondaria di primo grado di livello A1-A2. Sulla base dei progetti formulati nelle scuole, sono stati previsti anche laboratori interculturali aperti anche a studenti italofoni all’interno dei quali sono stati trattati argomenti in ottica interculturale volta al recupero dell’identità (lingua e cultura d’origine) e di alcuni aspetti personali legati al passato degli studenti stranieri da condividere con gli alunni italofoni. Col tempo è emersa anche l’esigenza di un intervento più mirato sulla lingua dello studio e sono stati organizzati nelle scuole laboratori disciplinari in modalità intensiva o decrescente all’interno dei quali il facilitatore approfondiva un settore ridotto di una disciplina di studio, sviluppando il lessico specifico della disciplina e i concetti e le procedure da poter utilizzare anche in classe. Rispetto a questo tipo di laboratorio la criticità maggiore è sempre stata legata alla difficile collaborazione con il docente della disciplina.
Dispersione Scolastica e Minori Stranieri: Un Quadro Nazionale
La dispersione scolastica in Italia è un fenomeno profondo e preoccupante, che mette a rischio il futuro di migliaia di bambini. Garantire a ogni bambina e bambino, ragazza e ragazzo l’accesso a un’istruzione di qualità significa rendere effettivo un diritto fondamentale che incide sulla possibilità concreta di scegliere il proprio futuro. L’istruzione, nella sua accezione più piena, è uno strumento di emancipazione individuale e collettiva: serve a costruire cittadinanza, a ridurre le disuguaglianze, a spezzare la trasmissione intergenerazionale della povertà. Soprattutto, serve a realizzare pienamente sé stessi, i propri talenti, le proprie potenzialità. Eppure, in Italia, il diritto all’istruzione continua a essere disatteso per una quota rilevante di giovani. Contrastare la dispersione scolastica significa dunque rendere effettivo il diritto all’istruzione per tutti, a partire dai più fragili.
Tra i termini più utilizzati in ambito tecnico c’è drop out scolastico, espressione mutuata dal contesto anglosassone che, nella comunicazione pubblica e giornalistica, viene spesso usata in modo generico per indicare chi esce precocemente dal sistema formativo. In realtà, il drop out è solo una delle forme possibili di dispersione, e coincide con l’abbandono scolastico vero e proprio: l’interruzione del percorso di studi prima del conseguimento di un titolo di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale. Il termine dispersione scolastica, invece, ha un significato più ampio e sfaccettato, che include l’abbandono, ma si estende anche a tutte le situazioni in cui il sistema scolastico non riesce a garantire un’effettiva riuscita formativa. Infine, altri concetti ricorrenti sono fallimento formativo o insuccesso scolastico, che mettono in luce le responsabilità del contesto scolastico e sociale nel non saper accogliere, sostenere e valorizzare tutti gli studenti, soprattutto quelli che partono da condizioni di svantaggio.
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A livello internazionale, si utilizza spesso l’acronimo ESL (early school leavers) per indicare i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato gli studi precocemente. Meno visibile, ma altrettanto allarmante, è invece la dispersione implicita, che riguarda gli studenti che frequentano la scuola, ottengono magari anche un diploma, ma escono dal percorso senza aver acquisito conoscenze e competenze fondamentali e quindi senza raggiungere i livelli minimi di apprendimento necessari per continuare negli studi, entrare nel mondo del lavoro o comunque partecipare attivamente e consapevolmente alla vita pubblica.
Il drop out scolastico, infatti, non avviene all’improvviso. Anzi, nella maggior parte dei casi è il punto di arrivo di un processo lento, fatto di segnali che rischiano di essere sottovalutati. Tra i primi campanelli d’allarme c’è la frequenza irregolare: assenze ripetute, ritardi, ingressi posticipati o uscite anticipate non occasionali possono segnalare un progressivo disimpegno dell’alunno dalla scuola. Un altro sintomo ricorrente è il ritardo scolastico, cioè la presenza di uno o più anni di differenza rispetto all’età anagrafica prevista per il grado scolastico frequentato. Non meno importanti, poi, sono i segnali di disagio relazionale: conflitti frequenti con insegnanti o compagni, isolamento, difficoltà a instaurare legami di fiducia.
