Stranieri Come Noi: Un'Esplorazione del Significato dell'Alterità
«Io sono un itinerante, un nomade senza percorso fisso che a volte prende, per caso, delle vie traverse che conducono a paesaggi inediti». Così si definisce Marc Augé, etnologo e figura di spicco nel campo delle scienze sociali, evidenziando come lo sradicamento e l'essere sempre altrove siano tratti distintivi del suo percorso.
La Memoria e il Futuro: Un Ponte tra Passato e Presente
In apertura del suo Straniero a me stesso, Augé pone interrogativi fondamentali sulla memoria e sul ricordo. La persona che ricorda, si ricorda di una realtà erosa e troncata, scolpita dal tempo. Forse proprio per questa ragione, scrive, per tagliare ciò che lega il presente e il futuro a un passato che rischierebbe unicamente di soffocarla.
Siamo portati a credere che il senso provenga dal passato, frugando tra sogni, ricordi e rimorsi. Ma, in fondo, si scrive per il profondo bisogno di gettare ponti e quindi di essere letti, fosse anche da una sola persona. La scrittura, la parola sono fatte proprio per stabilire una relazione. Questo è però un compito che impegna il futuro, comporta un rischio e apre un’avventura. Nessuno conosce realmente il destino delle parole.
Un libro è una specie di bottiglia nella quale poniamo un messaggio, prima di abbandonarlo al mare. Poiché non credo alle fratture generazionali, credo che libri e parole di chi come me ha più di settant’anni possano interessare anche i giovani. La scrittura, infatti, è un ponte nello spazio e nel tempo. È l’atto simbolico per eccellenza.
Quando scriviamo combiniamo due movimenti, li articoliamo. Un primo movimento è rivolto verso il futuro. Scrivere significa strappare il passato al passato, proiettando nel futuro, ossia davanti a noi, la fonte del senso che tutti ci dicono essere dietro di noi. Come detto, abbiamo creduto a lungo che il passato dominasse sul presente e che la storia singolare o collettiva non fosse altro, con alcune eccezioni e contraddizioni, che lo sviluppo del passato.
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Per quanto riguarda la scrittura, questa visione, marxista o psicoanalitica, è riduttiva, perché difetta della scommessa sul futuro. E proprio per questa ragione sono convinto che abbiamo bisogno di scrittura. E abbiamo bisogno di una scrittura che si prenda il proprio tempo, che sposi i movimenti di un tempo che può essere quello della descrizione e della riflessione. L'immagine, al contrario della scrittura, dice tutto e non dice nulla.
Un’immagine non parla, se non la si fa parlare. Per questa ragione, scrivo. Scrivo, inoltre, per essere letto da qualcuno, per stabilire quella relazione che fa di me ciò che sono: io e un altro. D’altra parte, siamo “stranieri a noi stessi” nel senso che, come un etnologo non è mai in completa convergenza di opinioni e sentimenti con la cultura propria o di quelli che sta osservando, la distanza fa parte di noi. La distanza fa parte dell’essere etnologo, ma anche dell’essere scrittore. Distanza da sé, distanza dagli altri.
La Comunicazione e l'Appropriazione
Oggigiorno, si comunica molto. E poco importa se non c’è dialogo formale, tranne in poche occasioni. Ciò che conta è che il lettore si appropri del libro, lo faccia suo, impari, lo critichi, lo interpreti. Si faccia a sua volta autore.
Le immagini fanno inesorabilmente parte del nostro mondo e partecipano alla confusione tra luogo e non luogo. Arriviamo al paradosso di avere bisogno delle immagini per vedere la realtà, di servirci della finzione per darle un significato”. Il dominio delle immagini, delle tecnologie della comunicazione e la sovrabbondanza di "informazione" danno la sensazione di un presente perpetuo e fanno eco alle teorie della fine della storia.
