Ero straniero e mi avete accolto: il significato di accoglienza e alterità
Val più essere stranieri che accogliere gli stranieri. L’esperienza di fede e di liberazione fondamentale dell’AT è l’esodo, l’uscita da un paese straniero per porsi in cammino verso una terra che sarà donata dal Signore e di cui si resta in attesa mentre si cammina verso di essa.
Questo cammino è rischioso e pieno di pericoli e si configura come un cammino attraverso un deserto, attraverso una terra che non solo non è di propria appartenenza, ma è inospitale. Il credente è, potremmo dire, un senza patria. La sua esperienza umana e spirituale avviene proprio in via, lungo il cammino verso la terra promessa, verso il Regno.
In particolare, il cristiano si situa nella storia attendendo la venuta del Cristo nella gloria, camminando verso una meta che sarà solo dono del Signore, quel regno di Dio che è comunione piena con Dio per sempre. Questo evento escatologico, la parusia, investe la situazione della chiesa nella storia e la colloca nel mondo quale straniera e pellegrina.
Queste condizioni, xenitéia (= stranierità) e paroikía (= peregrinazione), sono costitutive della chiesa, sono criterio discriminante di chiesa e non-chiesa. E devono rientrare nella vita spirituale, nella fede di ogni cristiano. Cercherò dunque di svolgere una riflessione di taglio spirituale su questa dimensione: i cristiani come stranieri e pellegrini.
Dimensione che può apparire «strana», inconsueta, ma che non è affatto periferica alla fede cristiana. Anzi, ci è ricordata perfino dalla lex orandi del tempo liturgico dell’Avvento. La partecipazione a questo sacramento che a noi, pellegrini sulla terra rivela il senso cristiano della vita ci sostenga, Signore, nel nostro cammino e ci guidi ai beni eterni. Per Cristo nostro Signore.
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Il problema dello straniero: accoglienza e paura
Evocare il tema dello «straniero» significa pressoché inevitabilmente, nella società e nella chiesa di oggi, riandare al problema umano e sociale, politico e giuridico degli stranieri immigrati e della loro accoglienza. Questo è un aspetto rilevante e anche drammatico del problema, e sollecita una risposta da parte del cristiano - più che mai nel contesto attuale di nuove migrazioni di popoli, di spostamenti di masse di profughi e di ridisegnazione dei confini geopolitici di diversi stati, nel quale molte società si configurano sempre più come multietniche (1) -, e tuttavia rappresenta solo un aspetto, che rischia di ammortizzare l’inquietante interrogativo che lo straniero costituisce per noi.
Tanto più che lo scenario che anche 1’Italia comincia a presentare è quello della contiguità con stranieri radicalmente estranei per lingua, razza, cultura, religione, costumi, etica. Lo straniero appare portatore di un’alterità tale che può infondere paura. E questa paura deve essere presa sul serio, non derisa o sottovalutata come a volte avviene in certi ambienti che pure mostrano grande generosità e solidarietà.
Lo sconcerto provocato dalla presenza di uno «straniero» ci è rivelato in molti testi dell’antichità classica greco-romana che descrivono lo straniero facendo ricorso alle categorie della bruttezza e della grandezza spropositata. Scrive Maurizio Bettini facendo riferimento soprattutto a descrizioni presenti nell’Eneide e nel Satyricon: «Quando compare all’orizzonte del “nostro” mondo, lo straniero è un essere incomprensibile.
Talora si stenta persino a riconoscergli la caratteristica stessa d’uomo ... Il fatto è che l’aspetto stesso dello straniero, il suo primo e inevitabile impatto, quello visivo, turba chi gli si fa incontro. Quasi certamente il suo volto, i suoi capelli, il colore della sua pelle, la sua taglia, fuoriescono (per eccesso o per difetto) dalla misura che “noi” riteniamo sia quella giusta.
