Erravamo Giovani Stranieri: Il Significato di una Generazione
“Devo scrivere il mio tempo prima che lui scriva me”: questo è il lascito di Alberto Dubito, pseudonimo di Alberto Feltrin, un artista poliedrico scomparso prematuramente. La sua opera e il suo esempio continuano a risuonare, ispirando una comunità che si è raccolta attorno al suo ricordo.
Dubito era un rapper, poeta, attivista e rappresentante del movimento studentesco. Insieme a Davide Tantulli, Sospè, fondò un duo rap che si rifaceva al filone più politico del genere, ispirato da Assalti Frontali e 99 Posse. Hanno cominciato a fare musica giovanissimi, scrivendo canzoni e registrando album, esibendosi dal vivo, arrivando a un passo dal diventare grandi, appena un istante prima che rap e trap conquistassero l’attenzione di radio, televisioni, giornali.
Nella notte tra il 24 e il 25 aprile del 2012, Alberto, ancora ventenne, decide di andarsene. Tutto si ferma, resta sospeso, per un attimo in cui la famiglia, gli amici, le molte persone che lo conoscono, non vogliono credere a ciò che è accaduto. Poi però le cose si mettono in moto, accadono repentinamente, con un’accelerazione che nessuno può prevedere.
A Treviso, la sua città, il sindaco si rifiuta di offrire un luogo per la commemorazione pubblica di un ragazzo che è stato anche un volto in vista del movimento studentesco, che ha sempre denunciato la mancanza di spazi per i più giovani. Il sindaco di un comune vicino concede uno spazio, ma da quel momento i giovani amici decidono che occorre fare qualcosa, che la morte di Alberto è un fatto pubblico, e serve raccontarlo a tutti.
Cominciano così le occupazioni in quest’area. Si individua un edificio abbandonato, oppure uno dei molti capannoni vuoti nei dintorni del centro, si entra, si fa festa per tutto il fine settimana, si pulisce tutto e si va via. È un modo per ricordare un amico, ma anche di onorarlo ponendo l’attenzione su un fenomeno, quello dei fabbricati dismessi che, per quanto urgente, da queste parti nessuno vuole affrontare.
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Poi qualcuno avanza l’idea di restare più a lungo, di dar vita a un luogo che tenga insieme musica e cultura, politica. Un’idea che forse Alberto avrebbe apprezzato. Comincia così l’occupazione dell’enorme complesso dell’ex Telecom (che ora sta per diventare un parcheggio comunale) e poi quella della vecchia caserma Piave, a pochi passi dalle mura che delimitano il centro cittadino, diventato nel frattempo il centro sociale Django, che ora fa parte di un più ampio piano di co-progettazione del comune di Treviso.
Alberto, nelle sue peregrinazioni, aveva iniziato a collaborare con Agenzia X, casa editrice che si occupa prevalentemente di controcultura. Dopo la sua morte, Agenzia X insieme a Lorenzo Fe, il fratello maggiore di Alberto, decide di pubblicare una raccolta di materiali ritrovati negli hard disk lasciati da Dubito: poesie, prose, testi di canzoni, fotografie. Il volume si intitola Erravamo giovani stranieri ed esce subito, nell’ottobre del 2012.
Il libro, negli anni, è diventato una sorta di long seller, ha continuato ad attirare lettori, tra i molti che si sono imbattuti nella storia di Alberto Dubito, anche grazie al premio che porta il suo nome. All’interno si trova l’intero immaginario creato da Alberto in pochissimi anni, sorta di autoritratto di un ventenne capace di osservare la realtà con uno sguardo surreale ma immediato. Un diario allucinato che proviene dalle periferie arruginite, e che invita continuamente un’intera generazione ad avere speranza, ad agire, prendere posizione.
Ma non solo. La famiglia di Alberto ha poi scelto di onorare il suo ricordo istituendo un premio di poetry slam e di poesia con musica, organizzato in collaborazione con Agenzia X, ora arrivato alla tredicesima edizione. La serata di apertura, per tradizione, si svolge il 24 aprile al centro sociale Django a Treviso, la finale invece a dicembre, a Milano, al Cox 18 (le due città di Dubito). Ogni anno vengono inoltre pubblicati i materiali del premio, con testi di diversi autori a completare ogni volume.