Teorie che suggeriscono che abbiamo trovato la formula ultima per la vita sociale. Oggi questa formula sembra rappresentata dal binomio “democrazia rappresentativa-economia di mercato”. Nello spazio circoscritto da questa “formula”, il neonazionalismo e il riemergere di vecchie ideologie razziste sono considerate deviazioni secondarie, avventure effimere.
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Di tanto in tanto, se necessario un tribunale emette le proprie condanne per i consueti “crimini contro l'umanità”. Ma non per questo siamo al sicuro. Non è infatti scontato che non si stiano riproducendo le illusioni dell'era vittoriana e di un evoluzionismo sociale che secondo i suoi cantori avrebbe dovuto condurci alla felicità.
In effetti il divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri continua a crescere, così come quello tra i più colti e i più ignoranti. Penso che la confusione dei giovani, oggi, derivi dalla coincidenza negativa tra storia individuale e storia collettiva. Ciò che Durkheim chiama il sacro transitava dalla coincidenza particolarmente vissuta e sensibile di queste due storie.
A volte le persone possono sentire che il loro percorso individuale attraversa la storia stessa: è successo nei giorni del Maggio 68, con la fine del regime franchista in Spagna, o con la caduta del muro di Berlino. Oggi indignados si uniscono per mostrare le difficoltà della loro vita individuale e cercare di “fare” simbolicamente la storia, non riuscendo a incontrarla. Riusciremo a mantenere una capacità di “fare luogo”, quanto più non rinunceremo a vivere.
Stranieri a Noi Stessi: Un Viaggio Attraverso la Mente Umana
Nel libro "Stranieri a noi stessi" di Rachel Aviv, si esplora la mente di cinque individui, segnati da esperienze di malattia mentale. L’opera di Aviv è decisamente particolare e accattivante, capace al contempo di delineare storie personali facendo percepire le loro ombre come universali e intrecciandole con definizioni e citazioni mediche, come trama e ordito di una grande tela.
Incontriamo Ray, medico caduto in disgrazia e con un rapporto complesso con gli antidepressivi; Bapu, donna indiana venerata negli ashram e con una diagnosi di schizofrenia; Naomi, giovane donna nera, cresciuta in un quartiere popolare e madre di quattro figli; Laura, promettente studentessa dai brillanti risultati accademici e un sacco di punti interrogativi sulla propria identità; e infine Hava, la cui “carriera” nell’anoressia ha avuto esiti molto diversi da quella di Aviv.
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Il filosofo Ian Hacking usa il termine “effetto circolare” per descrivere il modo in cui le persone rimangono intrappolate in storie sulla malattia che si autoavverano. Una nuova diagnosi può cambiare «lo spazio di possibilità per senso che si ha di sé». Quanto può essere confortante e liberatoria una diagnosi quando tutto ciò che sentiamo è un vuoto dentro, un malessere la cui origine non è percepita come immediatamente fisica? Può incasellare il caos, inquadrare la situazione, riportare nel binarismo di causa-effetto.
Ma quanto questa diagnosi incide sul senso di sé, sull’identità, e quanta umanità scompare dietro un’etichetta? Nelle storie raccontate da Aviv, specialmente in quella di Ray e di Hava, ci si imbatte spesso in questa domanda. Non solo: anche il linguaggio per descrivere la malattia mentale spesso appare inadeguato e castrante. Questo accade specialmente quando nel libro si prendono in esame anche aspetti socio-culturali legati alla salute mentale: la storia forse più emblematica in questo caso è quella di Naomi, cresciuta nelle Robert Taylor Homes a Chicago, un complesso di edilizia popolare dalle dimensioni mostruose, in prossimità di una stazione, senza spazi verdi attorno.
Gli ospiti di queste case erano quasi ventisettemila persone. R. D. Laing e Thomas Szazd suggerirono che la malattia mentale fosse una risposta naturale alla follia della società contemporanea. Ma la domanda «sono io a essere pazzo o la società?» sminuisce la realtà della disabilità mentale e presume l’impossibile: che il sé possa essere separato in maniera netta dalla società che lo forma.