Quella misura che H. Hoetink (2) definiva “somatic norm image”, per indicare l’immagine distinta e precisa che ciascuna società, o segmento di società, si fa della forma appropriata, ideale e perfetta dell’apparenza fisica e umana ... Lo straniero non è un uomo. Lo straniero è brutto. In ogni caso è diverso, altre volte appare addirittura “più grande”»(3), dove ingens indica non solo la grandezza spropositata, ma l’inaudito, il «mai visto».
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Qualcosa di analogo ci è presentato nella biblica descrizione che gli esploratori - uno per ciascuna tribù dei figli d’Israele -, inviati da Mose a fare una ricognizione in terra di Canaan, forniscono degli abitanti di tale terra: «Il paese che abbiamo attraversato per esplorarlo è un paese che divora i suoi abitanti; tutta la gente che vi abbiamo notata e gente di alta statura; vi abbiamo visto i giganti, figli di Anak, della razza dei giganti, di fronte ai quali ei sembrava di essere come locuste e così dovevamo sembrare a loro» (Nm 13,32-33).
Coloro che vediamo per la prima volta ei appaiono difformi, più grandi. Dunque l’alterità dello straniero incute timore, turba, viene valutata in termini di bruttezza o di sproporzione, in base ai «propri» parametri di armonia e bellezza a cui viene inconsciamente attribuita una valenza universale a cui evidentemente non possono aspirare.
Ma vi è di più. «Quando arriva, lo straniero è un enigma. Non solo è diverso, brutto o più grande. Soprattutto lo straniero non comunica. Improvvisamente si rinchiude in un misterioso alveare, scambia con i compagni segnali incomprensibili e con loro si intende, tant’è vero che subito sciamano verso imprese comuni e imperscrutabili: ma “noi” non capiamo.
Lo straniero parla una lingua che non si conosce, e quando muove la testa sembra ce voglia dire “sì” e invece, nella lingua dei suoi gesti, voleva dire “no”. I malintesi si moltiplicano. Prima o poi si arriverà addirittura alla violenza» (4). Sì, la paura che lo straniero ingenera e le reazioni che suscita sono altamente rivelative.
Accogliere lo straniero: una sfida interiore
II problema dello straniero e della sua accoglienza non è davvero semplicemente logistico o sociologico. E non è neppure solo di ospitalità di colui che per il cristiano è il sacramento del Cristo: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25)! In profondità, lo straniero mi rivela che io stesso sono straniero. La comunione che si instaura tra gli uomini è sempre comunione fra stranieri, a partire dal riconoscimento di questa stranierità che ci accomuna. Tu sei lo straniero. Io sono, per te, lo straniero.
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Lo straniero pone con acutezza il problema dell’alterità e della comunicazione con 1’altro, e ovviamente, della propria identità: la domanda «Chi è l’altro?» suscitata dall’apparire dello straniero si accompagna subito all’altra domanda: «Chi sono io?». A questa dimensione antropologica fondamentale il cristiano deve poi aggiungere un ulteriore elemento - spirituale - inerente la rivelazione cristiana.
Noi cristiani dovremmo chiederci: abbiamo coscienza che noi stessi siamo stranieri? E ne traiamo le conseguenze a livello pratico? In questa prospettiva e alla luce di queste domande emerge chiaramente che una risposta al problema dello straniero immigrato nel senso della pastorale, dell’accoglienza o dell’assistenza ai profughi e doverosa, ma rischia di restare estrinseca: mentre accogliamo lo straniero non possiamo dimenticarci che noi stessi siamo stranieri. Questo infatti è lo statuto del cristiano!
La chiesa non è solo quella che accoglie lo straniero, ma lei stessa è straniera e pellegrina. Né, per risolvere il problema, basta dire che tutti gli uomini sono uguali! Questo semplicemente, non è vero! Per la Bibbia noi possiamo arrivare a considerare anche l’altro più distante che ci sia, cioè il nemico, come un fratello, ma mai come uguale. Questo concetto non è di casa nella Bibbia (7). E neanche nell’antropologia.