“Un percorso breve, intensissimo, prolifico, capace di ispirare cambiamenti profondi, anche aldilà delle intenzioni. Guidato quasi dalla foga di voler esprimere tutto, e forse per questo in grado di leggere quello che gli accade intorno in modo così acuto e preciso, intuendone i meccanismi segreti”. È questa urgenza a colpire più di tutto, ripercorrendo la vicenda di Alberto Dubito, rileggendone i testi, riascoltandone le canzoni.
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“Sai, devo scrivere il mio tempo prima che lui scriva me, devo scriverlo perché quello che non scrivo mi limita fino a quando non diventa limite di carta”, dice, mentre l’incedere del brano si fa teso. Qualche verso prima, in righe quasi di premonizione, in un brano che si intitola Non c’è più tempo, scriveva “E se muoio giovane spero sia dal ridere, ti dicevo, di quanto brucio più in fretta di voi”, continuando così: “e poi, non mi vedrai più per mille miglia, fratello mio, io riparto da dove gli altri non hanno più visto la partenza e la data di scadenza, che era cinque minuti fa”.
E nel 2013 è stato proprio il movimento attorno alle occupazioni a favorire la vittoria della prima timida amministrazione di centrosinistra nella storia di Treviso, poi tornata rapidamente in mano alla Lega alle elezioni successive. In Intolleranza, brano del 2007, raccontando in modo accurato il comportamento della Lega al potere in Veneto, Dubito pare prefigurare quella che poi è stata l’evoluzione della destra in tutto il nostro Paese: “Intolleranza per chi disprezza e prende voti, intolleranza parla di razza e merita sputi, intolleranza e si alimenta quando sento discorsi senza fondamenta”.
Nel 2011, i Disturbati vengono contattati da un’autrice di un programma che verrà trasmesso su La7, Il contratto, una sorta di talent dedicato al mondo del lavoro. All’allora giovanissimo collettivo vengono affidati dei videoclip come sigla di chiusura del programma. Ne verranno realizzati otto ma trasmessi solo cinque, sui temi del “lavoro nero, precariato, morti bianche e altre mostruosità contemporanee del nostro bel paese”. Così cantava Alberto Dubito in Omicidi del lavoro: “Ma ancora qui (qui) di lavoro sì, si muore, e avaro per due soldi in più tu togli le tutele, e per quelle due lire s’è stoppato il cuore scivolato cento metri giù dalle tue impalcature”.
A seguire la produzione e la nuova veste musicale del disco ci sono Sospè e Bonnot, produttore che ha lavorato con M1 e Assalti Frontali tra i tanti, e che ha portato a termine, in un’atmosfera sofferta, la prima versione di un album che sarà il testamento musicale di Alberto. Al suo interno ci sono alcuni tra i brani più rappresentativi dei Disturbati Dalla CUiete, da Storie abbandonate a Cara città, da Vent’anni contro a Stazioni nelle stazioni: in una sintesi perfetta tra temi, metrica dei testi e sperimentazione musicale del gruppo.
I testi di Dubito mescidano slogan politici, paradossi e immagini efficacissime nel raccontare l’attualità. Insieme a metafore che diventano a loro volta dei perfetti manifesti, come “Generazione di pentole a pressione”, ritornello che ritorna più volte nel corso dei suoi brani, a esprimere in modo preciso il montare della rabbia dei giovani inascoltati della provincia. “Alberto Dubito inizia a cantare, a rappare, con quel suo stile deciso, rabbioso, ma sempre pulito, che arriva forte, chiarissimo, dal primo momento in cui lo si ascolta”.