Ma quanti sono effettivamente i ragazzi e le ragazze che, in Italia, smettono di andare a scuola troppo presto? L’Istat li conteggia facendo riferimento al già citato concetto degli early school leavers, adottato a livello europeo. Seguendo questo criterio, in Italia, la quota di ragazzi e ragazze tra i 18 e i 24 anni che non hanno conseguito un diploma di scuola superiore e non sono inseriti in un percorso di istruzione o formazione è pari al 10,5% (dati relativi al 2023). La percentuale è in diminuzione rispetto agli anni precedenti: era infatti dell’11,5% nel 2022 e del 12,7% nel 2021.
Scendendo nel dettaglio dei dati Istat, però, è possibile spingersi fino alla ricostruzione di un vero e proprio identikit dello studente medio che abbandona la scuola. Per prima cosa, è maschio, perché il tasso di abbandono scolastico tra i ragazzi è quasi doppio rispetto a quello delle ragazze (13,1% contro 7,6%). In secondo luogo, vive nel Mezzogiorno, visto che anche in materia di istruzione il divario territoriale rimane ampio. Inoltre, è altamente probabile che sia un giovane con cittadinanza straniera, magari nato all’estero e arrivato in Italia dopo i primi anni di vita. In circostanze del genere, infatti, il tasso di abbandono arriva a sfiorare il 27%, con picchi che toccano il 40% nei casi di ingresso nel Paese dopo i 15 anni. Il motivo è presto detto: spesso questi studenti si confrontano con barriere linguistiche, culturali e sociali che la scuola, da sola, fatica a rimuovere. C’è poi un quarto elemento che completa l’identikit: questo ragazzo di origine straniera che vive nel Sud Italia appartiene a una famiglia povera.
L’identikit appena tracciato è rivelativo delle cause che stanno alla base dei fenomeni di abbandono scolastico, che, è bene precisarli, sono sempre multifattoriali e mai riconducibili a una responsabilità univoca. La scelta di smettere di studiare è sempre l’esito di un intreccio complesso di elementi personali, familiari, scolastici, sociali e culturali che si sviluppano nel tempo e si rafforzano a vicenda. Alla base dell’abbandono, c’è spesso una condizione di povertà educativa, che può coincidere con la povertà economica, ma che non si esaurisce necessariamente in essa. Come reso palese dai dati Istat, le famiglie più fragili, con basso livello di istruzione o occupazione precaria, faticano a offrire un ambiente stimolante e di supporto alla crescita scolastica dei figli. In molti casi, l’allontanamento dai banchi è preceduto da frequenze irregolari, scarso rendimento, bocciature ripetute.
Per molti adolescenti, infatti, la scuola è un luogo emotivamente insostenibile, che provoca ansia da prestazione, disagi interiori non intercettati, l’accumulazione di esperienze di insuccesso. A tutto questo si aggiungono i fattori di contesto, di cui fanno parte la mancanza di servizi educativi sul territorio, la debolezza della rete sociale, l’assenza di opportunità reali di riscatto per chi è in difficoltà. Viste le principali cause della dispersione scolastica, è anche utile affrontare il tema delle sue conseguenze.
Nelle sue analisi, l’Istat si sofferma soprattutto sull’impatto che l’abbandono della scuola ha sulla vita professionale. Nel 2023, il tasso di occupazione tra i giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno lasciato precocemente gli studi è stato del 44,4%, in crescita rispetto all’anno precedente, ma ancora nettamente inferiore al 60,5% che registra chi ha conseguito almeno una qualifica o un diploma. Significa che l’abbandono scolastico, oltre a ridurre le competenze, espone a una maggiore vulnerabilità strutturale in un sistema occupazionale già fragile.
Un dato sorprendente riguarda invece i giovani con cittadinanza straniera: il loro tasso di occupazione è del 57,1%, quasi 16 punti percentuali superiore a quello degli italiani. Complessivamente, quindi, ciò che emerge dall’analisi fin qui condotta è che l’abbandono scolastico incide pesantemente sul futuro di ogni bambino e bambina. Da qui l’urgenza di affrontare il problema e di farlo con strumenti adeguati. L’Autorità Garante, nel rapporto già menzionato, sottolinea che per affrontare il fenomeno occorre adottare uno sguardo olistico e sistemico, perché non si può pensare di intervenire solo sulla scuola, senza agire contemporaneamente sulle condizioni sociali, familiari e culturali che favoriscono l’abbandono.
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