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Beati Quelli Che Sono Nel Pianto Perché Saranno Consolati: Un'Analisi Approfondita

La beatitudine "Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati" (Mt 5,4) rappresenta un paradosso che sfida la saggezza umana e la razionalità comune. In questa affermazione, Gesù si rivolge a coloro che soffrono, promettendo loro consolazione. Ma cosa significa realmente essere "nel pianto" e come si manifesta questa consolazione?

Il Significato del Pianto

Il pianto è una reazione emotiva profonda, una risposta del cuore di fronte a situazioni difficili. Può manifestarsi in diverse forme e per molteplici cause, come la perdita di una persona cara, la sofferenza fisica o psichica, la fame, la violenza, la guerra, l'oppressione o il rimorso per i propri peccati.

Il pianto che sgorga nel riconoscere i propri peccati è il frutto del pentimento. Quando è lamento di chi si pente, il pianto è un atto consapevole e doloroso; ogni peccatore dovrebbe piangere. È vero che solitamente si piange chi è morto, ma in effetti l'iniquo non è più creatura vivente, bensì morta. Pianga se stesso, dunque, e tornerà in vita; pianga spinto da sincero pentimento e sarà consolato con amorevole perdono.

Beato è il pianto che è conseguenza dell'ammissione dei peccati, quel pianto che è effetto e non causa degli errori e delle concupiscenze in cui si è caduti. L'assenza di dolore è segno che il soffio di vita ricevuto dal Creatore è spento, morto e sepolto sotto il peso dei peccati; alcuni, dopo aver consegnato se stessi a una vita dissoluta senza dolersene, divenuti insensibili e inerti nei confronti della vita virtuosa, non si rendono per nulla conto di ciò che hanno fatto e continuano a fare.

Il pianto è una cupa disposizione dell'anima, è la reazione dolorosa per la perdita di quello che piace, per la privazione di ciò che è desiderato. Chi abbia potuto contemplare il vero bene e ha poi preso coscienza della povertà della natura umana, riterrà la sua anima completamente sventurata, perché oggi la vita degli uomini è condotta su strade che allontanano da quel bene. Il bene di cui siamo stati privati trascende le nostre facoltà; di conseguenza, diventa fondamentale ricercare quale sia mai quel bene da cui la tenebrosa caverna della natura umana, in questo vivere quotidiano, non può essere illuminata.

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Anche Davide, pur vedendo il culmine della fortuna umana cui era giunto, aggiunse le "erbe amare" alla sua vita, languendo nel gemito e piangendo per il prolungamento del suo soggiorno nella carne.

La Promessa di Consolazione

Gesù non considera beato il dolore in sé, ma la conoscenza del bene da cui siamo stati privati. Il nostro desiderio, infatti, volge lo sguardo verso ciò che è indeterminabile e incomprensibile. Per questo, Gesù chiama beato il pianto, non perché lo consideri un momento di beatitudine in sé, ma per l'effetto che ne consegue sull'anima.

Dice il Signore: "Beati coloro che piangono", e non termina qui il discorso, ma aggiunge "Perché essi saranno consolati". La consolazione avviene mediante la partecipazione del Consolatore. L'evangelista Matteo esprime il verbo della consolazione con quello che in termine tecnico viene detto passivo divino, è un modo per indicare un'azione svolta da Dio. Sarebbe come dire: "Dio li consolerà".

La consolazione è la presenza di Dio che riempie la vita. Il verbo "consolare" è l'azione dello Spirito Santo, il "Paraclito".

Non è difficile, ora, comprendere il senso di quelle parole: "Beati coloro che piangono"; essi, infatti, saranno consolati per i secoli infiniti.

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Gesù, il Consolatore

Gesù stesso prova afflizione sulla Croce quando esclama «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,33), ma non dice: "Dio mi ha lasciato". Con questa esclamazione sembra voler sottolineare quanto sia stato difficile quel momento, perché le ultime fasi della Sua storia umana gli stavano oscurando il volto del Padre, stavano cercando di strapparlo dalla sintonia di intenti con il "Padre mio che è nei Cieli".

Quando Gesù circondato dalla folla dice: «venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi, Io vi ristorerò» (Mt 11,28), vuole intendere che l'afflizione non ci deve scoraggiare, perché Lui è venuto proprio per sostenerci in questa battaglia: «avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33). Ecco la vittoria sull'afflizione!

In Gesù sono incarnate le beatitudini, è lui il vero povero in spirito, è lui l'afflitto, colui che piange, è lui che ha fame e sete della giustizia, è lui il perseguitato...

