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Lo straniero nel mondo greco e romano: storia di un concetto mutevole

Fin dall'età antica l'uomo si è confrontato con l'alterità dell'altro. Lo straniero nelle società della storia è sempre percepito in modo ambivalente: ora come un fattore di arricchimento, ora come una minaccia alla propria cultura. La cultura latina non fu da meno nei confronti dello straniero e nel confronto con l'altro, adattando il proprio linguaggio per parlare delle diverse connotazioni e visioni di questa figura all'interno della società romana.

Enea: lo straniero designato dal Fato

Sembra essere insito nella natura stessa della consapevolezza dei romani di discendere da un advena, cioè uno straniero. Secondo il mito, Enea era giunto dal mare, dalle lontane coste dell'Asia Minore, dopo un lungo esodo alla ricerca di una nuova terra su cui fondare una nuova città per la genia troiana sopravvissuta al massacro greco della guerra. I troiani, giungendo sull’umile suolo italico, si troveranno di fronte ad un panorama etnico densamente diversificato e variegato: Osci, Sanniti, Umbri, Etruschi… con i quali avrebbero finito per amalgamarsi.

I romani si riconoscono in questa leggenda, che attraversa i secoli fino a giungere a Virgilio, che con la composizione del poema Eneide, giustificherà l’ascesa di Ottaviano Augusto al trono imperiale. Anche Lucio Anneo Seneca, celebre filosofo latino nato a Cordova, rifletté su quanto la figura di Enea e la sua estraneità fosse un fondamento in cui i romani si riconoscevano. Come scrisse in una riflessione:

L’Impero romano ha come fondatore un esule, un profugo che aveva perso la patria e si portava dietro un pugno di superstiti alla ricerca di una terra lontana. Farai fatica a trovare una terra abitata da indigeni: tutto è il risultato di commistione e innesti.

La natura multiculturale di Roma si manifestò anche nel passaggio della corona, dove vennero coinvolti diverse popolazioni italiche. La figura stessa di Romolo, considerato il primo dei sovrani è legato a questo aspetto di multiculturalità. Il re, infatti, non era solo ritenuto un diretto discendente di Enea, ma anche nel mito fondativo la commistione tra diverse etnie italiche è ben presente. Accompagnato da contadini, pastori e gente raminga, Romolo avrebbe fondato la città dopo aver mischiato manciate di terra d’origine del suo variegato nuovo popolo in un’unica fossa con offerte agli dei.

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La leggenda sicuramente contiene un fondo di verità: un gruppo di stranieri che voleva cominciare una nuova vita e cercare una legge che li unisse in una città nuova. Anche per quanto riguarda gli altri sovrani romani l’aspetto dell’estraneità è molto forte. Numa Pompilio, il terzo secondo la successione, proveniva dalla gens sabina. Per quanto riguarda gli ultimi tre sovrani, Tarquinio Prisco, Servio Tullio, Tarquinio il Superbo erano etruschi, una popolazione straniera con cui Roma ebbe molti contatti.

Ogni vocabolo del lessico aveva non solo una connotazione linguistica specifica, ma anche sociale e giuridica.

Feroci e spietati dai confini dell’impero: i barbari

La parola onomatopeica bárbaros venne introiettata dalla lingua greca, con la quale si designava lo straniero che non sapeva parlare nessuno degli eleganti idiomi ellenici. Seppur non ancora uniti politicamente, infatti, gli ellenofoni si identificavano nell’unità di una lingua che li rendeva diversi e superiori rispetto ai rozzi forestieri che sembravano proprio balbettare in modo animalesco.

Anche il mondo latino adottò questo vocabolo, ma con una connotazione ben precisa. Se in Grecia era un termine piuttosto generico, a Roma identificava invece quegli stranieri che abitavano ai confini del mondo romano: i feroci e rudi Barbari. In particolare durante l’Età Repubblicana l’aspetto ideologico ed etnico divenne particolarmente accentuato, legandosi ad una «missione civilizzatrice» di cui Roma si sentiva investita.

Della pericolosità dei popoli barbarici che premevano lungo i confini romani, ci sono giunte molte testimonianze. Certamente alcune delle più celebri ci sono giunte grazie alle memorie delle campagne militari di Cesare in Gallia. In uno dei passi dell’opera viene riportato:

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Cesare giudicava pericoloso per il popolo romano che i Germani prendessero a poco a poco l’abitudine di attraversare il Reno e di venire in Gallia in massa; riteneva che questi uomini violenti e barbari non si sarebbero trattenuti, una volta occupata tutta la Gallia, dal passare nella provincia romana e di lì in Italia.

Cesare, De Bello Gallico I, 33

La caratteristica di ferocia e brutalità diventa un tutt’uno con il termine stesso di barbaro. La connotazione violenta contraddistingue anche i loro capi, in particolare il temibile re degli Svevi: Ariovisto. Si riporta dalle fonti storiche che governasse con crudeltà, esigendo ostaggi e torturandoli per sottomettere la nobiltà del suo popolo. Un vero e proprio tiranno temuto per il carattere iracondo e imprevedibile, totalmente in contrasto con la clemenza e la temperanza con cui i romani si vantavano di governare.