Cioè io devo avvicinarmi all’altro non assorbendolo, o uguagliandolo a me ma rispettandolo in tutta la sua radicale differenza. I diritti umani - questi sì, evidentemente, uguali per tutti - devono essere declinati in un’accoglienza rispettosa della differenza culturale, etica, etnica, religiosa, eccetera. Ma accogliere un altro, non può che significare fare avvenire in sé la differenza dell’altro.
Perché la differenza dell’altro è, per il cristiano, portatrice di un seme della parola di Dio, di un riflesso del Lògos, della verità della rivelazione. Il cristiano allora, ben più che uno che accoglie gli altri, è uno che non può fare a meno degli altri, non può stare senza gli altri.
L’antica preghiera cristiana «che io non sia mai separato da te, o Dio» deve passare attraverso il non-senza- l’altro (9). E questo a tutti i livelli, in ogni comunità cristiana (guai a fare le cose senza tener conto degli altri!) nei rapporti Intra-ecclesiali come in quelli inter-ecclesiali, ma anche nella società e nella polis, nell’universo degli uomini creati a immagine di Dio. Solo questo criterio può suscitare una comunicazione ispirata alla comunione!
La chiesa ha dunque un universalismo in quanto ha una vocazione all’esilio, non al possesso o alla fagocitazione, ma a disperdersi attraverso tutti i popoli senza mai identificarsi con un’etnia o con una cultura (10). Cioè, la chiesa è e resta straniera.
La chiesa come straniera e pellegrina
Insomma, il cristiano riconosce nel volto dello straniero una rivelazione e una memoria della propria situazione nel mondo. La categoria di xenitéia, di esilio, sarà poi capitale nei prossimi anni per come si vorrà strutturare la chiesa essendo ormai minoranza in un contesto non cristiano (11) Ed è chiaro che dire stranierità non significa dire fuga dal mondo e dalla storia, né cinismo verso la realtà umane e terrene né disprezzo del mondo, ma piuttosto chiesa umile, povera, aperta, misericordiosa, in stato di conversione e in rapporto di sym-patheía con gli uomini.
Chiesa che accetta di imparare la lingua dell’altro piuttosto di imporre una propria lingua, che accetta di non essere capita piuttosto di costringere gli altri a capirla, che accetta di essere misconosciuta e cacciata, piuttosto di presentarsi come portatrice di una verità assoluta e pretendere di essere accolta e protetta... Il Figlio dell’uomo non aveva dove posare il capo (cf. Lc 9,58), è nato in una grotta perché non c’era posto per lui (cf. Lc 2,7), non c’era luogo di accoglienza, e proprio tra i suoi, «nella sua patria», ha fatto 1’esperienza della stranierità e incontrato il rifiuto e il misconoscimento (cf. Mc 6,1-6).
E che i cristiani siano degli stranieri, la rivelazione biblica ce lo dice a più riprese. Noi vi torneremo quando cercheremo di approfondire il senso spirituale dell’essere stranieri, ma almeno qualche testo lo ricordo già ora. In 1Pt 1,1 il nome dei cristiani è eklektoì parepídemoi diasporâs, cioè “eletti che soggiornano in modo precario (o: “che sono di passaggio”) nella diaspora”. Sono cristiani che si trovano in minoranza in un mondo pagano.
In diversi antichissimi testi cristiani si parla sempre della chiesa che è forestiera a Smirne, Corinto, eccetera. «La chiesa di Dio che dimora come forestiera (paroikoûsa) a Smirne, alla chiesa di Dio che dimora come forestiera a Filomelio e a tutte le comunità, che dimorano da forestiere in ogni luogo» (12) (tre volte il verbo paroikéo). E nella Lettera di Policarpo ai Filippesi: «Policarpo e gli anziani che sono con lui alla chiesa di Dio paroikoûse) a Filippi».
È la chiesa locale che è pellegrina in ciascun luogo, chiamata a testimoniare lì la sua patria celeste, la sua dimensione escatologica, 1’attesa della città futura. I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli altri.
Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri.
Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera. Si sposano come tutti e generano figli, ma non gettano i neonati. Mettono in comune la mensa, ma non il letto. Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Dimorano nella terra, ma hanno la loro cittadinanza nel cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, e con la loro vita superano le leggi.
Amano tutti, e da tutti vengono perseguitati. Non sono conosciuti, e vengono condannati. Sono uccisi, e riprendono a vivere. Sono poveri, e fanno ricchi molti; mancano di tutto, e di tutto abbondano. Sono disprezzati, e nei disprezzi hanno gloria. Sono oltraggiati e proclamati giusti. Sono ingiuriati e benedicono; sono maltrattati e onorano. Facendo del bene vengono puniti come malfattori; condannati gioiscono come se ricevessero la vita. I cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo ...
Il monachesimo e la peregrinatio
La categoria della xeniteía-peregrinatio è importantissima nel monachesimo (15) sia quando è stata vissuta come reale spostamento di luogo, espatrio, cambiamento di sede, sia quando è stata vissuta come atteggiamento essenzialmente interiore e spirituale. Il suo fondamento biblico è visto sempre nella chiamata rivolta ad Abramo (Gen 12,1 ss.): si tratta di lasciare la propria terra e la propria famiglia, la parentela e la patria per andare in un’altra terra dove si sarà stranieri: Abraham...exivit nesciens quo iret (Eb 11,8).
Questa partenza è segno di obbedienza radicale: non ci si premunisce, ma ci si rimette radicalmente al Signore. Ecco allora che i monaci sono coloro che Abrahae patriarchae exemplum secuti sunt, coloro che exsules facti sunt. Secondo il suo biografo (Zaccaria di Sekóou) la vocazione di Giovanni il Nano si fece ascoltare con queste parole: «Esci dal tuo paese e dalla tua parentela e va’ alla montagna di Natrun che è a Scete ...». Dove appare essere già attivo il tópos letterario di Gen 12,1.
I monaci sono un Abramo spirituale, dediti a un interminabile pellegrinaggio. La stranierità è legata alla rinuncia e alla sua radicalità. Rinuncia, innanzitutto, ai beni materiali: exi de terra tua è interpretato da Cassiano in riferimento alla rinuncia ai beni materiali, terrestri; ma poi anche ai famigliari: «Chiunque avrà lasciato campi o fratelli o sorelle o madre o padre o moglie o figli o campi per il mio nome riceverà il centuplo e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 11,29).
Giovanni Climaco definisce la xeniteía come «l’abbandono senza ritorno [irreversibile] di tutto ciò che nella nostra patria ci impedisce di perseguire il fine della pietà» (16). La stranierità si vuole come visibilizzazione di una scelta senza ritorno, del taglio di un cordone ombelicale. E infatti implica la rottura, il distacco dalla famiglia: Peregrini dicuntur quia eorum parentes ignorantur. Per Gerolamo «è impossibile essere pienamente monaco nella propria patria, ... a Cristo.
Accoglienza: Radici bibliche e significato
Le radici bibliche dell’accoglienza affondano nell'invito di Dio ad Abramo: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti farò vedere” (Gen 12,1). Abramo obbedisce, lascia la sua terra e si mette in cammino verso l'ignoto, fidandosi della promessa divina. Più tardi, Abramo stesso accoglie i tre misteriosi viandanti alle querce di Mamre, offrendo loro ospitalità e cibo (Gen 18,1-8). L'autore della lettera agli Ebrei ricorda questo episodio: “Non dimenticate l'ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2).
L'Antico Testamento insiste ripetutamente sull'importanza di accogliere lo straniero, ricordando al popolo d'Israele la propria esperienza di schiavitù in Egitto: “Amerete dunque lo straniero, perché anche voi siete stati stranieri in terra d'Egitto” (Dt 10,34). Questa memoria storica diventa un imperativo morale: lo straniero non deve essere oppresso o sfruttato, ma accolto con generosità e giustizia. Lo straniero è portatore di una peculiare sacralità. Il comandamento “amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lv 19,18) si estende anche allo straniero che risiede in mezzo al popolo d'Israele (Lv 19,33-34).
Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso si identifica con lo straniero: “Ero straniero (xenós) e mi avete accolto” (Mt 25,35). Questa affermazione sconvolgente rivela che l'accoglienza dello straniero è un incontro con Cristo stesso. Gesù accoglie tutti, senza distinzioni: i peccatori, i poveri, i malati, gli emarginati. Egli si fa prossimo a chi è nel bisogno, guarendo le loro ferite e offrendo loro una nuova speranza. L'esempio più emblematico è la parabola del buon samaritano (Lc 10,30-37), che mostra come la vera compassione non conosca confini etnici o religiosi.
L'accoglienza nel giudizio universale
Nel discorso sul giudizio universale (Mt 25,31-46), Gesù indica le opere di misericordia corporale come criterio decisivo per l'ammissione al Regno dei cieli. Tra queste opere, un posto di rilievo è riservato all'accoglienza dello straniero: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Coloro che hanno compiuto queste opere, spesso senza rendersene conto, sono benedetti dal Padre e invitati a entrare nel Regno. Al contrario, coloro che hanno trascurato i bisognosi sono condannati al fuoco eterno. Questo brano evangelico sottolinea l'importanza pratica e concreta dell'amore verso il prossimo, in particolare verso i più vulnerabili e marginalizzati.
L'accoglienza dello straniero non è solo un dovere morale, ma anche un'opportunità di crescita spirituale. Incontrando l'altro, il diverso, possiamo arricchire la nostra prospettiva e scoprire nuovi aspetti della realtà. L'accoglienza richiede apertura mentale, disponibilità all'ascolto e capacità di superare i pregiudizi. È un cammino che porta alla conoscenza di sé e alla scoperta della comune umanità.
La paura dello straniero e la necessità di superarla
L'immigrazione di intere popolazioni straniere nei nostri paesi europei solleva interrogativi: “Perché vengono da noi? Perché così numerosi? Che ne sarà del nostro modo di vivere e di convivere?”. La paura dello straniero è spesso legata alla perdita di identità culturale o religiosa. Tuttavia, come cristiani, siamo chiamati a superare la paura e ad accogliere l'altro come un fratello o una sorella. Siamo chiamati a entrare nella logica della prossimità, dell'ospitare, del soccorrere il prossimo facendosi prossimo.
L'accoglienza non significa rinunciare alla propria identità, ma aprirsi alla ricchezza della diversità. Significa creare spazi di incontro e di dialogo, promuovere la convivenza pacifica e il rispetto reciproco. Come afferma Papa Francesco, l'accoglienza è una sfida, ma anche un'opportunità di crescita per tutti: loro e noi.
Sa Strangìa: la festa dell'ospitalità a Perdasdefogu
Da circa trecento anni, Perdasdefogu riserva una giornata della “festa manna” di settembre ai forestieri, a “Is Istràngius”. Le origini di questa festa dell’ospitalità risalgono ai primi decenni del diciottesimo secolo, allorchè Don Giovanni Corona, curato di questo villaggio povero e isolato del Marchesato di Quirra, ebbe modo di predicare e fissare le regole della buona accoglienza e dell’integrazione sociale. Il clou della festa scatta proprio la sera dell’11 settembre, quando si ha il piacere di ricevere gli ospiti considerati dai foghesini “gente di rispetto”.
Nelle case fresche di tinteggiatura, gli ospiti, is stràngius, quelli che giungono da fuori, vengono accolti con tutti gli onori, cenano e dormono a casa degli amici foghesini, oggi nella stanza riservata agli ospiti, “la stanza buona”, ieri su una stuoia accanto al focolare, come nel 1800 le cronache raccontano facesse Don Giovanni Naitana che accoglieva in sacrestia i viandanti senza tetto e senza amici.