La Filosofia della Migrazione e l'Altro Straniero
Nel libro “Stranieri come noi” di Vittorio Zucconi, l'autore afferma che più si conosce il mondo, più ci si accorge che i miliardi di esseri umani che popolano la Terra oggi sono tutti ‘stranieri’ agli occhi degli altri, noi compresi. Egli invita a guardare senza pregiudizi alle altre culture, a considerare gli effetti dell’emarginazione e le cause della violenza giovanile: come quella di chi uccide per un giubbotto o di chi picchia per il colore della pelle.
“Occorre una politica che prenda le mosse dallo straniero inteso come fondamento e criterio della comunità, dativo a cui rispondere liberandone il passaggio.” Questo enunciato è sufficientemente emblematico della traccia in cui si colloca il libro di Donatella Di Cesare Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione (Bollati Boringhieri, 2017).
Questo topos biblico è il leit motiv del libro di Di Cesare che invita, partendo da qui, a ripensare, o forse cominciare a pensare, la migrazione non come un’emergenza a cui fare fronte con mezzi di eccezione o accordi inefficaci se non scellerati, ma come un fatto politico nell’ambito del quale la figura dello straniero assume importanza nucleare. Se il fenomeno migratorio è un fatto politico, afferma Di Cesare chiaro e forte, politici devono essere i mezzi per pensarlo e per averci a che fare.
Un pensiero della migrazione è necessario per capire veramente quello che sta accadendo nelle rotte della morte del Mediterraneo e non solo, soprattutto per avere chiaro che la migrazione, nella particolare forma in cui si presenta adesso, è destinata a cambiare le nostre forme di vita in modo radicale e la civiltà nel suo insieme. Non basta più la pietà episodica per le scene di disperazione e di morte a cui assistiamo regolarmente e a cui siamo già pericolosamente assuefatti o di cui addirittura godiamo (certo inconsciamente) perché quello che accade non sta accadendo a noi. Occorre assumere, rapidamente, che invece siamo implicati, siamo coinvolti.
Lo scandalo che la psicoanalisi ha smascherato, che Io è un altro, che l’estraneo è in macchina, non è un dato astratto o tutt’al più soggettivo che resta chiuso tra le pareti di una stanza di analisi, ha invece un carattere eminentemente sociale e politico. Del resto Freud per primo, in questo spesso malinteso, ha avuto una concezione inevitabilmente sociale dell’inconscio radicalizzata da Lacan per il quale “l’inconscio è il discorso dell’Altro”.
Non solo labilità dei confini, precarietà di una rivendicata e altrettanto illusoria identità, ma necessità di vigilare sulla tentazione di rovesciare sull’Altro qualcosa che ci appartiene. L’odio per l’estraneo è il tentativo di espellere qualcosa di proprio, precisamente l’eccedenza della pulsione destinata a non essere mai metabolizzata. Questo è il meccanismo psichico sottostante ai razzismi, all’integralismo e a ogni forma di odio per l’Altro e per la sua diversità.
Assumere l’Altro straniero significa ripensare il modo di abitare il mondo. Rispetto a questo la posizione di Di Cesare è chiara: oltre la sovranità dello Stato e dei suoi confini, invita a una coabitazione del mondo in cui ognuno è uno straniero residente, svincolato da appartenenze e proprietà, oltre la logica del territorio e della cittadinanza. Posizione certo radicale, anarchica come anarchico deve essere il nostro sguardo, questo l’invito dell’autrice, come sono anarchiche le rotte di chi sfida i confini degli stati sovrani.
I migranti, gli stranieri sono quelli che smascherano lo stato perché l’accoglienza implica l’interrogazione su concetti e procedure che hanno assunto un carattere destorificato, naturale, come lo stato-nazione e il diritto all’appartenenza geografica. Quello dello straniero è un topos presente in tutte le culture. Sarà un caso?