Tuttavia, vi è una sostanziale ed evidente differenza tra Mosé e Gesù. Mosè riceve la legge da Dio e la consegna al popolo, Gesù da lui stesso la legge, anzi: Gesù è la legge, in quanto è lui la parola stessa di Dio.

Come Ricevere la Consolazione

Per ricevere la consolazione promessa, è necessario riconoscere la propria afflizione e aprirsi alla presenza di Dio. Questo significa:

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  • Ammettere i propri peccati e pentirsi sinceramente.
  • Riconoscere la propria fragilità e dipendenza da Dio.
  • Accettare il dolore come parte della vita.
  • Cercare la comunione con Dio attraverso la preghiera e la lettura delle Scritture.
  • Condividere il proprio dolore con gli altri e offrire consolazione a chi soffre.

Dobbiamo, innanzitutto, capire cosa si intende per "afflizione" (termine che nell'ultima traduzione della Bibbia CEI è tradotto con "essere nel pianto"). Qui il termine afflizione, hai il significato di lutto per la morte di una persona cara, non solo un lutto ma possiamo immaginare anche una sensazione di sconfitta, frantumazione di tutte le illusioni.

Mt 9,14-15 «14Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 15E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Il termine "afflizione" viene usato da Gesù anche nella risposta ai disepoli di Giovanni Battista quando gli domandaronio ragione del non digiuno di chi lo seguiva. Gesù dice che il digiuno non è appropriato agli invitati a nozze quando lo sposo è presente in mezzo aloro, il digiuno sarà doveroso quando «lo sposo sarò loro tolto».

Un altro significato che il termine afflizione contiene è quello riferito al peccato, ossia al piangere ed affliggersi per i propri peccati. Pietro dopo aver rinnegato Gesù, pianse amaramente (Lc 22,62) scoprendosi colpevole. Vi è poi l'afflizione giusta anche per i peccati che ci circondano, per esempio Paolo scrive ai corinti parole molto severe aproposito dell'indifferenza o della superficialità con cui viene trattato un grave peccato di un membro della comunità mentre questo peccato di un fratello dovrebbe provocare afflizione in tutti quanti (cfr. 1Cor 5,1-2).

Gesù non dice "dovete essere afflitti" ma "potete essere afflitti". Dovremmo leggere questa beatitudine più o meno in questo modo: "potete stringere relazioni umane autentiche, potete davvero darvi con generosità, potete legarvi alle persone, innamorarvi senza paura di essere delusi, perché la vostra consolazione è Dio".

Affidamento e Fiducia

Un buon numero di quelle storie segnala che è possibile - nel duello con la morte che vivi quando ti manca il respiro - compiere un atto di affidamento, cioè di fiducia. Di consegna di sé al Signore. La parola affidamento in un primo momento suona difficile, astratta. Un atto: non un puro sentimento, ma qualcosa come una decisione. Una decisione per la vita.

L’affidamento - ho provato a dire alle due miniassemblee parrocchiali - è un atto di fiducia che accetta il mistero, cioè l’impossibilità di comprendere con la ragione quello che ci è stato promesso. Ci affidiamo: cioè accettiamo fiduciosamente quello che ci potrà accadere. Sempre tenendoci stretti a lui e alle sue parole.

Mi figuro dunque che il cristiano - ognuno tra noi - possa cercare, se ne ha il dono, di compiere lo stesso affidamento di se stesso che ha compiuto Gesù sulla croce. Di tentarlo prendendo a guida della preghiera le sue parole. Nella speranza che da quel male possa venire infine un bene.

Alcuni tra i guariti dal COVID hanno raccontato di un’esperienza di beatitudine - una volta compiuto l’affidamento - mai sperimentata prima.

Il Ruolo della Comunità

Alla fine è arrivata la domanda più difficile: come farci operatori, o discepoli, di questa beatitudine, cioè cooperatori del passaggio dal pianto alla consolazione.

Proverà a monitorare i luoghi e i personaggi della sofferenza nel proprio territorio, invece di eluderli. È spontaneo soccorrere chi si presenta ai nostri sportelli a chiedere aiuto. Per questo siamo preparati. Molto di meno lo siamo per prendere l’iniziativa e per andare a cercare chi si vergogna di chiedere aiuto e soffre in silenzio.

«Beato il vescovo che non teme di rigare il suo volto con le lacrime, affinché in esse possano specchiarsi i dolori della gente, le fatiche dei presbiteri, trovando nell’abbraccio con chi soffre la consolazione di Dio».