Ostilità e ospitalità: un rapporto antico
Una questione antica quanto l’Occidente, dunque, e scritta a chiare lettere nel vocabolario delle grandi civiltà mediterranee che contiene parole che sono spesso sfumature della stessa questione, come a dire che il rapporto con l’altro che bussa alla nostra porta può oscillare tra un estremo ospitale e un estremo ostile. In latino è uno stesso vocabolo, Hostis, a definire sia l’ospite, sia il nemico, sia lo straniero. Solo più tardi comparirà la parola Hospes col significato esclusivo di ospite, nel senso di colui che viene accolto.
Ciò significa che il rapporto con lo straniero oscilla, per sua stessa natura, come poc’anzi affermato, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. Il celebre antropologo del mondo antico Marcel Detienne sostiene che il termine epidemia in origine non apparterrebbe all’ambito e al vocabolario della medicina, ma a quello della religione arcaica dove, verosimilmente, sarebbe stato impiegato per indicare la manifestazione improvvisa di una persona ignota.
I rituali che lo celebravano, le Epidemie, dionisiache, consistevano per lo più nella messa in scena di una cattiva accoglienza del dio, la cui barca era inizialmente respinta. Se lo sbarco di Dioniso era Epidemia, uno dei nomi di Venere, dea dell’amore e della fusione tra i corpi, era addirittura Pandemia, un nome che racchiudeva in sé tutta l’insidiosa doppiezza dello scambio; scambio che è contatto, evidentemente, ma anche contagio.
Ostilità, Ospitalità, Xenofobia, parole che adoperiamo ancora oggi per parlare di noi e degli altri, derivano, dunque, da uno stesso nucleo di significati che sin dalle origini esprimono tutta la problematicità dell’apertura all’altro. Apertura che è, tuttavia, indispensabile ora come allora, ma pur sempre a certe condizioni.
Lo straniero, afferma Edmond Jabès, ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero. Il rapporto con lo straniero esprime sempre la tensione tra identità e diversità: l’identità del gruppo e la diversità dell’altro. L’atteggiamento nei confronti dello straniero dipende dal carattere più o meno marcatamente identitario e chiuso o aperto verso l’esterno di una cultura; dalla facoltà di una determinata civiltà di aprirsi all’esperienza dell’altro, dal desiderio di superare le proprie barriere identitarie per mescolare noi e gli altri, noi agli altri.
Anche a Perdasdefogu, durante la festa de Sa Strangìa è possibile assistere alla condivisione del cibo, in particolare di una tipologia di pane, su pani urci, il pane dolce, dalla pasta compatta e caramellata all’esterno, arricchito da semi d’anice, cannella, fiori di garofano, noce moscata e finocchietto selvatico, unico nel suo genere per via dei sapori mescolati sapientemente dalle mani delle donne foghesine che ogni anno riscoprono miti e riti antichi attorno ai più svariati valori simbolici, fissando anche un rapporto tra fede e panificazione.
Un pane rituale, sacro e benedetto che non si vende; si dona a chi si ama e si rispetta, e meritevoli di rispetto sono considerati tutti coloro che a settembre accorrono a Sa Strangìa. Un rito di preparazione antichissimo che unisce sacro e profano, religione e paganesimo, preghiere e scongiuri e il cui punto di forza è rintracciabile nella distribuzione e condivisione dei pani.
Il cibo e il pasto, dunque, come segno eloquente di civiltà e dello stare insieme per uno scopo che non è semplicemente il “mangiare” secondo una modalità formale, in alcuni casi rituale, scandito da un ritmo con un inizio, una fine e delle regole che spesso definiamo di buona educazione. Convivialità, dono, festa cerimonialità trovano la loro sintassi più esplicita nel pasto che accomuna, nelle memorie antiche che ritornano, nella tradizionale ospitalità, nelle regole che sottendono a un pasto consumato in comune.
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