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Sono intonati da voci diversissime e ascoltarli in questi arrangiamenti fa emerge con ancora più dirompenza l’attualità dei testi dei Disturbati dalla CUiete. Il punto è proprio questo, forse: le parole di Alberto Dubito sono in grado di raccontare con accuratezza quel mondo che da un lato vuole credere, sognare, pensare di poter costruire qualcosa di nuovo, o di migliore; e che dall’altro è soffocato da inquinamento, precarietà esistenziale e lavorativa, le minacce di un fascismo ritornante.
Uscita l’opera omnia di Abe Dubito Feltrin anima delle periferie: Erravamo giovani stranieri esce in edizione ampliata, a cura dell’Agenzia X dell’editore Marco Philopat, il libro i Alberto Dubito Feltrin, poeta musicista e fotografo, frontman e street artist trevigiano, scomparso a soli 21 anni nel 2012.
Cosa significa essere "giovani stranieri"? Aluisi Tosolini descrive il suo stato d’animo con i versi di Pierluigi Cappello: «non saprei nient’altro di me se non sapessi di me che sono straniero». Una visione del mondo in cui riconoscersi, sentirsi figlio di un confine. Occorre ammettere il fallimento di tante iniziative che avrebbero dovuto contribuire all’affermazione di idee e princìpi di cui stentiamo a trovare traccia nella società italiana di oggi.
Il miglior documento uscito sull’intercultura risale al 2007 e si intitola La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli alunni stranieri. In sintesi, si trattava, per noi che ci occupavamo di questi argomenti, di dotare le scuole di strumenti e di competenze utili a garantire l’accoglienza dei nuovi arrivati, che avrebbero dovuto apprendere rapidamente la lingua italiana ed essere messi in grado di interagire positivamente nella classe.
Un'ipotesi sull'insuccesso è che la norma si presta a essere interpretata come la sanitarizzazione o medicalizzazione o, anche, istituzionalizzazione dello straniero, trattato alla stregua di un malato. Spostando tutta l’attenzione sul deficit linguistico e, quindi, sulle procedure per l’integrazione, si corre il rischio di abbandonare il progetto di rendere la scuola adatta al mondo che cambia.
Siamo continuamente distratti da false emergenze, e anche per questo poco inclini a credere che la società in cui viviamo sia quella a cui dobbiamo tutti prepararci, non quella di quando eravamo giovani. Non ci sono invasioni in corso, non abbiamo masse di nuovi bambini e bambine o ragazzini e ragazzine da integrare. Cerchiamo di organizzare, a scuola, ambienti plurali diversi che rendano possibile la valorizzazione della diversità qualsiasi essa sia (di genere, di abilità, di lingua, di religione ecc.). La scuola, che non si percepisce come un ambiente educativo eterogeneo, crede ancora oggi di avere il compito di omologare e omogeneizzare.
In una società multiculturale l’educazione interculturale e alla cittadinanza avrebbe il compito non solo di riprodurre se stessa ma anche di innovare. La società cambia. La scuola, che non si percepisce come un ambiente educativo eterogeneo, crede ancora oggi di avere il compito di omologare e omogeneizzare. Come se ancora dovesse, come nel 1861, fare gli italiani, o dare a tutti una lingua universale e standardizzata.
Negoziazione che - certo - chiede condivisione delle regole. E la regola base è, a mio parere, proprio il punto di partenza della dimensione interculturale nel sistema formativo italiano.
L'analfabetismo educativo e l'individualismo sospettoso, egoista, discriminatorio e talora anche razzista sono la vera corruzione dei giovani. La qualità delle relazione è la qualità della vita, è il luogo non solo del benessere ma anche della creatività, della partecipazione della responsabilità.
La migliore riforma della scuola sarà quella che prevede il sette in condotta, gli esami a settembre e, perché no?, finalmente la lotta al consumismo dei vestiti attraverso la divisa? Non mi pare. Non mi sento di affermare che i giovani siano odiati; poco amati, quello sì perché se ami una persona allora la guardi, la ascolti e poi ci sei concretamente nei suoi bisogni, ad aiutarla a diventare adulta e responsabile.
Quando ti impegni nell’educazione ti metti a raccontare com’è giusto, bello e buono vivere.
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