Non era lo straniero in senso generico, ma quello giunto per portare la guerra. Questi nemici che portavano scontri sanguinosi, qualora fossero vinti portavano ancora più onore alla grandezza di Roma. Il termine è individuabile in numerosi testi, dal De Bello Gallico di Cesare al poema epico di Claudiano il De bello Gothico. Non solo, anche Cicerone utilizza questo vocabolo in una delle sue più celebri opere, le Filippiche, scritte contro Marco Antonio.

L’arringa scritta contro il rivale di Ottaviano Augusto, lo connota come un nemico dello stato che è diventato l’amante di una straniera, la regina d’Egitto Cleopatra. In questo modo è diventato una sorta di straniero a sua volta che porta la guerra a Roma, come scrive nel passo:

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Oggi, Quiriti, sono state gettate le fondamenta di ogni azione futura: infatti Antonio, anche se non ancora per definizione ma di fatto, è stato considerato dal Senato come nemico dello Stato. E ora sono più soddisfatto perché anche voi avete sostenuto che Antonio è un nemico con tanta convinzione e con un applauso così forte. Perché, o Romani, le cose stanno così: o sono empi coloro che hanno preparato eserciti contro il console, o il nemico è colui contro il quale sono state legittimamente prese le armi.

Cicerone, Philippica IV, I

Lo straniero in movimento: il peregrinus

Nella grande varietà di stranieri e culture che si incrociavano a Roma erano presenti degli individui considerati uomini liberi, i quali erano soggetti al dominio romano, ma erano privi del diritto di cittadinanza e civile: i peregrini. Questo vocabolo derivato dal verbo «peregrare», cioè «viaggiare ed essere in movimento», ne connotava proprio la natura, ovvero la possibilità di muoversi dentro lo spazio del territorio romano, ma senza goder dei diritti dei cives, i cittadini romani.

Con il tempo questo termine entrò a far parte anche del linguaggio giuridico. In un articolo del codice di Ulpiano, un giurista del II secolo d. C., troviamo la parola in uno dei passaggi in cui si prescrive che il matrimonio tra cittadini e stranieri deve essere autorizzato. Come viene sottolineato dalla norma:

I cittadini romani hanno il diritto di sposarsi con cittadini romani; hanno il diritto di sposarsi con latini e stranieri, solo se è stato loro concesso.

Ulpiano, Digesto, 5, 4

Nel Medioevo il termine peregrinus assunse un significato diverso, andando ad indicare il viaggiatore che si muove verso un luogo sacro, spinto dalla fede cristiana. Anche il suo abbigliamento è ben connotato: un lungo mantello con cappuccio, la pellegrina, un bastone da marcia, la bisaccia. E’ difficile datare con certezza questo cambiamento, ma il termine risulta ampiamente documentato dopo la fine della Prima Crociata, tra il 1096 e 1099. Da straniero privo di diritto del mondo antico, il peregrinus medievale è un personaggio rispettato, indipendentemente alla sua estrazione sociale ed economica.

Alterità e mondo romano: un atteggiamento mutevole

Il concetto di straniero nella cultura latina ha subito numerosi cambiamenti durante il corso del tempo ed in certi casi assumendo un’ambivalenza. Se durante l’età arcaica è possibile notare una visione positiva dello straniero nel tessuto sociale e culturale, al punto tale da farlo divenire sovrano, al contrario in epoche successive sembra diventare un oltraggio che mina il mos maiorum su cui si fonda l’identità della società romana. Questo sguardo muterà nuovamente durante il periodo imperiale, in cui con la presa di potere di alcuni imperatori, come Adriano, lo straniero nella cultura latina tornò ad assumere un significato più positivo e di arricchimento.

Nelle numerose varianti del racconto che ricostruisce le origini di Roma, c’è un tratto che resta pressoché comune a tutte: i romani sono sempre il frutto di una mescolanza, dell’unione fra più comunità e stirpi, perlopiù provenienti da luoghi diversi e spesso lontani da quelli sui quali sarebbe sorta la città. Nella versione più nota di quel mito, a giungere nel Lazio è una pattuglia di esuli troiani sopravvissuti alla distruzione della loro città da parte dei greci e guidati dall’eroe Enea: i nuovi arrivati sono però tutti maschi e chiedono dunque di unirsi in matrimonio alle donne italiche.

Quando ormai Romolo era in procinto di tracciare il solco che avrebbe delimitato il perimetro di Roma, venne compiuta una singolare cerimonia: in un fossato posto al centro di quel medesimo perimetro e denominato mundus, ciascuno dei futuri abitanti della città, i quali provenivano da diversi centri del Lazio, gettò una zolla ricavata dalla terra del proprio luogo di origine. Successivamente quelle zolle vennero mischiate insieme, in modo da fondersi l’una con l’altra, quindi il fossato fu colmato e divenne il centro intorno al quale Romolo tracciò la circonferenza esterna della città.