Nelle nostre case sono poi tantissime le colf e le badanti ucraine: a Roma gli ucraini sono più di 10.000, in Italia forse 250.000. Piangere con loro e aiutarli con ogni mezzo: ecco un modo di farci prossimi a questo popolo dilaniato.

Siamo chiamati a sperare per tutti: per tutti nella pandemia, per tutti nella guerra. Anche per i russi del Donbass, anche per i giovanissimi soldati russi mandati ora in Ucraina: e questa preghiera non è difficile.

La Consolazione Oltre la Sofferenza

La vera consolazione è il traguardo verso il cielo. Ascoltiamo il nostro cuore che piange quando affronta i vari tipi di dolore e di morte. Il pianto ha molti volti, molte cause, molte forme.

La proposta del mondo: Al mondo non piace vederci piangere. Smetti di piangere, scordati delle ferite, non pensarci più, vai a divertirti, bevi, balla, esci,… e il dolore passa. Metti da parte il dolore, seppelliscilo sotto le attività e tutto sarà a posto. Il pianto ti rende debole e vulnerabile.

La proposta di Gesù: Gesù vede il mio dolore e ne ha compassione. Vede che il dolore riesce a soffocarci, a rubarci la gioia e perfino la fede, ci trasforma in morti camminanti. Gesù sa che il pianto è la risposta del mio cuore di fronte ad una situazione difficile. Dal dolore non si scappa, il dolore ci porta a Dio, il Dio di ogni consolazione.

La parte difficile non è sicuramente individuare le occasioni di afflizione ma il sentire e trovare consolazione.

Amare e Piangere

Si può amare in maniera fredda? Si può amare per funzione, per dovere? Certamente no. Ci sono degli afflitti da consolare, ma talvolta ci sono pure dei consolati da affliggere, da risvegliare, che hanno un cuore di pietra e hanno disimparato a piangere.

Invece c’è chi piange per il male fatto, per il bene omesso, per il tradimento del rapporto con Dio. Questo è il pianto per non aver amato, che sgorga dall’avere a cuore la vita altrui. Qui si piange perché non si corrisponde al Signore che ci vuole tanto bene, e ci rattrista il pensiero del bene non fatto; questo è il senso del peccato. Costoro dicono: “Ho ferito colui che amo”, e questo li addolora fino alle lacrime. Questo è il tema dei propri errori da affrontare, difficile ma vitale.

Pensiamo al pianto di san Pietro, che lo porterà a un amore nuovo e molto più vero: è un pianto che purifica, che rinnova. A differenza di Giuda, che non accettò di aver sbagliato e, poveretto, si suicidò. Capire il peccato è un dono di Dio, è un’opera dello Spirito Santo. Noi, da soli, non possiamo capire il peccato. È una grazia che dobbiamo chiedere.

Saggio e beato è colui che accoglie il dolore legato all’amore, perché riceverà la consolazione dello Spirito Santo che è la tenerezza di Dio che perdona e corregge. Dio sempre perdona, anche i peccati più brutti, sempre. Il problema è in noi, che ci stanchiamo di chiedere perdono, ci chiudiamo in noi stessi e non chiediamo il perdono.

La Sofferenza e la Comunione

Innanzitutto dobbiamo essere sinceri con noi stessi: nella sofferenza siamo tentati di diventare più attenti a noi stessi, più egoisti, siamo tentati di cercare una salvezza senza gli altri e magari a scapito degli altri. La sofferenza a volte abbruttisce, rende aggressivi e ci fa assumere comportamenti che, nella loro violenza, ci erano estranei in passato. Le sofferenze di per sé non sono utili né salvifiche, non sono automaticamente una forma di purificazione, un mezzo per diventare più buoni.

Credo però che in esse e attraverso di esse si giochi sempre la salvezza della nostra vita, la ricerca di senso: in particolare, quando le sofferenze si abbattono come onde su di noi e sembrano sommergerci, proprio allora ci è chiesto di impegnarci ad amare e ad accettare di essere amati. Insomma, siamo chiamati a fare della sofferenza una via di comunione: questa è la sfida, questa è la via cristiana, che può però essere sentita come possibilità ragionevole, significativa e umanizzante anche da parte di chi non è credente.

Quando vediamo e accostiamo chi soffre, ci mancano le parole; a volte possiamo solo stargli accanto, offrirgli la presenza, far sentire la nostra mano nella sua mano: ma anche questo, pur nel silenzio, è un cammino di comunione, dunque un cammino salvifico, per quanto noi possiamo fare qui, sulla terra.

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