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Neil Peart: Il Viaggio alla Ricerca di Sé in "Ghost Rider"

Ah, i Rush. Peart, in particolare, ha letteralmente rivoluzionato il mondo della batteria nella musica rock. Ma forse pochi sanno che una persona schiva e silenziosa come lui possa anche aver scritto dei libri. Neil era un amante dei viaggi, lo era diventato in particolare dopo aver scoperto l’amore per le motociclette.

La risposta risiede nella sensibilità di ognuno nei confronti di talune situazioni: il vero viaggio intrapreso dal batterista dei Rush - esiste la possibilità di un tour per il Loro quarantunesimo anniversario nel 2015 - non è quello che compie in moto, dal Canada attraverso gli Stati Uniti e oltre ancora, ma quello alla ricerca di se stesso, dopo il dilaniante dolore legato alla perdita della figlia Selena e della moglie Jackie, rispettivamente per un incidente stradale e per un tumore.

Un Viaggio per Esorcizzare il Dolore

Due batoste incredibili, nel giro di poco tempo: l’unico modo per metabolizzarle ed esorcizzare la moltitudine dei demoni in agguato viene ritenuto quello di cavalcare una motocicletta e andarsene via, senza una meta precisa, in solitudine, sperando di riconoscersi ancora. 80.000 chilometri per quattordici mesi di durata: Canada, Usa, Messico, Belize per poi risalire. Ad accompagnare il drummer del combo canadese il fido diario di bordo, ove vengono annotati i tratti salienti delle varie esperienze, positive e negative, con un’onestà di fondo disarmante.

Paesaggi mozzafiato, piante, animali, una natura tutta da scoprire, persone conosciute, intoppi e pezzi di ricambio, oltre alle lettere indirizzate all’amico Brutus, compagno di tanti viaggi passati ma assente perché incarcerato. Il Viaggiatore Fantasma porta in dote un uomo, non una Star del music biz, con le fragilità di ciascuno di noi. Il protagonista appare addirittura imbarazzante in certi momenti nei quali si spoglia di qualsivoglia retorica e si mette a raccontare senza alcun freno inibitore, elargendo particolari a profusione.

La traduzione del romanzo originale (Ghost Rider - Travels on the Healing Road) è stata effettuata, con la consueta cura per i particolari tipica dei prodotti Tsunami Edizioni, da Stefania Sarre.

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La Partenza: Un Nuovo Inizio

Outside the house by the lake the heavy rain seemed to hold down the darkness, grudging the slow fade from black, to blue, to gray. As I prepared that last breakfast at home, squeezing the oranges, boiling the eggs, smelling the toast and coffee, I looked out the kitchen window at the dim Quebec woods gradually coming into focus. Near the end of a wet summer, the spruce, birch, poplars, and cedars were densely green, glossy and dripping. For this momentous departure I had hoped for a better omen than this cold, dark, rainy morning, but it did have a certain pathetic fallacy, a sympathy with my interior weather. In any case, the weather didn’t matter; I was going. I still didn’t know where (Alaska? Mexico? Patagonia?), or for how long (two months? four months? a year?), but I knew I had to go. My life depended on it.

Sipping the last cup of coffee, I wrestled into my leathers, pulled on my boots, then rinsed the cup in the sink and picked up the red helmet. I pushed it down over the thin balaclava, tightened the plastic rainsuit around my neck, and pulled on my thick waterproof gloves. I knew this was going to be a cold, wet ride, and if my brain wasn’t ready for it, at least my body would be prepared. That much I could manage. The house on the lake had been my sanctuary, the only place I still loved, the only thing I had left, and I was tearing myself away from it unwillingly, but desperately. I didn’t expect to be back for a while, and one dark corner of my mind feared that I might never get back home again. This would be a perilous journey, and it might end badly. By this point in my life I knew that bad things could happen, even to me.

I had no definite plans, just a vague notion to head north along the Ottawa River, then turn west, maybe across Canada to Vancouver to visit my brother Danny and his family. Or, I might head northwest through the Yukon and Northwest Territories to Alaska, where I had never travelled, then catch the ferry down the coast of British Columbia toward Vancouver. Knowing that ferry would be booked up long in advance, it was the one reservation I had dared to make, and as I prepared to set out on that dark, rainy morning of August 20th, 1998, I had two and a half weeks to get to Haines, Alaska - all the while knowing that it didn’t really matter, to me or anyone else, if I kept that reservation. Out in the driveway, the red motorcycle sat on its centerstand, beaded with raindrops and gleaming from my careful preparation. The motor was warming on fast idle, a plume of white vapor jetting out behind, its steady hum muffled by my earplugs and helmet.

