Lo straniero venuto dal mare: significato e implicazioni
L’onda di piena dei migranti scuote l’Italia e la mette di fronte al dilemma dell’accoglienza. Ricevere a oltranza e rischiare di essere sommersi, o respingere per arginare la marea e porre fine agli effetti collaterali di Frontex?
Gli episodi sono nuovi ma la questione viene da molto lontano. E per leggere fino in fondo il tumulto delle nostre emozioni, la confusione nella quale ci troviamo, può essere utile fare un passo indietro, verso la sorgente dei nostri valori e dei nostri timori.
Le radici storiche del concetto di straniero
Visto che in realtà, sin dall’antichità, lo straniero è l’ospite ma potenzialmente anche il nemico. E questa doppia possibilità è scritta a chiare lettere nelle parole chiave delle civiltà mediterranee, quelle che hanno permeato la nostra cultura e formattato il nostro immaginario.
Basti pensare che il latino hostis significava lo straniero ma anche il nemico. Una parola che è stata a doppio taglio per molti secoli della storia di Roma, prima che comparisse il vocabolo hospes, che equivale al nostro ospite. E il greco xenos (da cui espressioni come xenofobia) indicava il forestiero da accogliere e onorare, ma anche lo sconosciuto di cui verificare l’integrabilità.
Il che vuol dire che ci troviamo di fronte a figure inestricabilmente intrecciate sin dai primi passi delle nostre civiltà. Insomma, il dilemma dell’accoglienza non nasce oggi. Perché il rapporto con chi viene da fuori oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile.
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L'importanza della regolamentazione
È la regolamentazione della relazione a stabilire il giusto equilibrio tra respingimento e accoglimento. Per evitare che l’arrivo di altri uomini diventi un’epidemia inarrestabile.
È significativo che il mito e la tragedia greca usassero proprio la parola “epidemie” per definire i rituali riservati agli dèi forestieri. Come Dioniso, l’altro per antonomasia, il nume sconosciuto che giungeva inatteso dal mare. Alla deriva su un’imbarcazione di fortuna. Come i gommoni di ora, privati di motore e timone da trafficanti senza scrupoli.
I rituali epidemici prevedevano una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente ricacciata indietro. Così la parola del passato che, dalle sue profondità lontane, parla di noi nel suo presente-remoto anticipando ciò che stiamo vivendo oggi.
Secondo il celebre grecista Marcel Detienne, il termine epidemia, in origine, non apparteneva al vocabolario della medicina ma a quello della religione e indicava l’irruzione di una potenza ignota. Una teoxenia. Letteralmente la manifestazione di un dio estraneo.
In realtà nel Mediterraneo antico, l’ospite era sacro proprio in quanto in lui poteva nascondersi il dio. Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, dice Omero nell’Odissea. Insomma l’arrivo di forestieri, mortali o immortali, è un chiodo fisso delle mitologie e delle religioni proprio perché esprime in linguaggio figurato il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della mescolanza. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi della globalizzazione.
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Non a caso il patto di ospitalità che legava l’abitante della polis greca al forestiero si chiamava xenía ed era posto sotto la protezione di Dioniso. In virtù di questo patto, il cittadino si faceva garante del nuovo arrivato nei confronti dell’intera comunità accogliente.
Tutto questo sembra dire che, ora come allora, l’apertura è indispensabile, ma non può essere incondizionata. Nemmeno i Greci, che pure avevano il culto dell’ospitalità, accoglievano tutti e in tutti i casi. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto e perciò tutelato dalle leggi civili e dalle norme morali, da quello che noi chiameremmo clandestino, profugo, migrante economico. La vera sfida del presente è di immaginare forme di xenía a misura di questo tempo. Per fronteggiare la diaspora globale in atto, con nuove norme in grado di conciliare sicurezza e umanità.
L'Altro: una figura inquietante
Esiste una figura che da sempre inquieta e tormenta l’uomo: l’Altro. Quello che oggi, con paura, chiamiamo “straniero”. E così come questo termine ha una lunga storia e svariate declinazioni, anche il tipo di rapporto che abbiamo scelto di avere con esso è mutato, conservando però il suo carattere estremamente contraddittorio.
Partire dal mito e scegliere: essere Nausicaa o Polifemo? Nonostante questi poetici esempi l’antichità stessa è stata, nei confronti dell’Altro, sempre profondamente contraddittoria.
Il mito infatti trasfigura il reale, idealizzando tutta una serie di valori che nella pratica politica e sociale delle poleis greche era ben più complessa: parallelamente alla legittimazione “mitica” dell’ospitalità l’uomo greco riteneva altrettanto sacra l’autoctonia. Lo straniero doveva sì essere ospite, ma allo stesso tempo egli restava sempre anche “diverso” e, in qualche modo, inferiore. Lo era lo xenos, straniero in quanto proveniente da un’altra città stato, e lo era ancor di più il barbaros, colui che non apparteneva alla grecità.
