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Umberto Orsini e l'eredità del teatro che non c'è più

Perché, dunque, ho voluto vedere quest’allestimento della celeberrima commedia di Simon nonostante costituisca, ormai, un evento superato sul piano della cronaca? Orsini ha novantuno anni, io ottantacinque. Siamo lì. E se Orsini si ferma e mi aspetta, gli prometto che lo raggiungerò.

Ora si manifesta nella commedia di Simon in questione, che, datata 1972, resta una delle più belle del Novecento. Come sappiamo, ne sono protagonisti Al Lewis e Willy Clark, due comici che, uniti nel duo chiamato per l’appunto «I ragazzi irresistibili», per quarantatré anni spopolarono nel varietà. Poi, a causa d’insanabili incomprensioni, si separarono. E adesso, undici anni dopo, si ritrovano per riproporre una sola sera il loro celebre sketch del dottore in una trasmissione televisiva dedicata alla storia dello spettacolo leggero americano.

Aleggia, in breve, lo spirito di Cechov, il cui tema principale è il rimpianto di un passato che non può tornare. Si dà il caso (ma forse non è stato un caso) che pochi giorni prima di vedere «I ragazzi irresistibili» di Orsini e Branciaroli io abbia visto «Dove eravamo rimasti» di Massimo Lopez e Tullio Solenghi, spettacolo che, per esplicita dichiarazione dei due protagonisti, comprende fra i suoi scopi e contenuti un omaggio all’avanspettacolo.

La differenza sta nel fatto, assolutamente decisivo, che in televisione prevale l’immagine, in teatro prevale il corpo. E di tanto ci offre una dimostrazione esaustiva, e persino commovente, proprio l’Umberto Orsini che veste i panni di Al Lewis. Recita senza microfono, eppure si sente con chiarezza tutto quello che esce dalla sua bocca, anche il più lieve sussurro.

In proposito mi torna in mente che Eduardo, quando gli si presentavano una ragazza o un ragazzo che volevano fare gli attori, li metteva sul palcoscenico, andava in fondo alla sala, alzava il dito indice della mano destra e gli diceva: «Parlate guardando il mio dito». Se li sentiva, il discorso poteva andare avanti, altrimenti Eduardo tagliava corto.

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Del resto, quanto sto dicendo trova conferma in una battuta di Willy: «E allora? Non posso fare il negro? Ho fatto il negro nel 1928. Insomma, io sono convinto che Umberto Orsini sia fra i pochissimi sopravvissuti di un mondo che non esiste più. E sono altrettanto convinto che, nel mio ambito, sono anch’io fra i pochissimi sopravvissuti di quel mondo.

Pietro Carriglio, padre-padrone del teatro pubblico palermitano, per una vita direttore del «Biondo», mi diceva sempre che io, fra i critici, sono l’ultimo dinosauro. E a mia volta io dico a Orsini che lui, fra gli attori, è l’ultimo dinosauro.

Scherzi a parte, io, alla mia età (ho perso il conto: è la quarta, la quinta?…), continuo ad andarmene in giro per l’Italia a vedere spettacoli, fra l’altro spendendo una barca di soldi. E prima di andare a vedere uno spettacolo, ancora ne leggo e studio il testo. Così, mi sono messo in viaggio per andare a vedere «I ragazzi irresistibili» indossando i panni dell’Indiana Jones che va alla ricerca dell’arca perduta. E al termine del mio viaggio, proprio come l’archeologo immortalato da Lucas e Spielberg, quell’arca l’ho trovata anch’io. L’avete capito, è Umberto Orsini.

Penso a una delle ultime osservazioni di Al: «Sai qual era il tuo problema, Willy? Hai sempre preso le battute troppo sul serio. Erano solo battute. Al Lewis sta levando un canto alla verità della vita rispetto alla finzione del teatro. E il modo in cui Orsini pronuncia quella battuta mi ha riportato in mente il Carmelo Bene di «Macbeth Horror Suite». Prima dello spettacolo, lo incontrai al bar del «Quirino». E quando gli chiesi: «Come stai?», lui, che, in tuta, alternava un sorso di birra, uno di caffè e un «tiro» da una Gauloise senza filtro, rispose: «Mi sento come una fanciulla vergine».

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