Ad Atene, dove si pratica l’omogeneità di stirpe per garantire l’efficacia della democrazia, lo straniero è una minaccia perché può alterare l’identità della comunità. Roma è città aperta, che elargisce ai suoi cittadini, se occorre, una doppia cittadinanza, di origine e di diritto, che immediatamente rimanda alla mobile estensione dell’Impero.
Nella tradizione ebraica lo straniero è colui che bussa alla porta della Città biblica, quel gher il cui significato letterale è “colui che abita”. Poiché la lingua ebraica ricorre alla stessa radice per indicare sia l’estraneità che l’abitazione, lo straniero diventa, con una contorsione ossimorica, colui che abita. Egli abita nella Città transitoriamente, di passaggio. L’ambiguità linguistica segnala l’indissolubilità dei termini e delle figure a cui rimandano. Anche chi abita resta straniero. Lo straniero residente è il rimando vivente a quell’estraneità su cui la sua figura si sostiene, facendone una categoria “non solo teologica ma anche esistenziale e politica”.
Nella lingua tedesca heimlich indica ciò che è familiare, domestico e conosciuto, l’apposizione del prefisso un- lo trasforma nel suo contrario. Esso da il titolo al saggio “Das Unheimliche”, in italiano “Il perturbante” (lo spaesante), all’inizio del quale Freud, con una breve ricerca filologica, rivela l’ambiguità insita nel termine stesso il cui significato sarebbe anche nascosto, misterioso, venendo in conclusione a coincidere con il suo contrario unheimlich che indica ciò che è estraneo, non familiare. “Unheimlich è in un certo modo una variante di heimlich” (Freud, “Il perturbante”, 1919).
Nello stesso saggio Freud racconta un aneddoto personale: durante un viaggio in treno notturno, viene colto da un sentimento di profonda inquietudine e di estraneità quando si imbatte improvvisamente in uno sconosciuto, per poi accorgersi che lo sconosciuto altri non è che la sua immagine riflessa in uno specchio.
Il Cambio di Nome e l'Identità
Cambiare nome può sembrare un gesto semplice che nasconde significati profondi e grandi implicazioni emotive. Quando il nome viene modificato, magari per adattarsi ad una nuova lingua, avviene sempre qualcosa di strano. Il cambio del proprio nome porta ad un allontanamento dal passato, da se stesso, la persona rischia di sentirsi altro rispetto a quello che era prima. Un nome non è solo un’etichetta. Il nome porta con sé le radici e racconta una storia diversa per ognuno, la storia del proprio percorso prima della propria nascita.
Lo straniero non riesce a seguire il ritmo del tempo intorno a lui, prova distanza affettiva ed emotiva, è inserito in un contesto di estranei. È questa la condizione di chi vive in un limbo, insieme ad altre persone ma isolato da loro, vicino fisicamente ma lontano emotivamente.
Vittorio Zucconi, inviato speciale all’estero, immagina di spedire tante «cartoline» ai lettori, per avvicinarli a «gente molto diversa eppure molto simile». Egli ci racconta di bambini di strada senza futuro: qualcuno concepisce il sogno del proprio riscatto attraverso il pallone e, forse, il sogno potrà avverarsi; ci sono ragazzi di etnie e classi sociali diverse che si innamorano tra loro, ma il lieto fine non è sempre assicurato; a volte, l’amicizia ha la durata dell’emergenza che li ha fatti incontrare.
Zucconi nei suoi racconti affronta:
- L’emarginazione degli immigrati all’estero.
- La speranza del riscatto e i modelli da imitare o sognare.
- La normalità e quotidianità della violenza.
- L’infanzia negata.
- La conoscenza e la ragione, per superare le barriere del pregiudizio.
Sono racconti di grande immediatezza comunicativa. I molteplici spunti di riflessione e l’organizzazione degli apparati didattici rendono il libro particolarmente adatto alla lettura in classe.
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