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L’orizzonte entro il quale ci muoviamo oggi discende anche da tale complessità, e a meno di non scegliere di recidere di netto il legame con queste categorie rimaniamo costretti a farci i conti: forse, almeno inizialmente, il problema non è tanto guardare a chi sia lo straniero, l’Altro, il diverso; il problema non è tentare di trovare in lui la minaccia ad una libertà di cui non comprendiamo nemmeno il significato. Il problema è quello di decidere chi vogliamo essere noi: Nausicaa, o Polifemo?
Approccio interdisciplinare allo studio dello straniero
Un’analisi che abbia come oggetto di indagine la figura dello straniero, nei termini di ricezione dell’alterità e di meccanismi che ne identificano le peculiarità, si apre ad un’operazione interdisciplinare e incrociata, che proietta le problematiche in prospettiva tanto diacronica quanto sincronica.
La collaborazione di più settori disciplinari pare inevitabile per delineare e approfondire una figura, quella dello straniero, complessa e articolata, la cui comprensione non può esaurirsi efficacemente nell’ambito di un’unica disciplina. Per tale ragione uno studio esaustivo deve toccare trasversalmente e dialogicamente più settori: dalla letteratura all’antropologia, dalla psicoanalisi alla sociologia, dalla geografia all’imagologia.
Quest’ultima disciplina, di recente istituzione, nasce proprio in seguito alla necessità di analizzare l’immaginario sociale a partire dalle rappresentazioni visive. L’imagologia tenta di comprendere le strutture, i meccanismi di mitopoiesi, i pregiudizi e le valutazioni che si sedimentano nell’inconscio di una società attraverso lo studio delle immagini che vengono prodotte del Sé e dell’Altro.
La densità dei rimandi culturali, storici e sociali fa dell’alterità una delle tematiche privilegiate dei cultural studies e della letteratura comparata, quest’ultima da sempre attenta alle relazioni interculturali che si instaurano tra le varie letterature. Da una parte si osserva che la costruzione dell’identità del Sé e dell’Altro, lungi dall’essere fissa e immutabile, subisce nel corso dei secoli continue trasformazioni; dall’altra che la modernità elabora delle prospettive di approccio allo studio sempre meno etnocentriche o comunque più dialettiche tra il “noi” e “gli altri”.
Entrambi questi approcci forniscono informazioni speculari sulla percezione del Sé e sui paradigmi che una cultura produce per definire, nella dialettica di opposizione e assimilazione, la propria identità. Proprio la letteratura, per la sua costante osmosi con l’immaginario collettivo da cui trae materiale narrativo, rielabora lo stereotipo dello straniero attraverso innumerevoli sfaccettature: principalmente come mitopoiesi di un Altrove lontano e vagheggiato, fuori dal tempo e dalla Storia, simmetricamente antitetico al nostro mondo, al quale si ha accesso il più delle volte attraverso il racconto di una voce esterna.
Lo stereotipo dello straniero
La prima griglia d’accesso alla comprensione dell’Altro è, dunque, quella dello stereotipo (letteralmente, dall’etimologia, “immagine rigida”). Lo stereotipo, paradossalmente, viene utilizzato maggiormente per conoscere le realtà con le quali vi è contatto diretto, in cui lo straniero è un membro della comunità, ma pur condividendo gli stessi spazi del Noi, rimane ai margini dei processi di integrazione sociale e culturale.
Questo racchiude perciò in sé l’ossimoro di lontananza e vicinanza, espresso con la felice definizione di «straniero interno». Rientra nella tipologia di straniero interno la figura dell’ebreo, al quale il peccato di deicidio non verrà mai perdonato dall’Occidente cristiano.
La tipizzazione dell’ebreo si modella sui tratti del demonio, il grande Altro della cristianità, con tutti i corollari che ne derivano: avidità, avarizia, ambiguità sono i tratti che più comunemente lo caratterizzano.
Una trasposizione in ambito letterario di questo stereotipo è dato dall’opera teatrale di Shakespeare, Il mercante di Venezia. In questo caso è proprio l’ebreo a dare voce attraverso le sue parole all’immagine stereotipata che i cristiani hanno fatto propria, sedimentandosi come verità storica e immutabile.
La rivendicazione dello statuto di umanità è al centro del monologo di Shylock e il tentativo del personaggio è proprio quello di svuotare la natura del pregiudizio calcando sui tratti di somiglianza che comprendono ebrei e cristiani nel più ampio contenitore del genere umano. Le implicite conseguenze che sono sottese alle parole del personaggio aprono una breve parentesi, che, in questo momento di lucida consapevolezza, ha il compito di sottrarre l’individuo all’indifferenziata omologazione del suo stereotipo.