Nel 48 d.C. i vertici del potere romano furono scossi da una violenta polemica. A farla scoppiare era stata la proposta di ammettere all’interno del senato i notabili della Gallia “Comata”, cioè di quella vasta area del territorio conquistata un secolo prima da Giulio Cesare e ormai parte integrante e integrata dell’impero. In quella circostanza il senato si spaccò. Claudio ebbe buon gioco nell’osservare come la fortuna di Roma si fosse fondata sin dalle origini proprio sulla capacità di accogliere gli stranieri, di integrarli nella cittadinanza e persino di ammetterli alle magistrature, coinvolgendoli nel governo della città e dell’impero. «Per quale altra ragione Atene e Sparta sono andate in rovina, nonostante la loro potenza militare», incalzò Claudio, «se non per il fatto di considerare i vinti alla stregua di stranieri e di cacciarli come se fossero gente di razza diversa? Invece il nostro fondatore Romolo fu così saggio che più e più volte, nello stesso giorno, considerò gli stessi popoli prima nemici e poi concittadini».

Il discorso proseguiva ricordando come tra i primi re di Roma ci fossero stati dei sabini e persino degli etruschi. Sia il mito ateniese dell’autoctonia che quello romano della stirpe mista hanno a che vedere con un costrutto culturale estremamente complesso e delicato, quello dell’identità: un’identità che viene declinata di volta in volta secondo una versione più rigida ed esclusiva o, viceversa, più aperta e inclusiva. E tuttavia, l’idea di inclusione attraversa effettivamente da un capo all’altro la storia di Roma, fino alla costituzione di Caracalla che nel 212 d.C. estese la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, realizzando la più vasta comunità sociale e politica di tutti i tempi.

Il concetto di "straniero" nella Grecia classica

Il cittadino greco dell’età classica aveva un forte senso della sua identità, che si concretizzava nel mito dell’autoctonia. Nel mondo greco, oltre a questa forte percezione dell’omogeneità culturale, c’era anche una estrema frammentazione politica, che indusse i cittadini greci ad essere molto riluttanti ad accogliere gli stranieri nelle loro comunità. Gli xenoi appartenevano alla stessa comunità greca di sangue, lingua, culti e costumi, descritta da Erodoto, e l’estraneità investiva esclusivamente l’aspetto politico: si trattava, infatti, di cittadini di un altro stato, città (polis) o stato federale. Invece i bárbaroi erano oggetto di una marginalizzazione più radicale, come dimostra anche l’origine del termine usato per designarli.

Nel corso del IV secolo, l’idea della superiorità dei Greci sui barbari si carica di nuovi significati, che vanno ben oltre la sfera politica. Quindi tra Greci e barbari non esisteva più una contrapposizione di natura politica tra popoli liberi e schiavi, ma emerge l’idea di una vera e propria superiorità etnica dei Greci. Progressivamente la Grecità, il tò Hellenikón di cui parlava Erodoto, viene ad essere considerato sinonimo di cultura e civiltà.

Forme di tutela per gli stranieri

La più antica forma di tutela per gli stranieri fu la xenia: si trattava di una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità, che prevedeva la mutua assistenza. Il prosseno era un cittadino che, risiedendo nella sua città d’origine, rappresentava la comunità straniera che gli aveva conferito tale incarico. In ambito sacrale, la principale forma di tutela dello straniero era costituita dall’asylía. Inizialmente l’inviolabilità riguardava solo lo hieròn ásylon, cioè il luogo sacro, ma in seguito tale concessione fu inclusa anche nella legge dello stato.

Presto si manifestò in Grecia l’esigenza di stabilire delle condizioni di tutela idonee per coloro che erano costretti a viaggiare da una città all’altra per motivi di lavoro. Comunque, lo straniero di passaggio nella polis ateniese godeva di alcuni diritti, come quello di svolgere traffici commerciali nell’agorá, di usare pascoli in territorio ateniese, di possedere immobili e di sposare una donna attica. Ma queste ultime due concessioni, che incoraggiavano la stabilizzazione nella città, erano molto eccezionali.

L’istituto che senza dubbio fu il più importante per la tutela degli xenoi fu la metoikía. I meteci erano stranieri, di stirpe greca, che si stabilivano in Atene per motivi commerciali. In pratica erano degli xenoi, ma grazie a questa particolare istituzione potevano godere di alcuni diritti.

Esistevano dunque delle forme di tutela per gli stranieri di stirpe greca, gli xenoi, ma anche quando queste concessioni passarono dalla forma dell’accordo privato a un’istituzione pubblica, comunque, rimaneva fondamentale conoscere una persona fidata nella città nella quale ci si doveva recare per lavoro. Anche per gli esuli esistevano delle forme di tutela, che di solito consistevano nel chiedere ospitalità ad un’altra comunità politica, anche se in realtà la massima aspirazione degli apolidi era costituita non dall’integrazione in un nuovo contesto politico, ma dal ritorno alla propria comunità d’origine.

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