I locked the door without looking back. Standing by the bike, I checked the load one more time, adjusting the rain covers and shock cords. The proverbial deep breath gave me the illusion of commitment, to the day and to the journey, and I put my left boot onto the footpeg, swung my right leg high over the heavily laden bike, and settled into the familiar saddle. My well-travelled BMW R1100GS (the “adventure-touring” model) was packed with everything I might need for a trip of unknown duration, to unknown destinations. Two hard-shell luggage cases flanked the rear wheel, while behind the saddle I had stacked a duffel bag, tent, sleeping bag, inflatable foam pad, groundsheet, tool kit, and a small red plastic gas can. I wanted to be prepared for anything, anywhere.

Because I sometimes liked to travel faster than the posted speed limits, especially on the wide open roads of the west - where it was safe in terms of visible risks, but dangerous in terms of hidden enforcement - I had decided to try using a small radar detector, which I tucked into my jacket pocket, with its earpiece inside the helmet. A few other necessities, additional tools, and my little beltpack filled the tankbag in front of me, and a roadmap faced up from a clear plastic cover on top.

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Il Viaggio Come Terapia

Mettere in pausa a tempo indeterminato i Rush, abbandonare la casa immersa nei boschi canadesi troppo piena di ricordi, mettersi in sella alla sua BMW GS1100 e partire. Il viaggio è raccontato in forma di diario e di lettere spedite a parenti amici, tra i quali Brutus, eterno compagno di viaggi in moto, che, dalla gattabuia in cui è per motivi ignoti residente, come noi può soltanto leggere dei posti e delle avventure vissuti da Neil.

Peart è comunque del tutto concentrato sulla “strada” che sta percorrendo, tutto ciò che è venuto prima è come se facesse parte di un’altra vita. Quando parla di Alex e Geddy dei Rush, ne parla come di amici e colleghi; i racconti inerenti la band sono solo funzionali alla narrazione, riprendendo viaggi vissuti durante i tour e mettendoli a confronto con quello in corso.

Ciò che è stato, ciò che è e ciò che sarà sono punti focali per l’autore, che vede nascere nuovi “personaggi” dalla sua singola persona, con desideri ed istinti talvolta diversi e marcatamente in contrasto tra loro. Tutte le paure e i dubbi maturati lungo la strada si concretizzano nel momento in cui, arrivato a casa, varca la porta. E questo evento è suggellato da due parole.

Solitudine e Incontri Lungo la Strada

Ma il viaggiatore fantasma non è soddisfatto. La sensazione è che lungo la strada Neal sia solo, in realtà è più probabile che si focalizzi sui momenti solitari. Incontra amici e parenti, anche della famiglia della moglie, ma i racconti di questi episodi sono spesso sommari e relativamente sbrigativi. Come se fossero dei momentanei sospiri di sollievo, più che elementi funzionali al viaggio.

Il viaggiatore fantasma dunque giungerà mai alla meta finale? I fan dei Rush conoscono già la risposta. Possiamo dire che la risposta sia positiva e che l’integrità sarà nuovamente trovata nell’amore e vissero felici e contenti. Ma non tutti lo capiranno e lo apprezzeranno.

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Cosa Rimane di Questo Viaggio?

Cosa rimane a noi di questo viaggio? L’onestà e l’intimità messi su carta ritraggono una persona autentica, un amico col quale potremmo aver condiviso decine di birre al pub vicino casa. Un amico che con gusto e con sorriso bonario ci racconta di quello che “vediamo” e “scopriamo” insieme a lui. Va detto, infatti, che il mood del libro non è assolutamente depresso e pessimista. Sicuramente introspettivo e sofferto, con momenti cupi, ma con lo sguardo volto in avanti e rivolto al mondo circostante.

Come nota personale, non posso negare che aver letto un libro simile proprio durante la clausura da Covid-19, accompagnandolo con la costante ricerca delle fotografie dei posti visitati e delle mappe dei tragitti percorsi, abbia avuto un impatto su di me ancora più forte.

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