Se in questo esempio è la letteratura che ha tratto materiale di rappresentazione dalla realtà, estrapolandone alcuni oggetti e riassemblandoli grazie all’elaborazione poetica, è pur vero che anche la realtà costruisce i propri miti a partire dall’iconografia della letteratura. È quanto avviene nei resoconti dei viaggi in luoghi lontani dall’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento, che favoriscono una vera e propria mitopoiesi dell’Altro, esasperandone l’aspetto esotico ed eterogeneo.
La conseguenza è una sovrapposizione di dati empirici e trasfigurazione fantastica, di estrema suggestività, che condizionerà inevitabilmente l’approccio mentale allo straniero e le griglie valutative della ricezione.
La colonizzazione dell’immaginario occidentale di forme stereotipate dell’alterità è evidente soprattutto nella creazione del mito dell’Africa, quale terra selvaggia e da “civilizzare”. La ricezione dell’Africa come territorio allo stato di “natura”, privo di forme proprie di organizzazione sociale e politica, crea terreno fertile per la mitopoiesi dell’altrove come rovescio, al tempo stesso ideale e inquietante, del proprio mondo.
È quanto avviene ad esempio nella costruzione occidentale del Congo belga, dove l’Altrove, nella sua verginità dalle sovrastrutture della modernizzazione e della cultura, offre il pretesto per una proiezione mitica del Sé primitivo, in un tempo e uno spazio perduti, il cui contatto consente una sorta di purificazione.
Tracciare, quindi, un percorso sulla figura dello straniero comporta una riflessione sui binarismi e sui corollari della cultura occidentale, considerando che l’accezione di “straniero” si crea sempre rispetto a qualcuno che osserva e che si pone in antitesi con il proprio essere “nativo”. L’estraneità riguarda quindi l’oggetto al quale viene dato il taglio prospettico dello sguardo esterno, in una posizione di dominanza e di estraneità rispetto all’oggetto osservato.
Tanto il nativo quanto lo straniero sono estranei l’uno all’altro ed è questa «reciprocità» che determina un doppio filo, legandoli pur nella scissione irriducibile che li confina in mondi distanti.
Attorno al binarismo originario di nativo/straniero ne ruotano altri che ne sono emanazione diretta, quali, ad esempio: dentro/fuori, bene/male, identità/alterità. Ne consegue, nel dominio di una logica manichea, che il primo abbia sempre una connotazione positiva, prioritaria rispetto al secondo termine che si pone in una posizione di inferiorità ontologica e speculativa.
Questa impostazione di analisi che, per usare una metafora ottica, potrebbe essere indicata come “messa a fuoco”, è ascrivibile ad una impostazione di pensiero connaturata all’Occidente, sulla quale ha fondato le premesse teoriche e di metodo, traducendosi come binaria e oppositiva.
Tuttavia la dicotomia fin qui presa in esame mantiene la sua vitalità e la sua validità conoscitiva perché permette di polarizzare, in maniera simmetrica e schematica, una dinamica che sta alla base della creazione identitaria del Sé e per converso di quella che le si oppone, l’Altro.
Il rapporto con l’alterità è stato ampiamente sfruttato dalla letteratura e dalle arti per le molteplici sfaccettature di questo tema e per la ricchezza di rimandi a discipline quali la psicoanalisi e la filosofia. Infatti anche la teoria della letteratura nel Novecento ha compiuto un’operazione di traslazione, a partire dallo straniero per arrivare allo straniamento, adottando quest’ultimo come categoria autonoma del processo creativo.
Lo straniamento, così come formulato dai formalisti, indica un cambiamento nella percezione che sottrae un oggetto alla normale fruizione del senso comune. Il risultato è una visione nuova, eterodossa, che è propria dell’arte e dei processi creativi. La comune matrice morfologica tra i due termini mostra come siano stati selezionati alcuni elementi che delineano gli aspetti fondanti dell’estraneità: la deviazione rispetto alla norma, l’obliquità dello sguardo, l’interiorizzazione dell’alterità.
Lo straniero può essere una minaccia consapevole o una pedina del caso ma il contatto con l’estraneità è pur sempre un’esperienza che scardina la dimensione delle certezze, anche quando non proietta un’alternativa o non la realizza.
Analisi di opere letterarie
Verranno presi in esame in questa sede tre esempi di testi tra Otto e Novecento in cui la figura dello straniero è sia ingrediente narrativo sia catalizzatore di senso, quindi protagonista implicito o reale della narrazione. I testi scelti per quest’analisi sono eterogenei: La donna del mare di Henrik Ibsen, Teorema di Pier Paolo Pasolini e L’immoralista di André Gide.
Le tipologie attraverso le quali i protagonisti entrano in contatto con lo straniero sono molteplici e diverse per il valore finale e lo scopo perseguito dalla narrazione: l’incontro può avvenire per un’irruzione dell’alterità nella quiete di un’esistenza normale (Teorema), oppure in seguito al desiderio di ricerca e di fuga, soprattutto da se stessi (L’immoralista), o ancora lo straniero può non entrare fisicamente in contatto con il soggetto, ma essere presente sotto forma di ombra, come spettro dell’inconscio, con tutta la sua portata di alterità perturbante (La donna del mare).
L’antecedente più illustre di questa figura, nella trattazione letteraria, è rappresentato dalla tragedia di Euripide, Medea. Nel testo sono ravvisabili tanto l’accezione di straniero come diversità culturale, etnica e identitaria, tanto quegli aspetti connessi all’inquietudine che contornano la diversità.
Medea infatti esemplifica il contrasto nativo/straniero in maniera simmetrica e speculare rispetto al mondo greco. Se quest’ultimo infatti, quello dei nativi, è connotato dalla razionalità del pensiero e dal rispetto delle norme sociali e giuridiche, l’altro, quello di Medea, è corredato di attributi minacciosi quali la trasgressione, la magia, l’inganno che si spingono sino alla violazione dei legami familiari più sacri. La configurazione di Medea come “barbara” reca con sé una sfumatura di significato che rimanda a un mondo selvaggio, pre-razionale dove il logos non è ancora intervenuto tra gli uomini come istanza ordinatrice e normativa.
Quello che accomuna le tre opere è lo spostamento del conflitto Sé/Altro su una dimensione privata in cui svolge un ruolo primario la contrapposizione tra natura e cultura (con tutte le possibili declinazioni che questa binomia comporta).
La donna del mare di Ibsen
La donna del mare di Ibsen (1888) eredita alcuni elementi dalla Medea, tuttavia arricchisce i personaggi della protagonista e dello straniero di risvolti psicoanalitici che sembrano anticipare le teorie di Freud sul perturbante di qualche anno più tardi. Inoltre questo dramma compendia delle questioni proprie dell’età borghese ed estranee al mondo di Euripide: se, infatti, da una parte ritorna «la fatalità minacciosa, l’ἀνάγκη greca», dall’altra è protagonista «il dissidio tra il godimento che l’uomo cerca e la virtù che deve praticare, tra la società presente che offre il primo e non ha l’altra e la società futura e ideale, che sarà virtuosa ma non felice».
Inoltre, rispetto al modello greco preso in considerazione, il contrasto oppositivo non è esterno, tra due culture irrimediabilmente lontane, ma interno, tra la borghesia e lo stato di natura. La tensione tra identità e alterità si svolge soprattutto nell’animo della protagonista, all’interno di una scissione che la porterà sull’orlo dell’abisso. Ellida racchiude infatti in sé entrambe le polarità (è borghese e straniera al contempo) e questo fa di lei un essere ibrido, la cui metafora si ritrova nella figura della sirena, per metà umana e per metà essere marino, alla quale viene associata.
Per Ellida lo straniero non è una realtà fisica, o almeno lo è stata ma non lo è nel tempo presente, eppure la sua presenza latente e costante è fonte di grande turbamento per la giovane donna. Anche tra Ellida e lo straniero c’è stata una relazione amorosa ma non sono la gelosia, la vendetta, l’amore non più corrisposto a far detonare la narrazione.
Per la protagonista il suo vecchio amore, lo straniero, è un tutt’uno con il mare dal quale è venuto, e in cui sembra essere stato risucchiato, e del mare ne condivide le caratteristiche: l’assenza di confini, quindi di regole, il movimento continuo, la libertà assoluta priva di restrizioni (quelle borghesi nel caso di Ellida). Tutto ciò crea nell’animo della donna una lacerazione irriducibile, nel binomio di attrazione e repulsione verso l’ignoto che l’alterità dello straniero rappresenta.
Se esiste una dimensione del tradimento, per continuare il parallelismo con Medea, è quella della donna che ha respinto la sua natura di “donna del mare” per assumere lo status di legittima moglie di Wangel, un medico, un borghese.
La ricomparsa improvvisa dello straniero e l’invito a seguirlo costituisce una sorta di drammatizzazione del ritorno del rimosso; rimosso che già si era affacciato in precedenza, avvertendone la presenza e oggettivandola nel dettaglio degli occhi del figlio di Ellida, morto prematuramente.