Turismo a Basso Valore Aggiunto: Definizione ed Esempi
Dopo il drastico calo indotto dalle restrizioni e dalle chiusure necessarie per contrastare la pandemia di Covid-19, gli arrivi di turisti stranieri nel Sud Europa sono tornati ai livelli pre-pandemia - uno sviluppo positivo visto l’ingente contributo del turismo alla crescita e all'occupazione nell'Europa meridionale. Tuttavia, l’ormai eccessiva dipendenza di questi Paesi dalle esportazioni di servizi turistici presenta insidie non trascurabili.
Nonostante alcune differenze, Grecia, Italia, Spagna e Portogallo sono entrati nell'euro con un’eredità di modelli economici caratterizzati da alcune importanti similarità istituzionali: una crescente disparità delle tutele lavorative e dei diritti sociali, deboli sistemi di istruzione e formazione professionale, una marcata frammentazione dei gruppi di interesse e relazioni industriali conflittuali, incapaci di garantire stabilità e moderazione salariale alla stregua delle economie neo-corporativiste del nord Europa. Questo modello economico è stato messo in crisi dall'avanzare del processo di integrazione europea.
Da un lato, una più rigorosa applicazione del diritto della concorrenza e della normativa sugli aiuti di Stato nel mercato unico dell'Ue limita fortemente la capacità degli Stati europei di governare l’economia; dall’altro, l'Uem impedisce le svalutazioni competitive mentre il patto di stabilità riduce la manovrabilità delle politiche fiscali. Se però, da un lato, l'integrazione europea ha penalizzato fortemente il modello economico del sud Europa, dall’altro lo ha favorito creando i presupposti per l'espansione dell'industria turistica.
Il processo di integrazione europea ha portato alla libera circolazione delle persone all'interno del territorio dell'Ue, ma soprattutto ha indotto la liberalizzazione dei mercati nazionali dell'aviazione - precedentemente protetti e monopolizzati da compagnie di linea statali - predisponendo la graduale istituzione del mercato unico europeo dell'aviazione. Ma è solo dopo la grande crisi finanziaria del 2008 che si assiste, nell'Europa meridionale, all'istituzionalizzazione di un modello di crescita trainato dal turismo internazionale.
Con la domanda interna strangolata dall'austerità fiscale e dai tagli salariali, i governi del sud Europa si sono dovuti ingegnare per stimolare crescita economica e occupazione attraverso le esportazioni nette, di fatto l’unica strategia di crescita compatibile con i vincoli imposti dall’Uem. Grazie al vantaggio comparato di cui l'Europa meridionale gode nel turismo - dovuto a condizioni climatiche, storico-culturali e geografiche - la crescita cosiddetta export-led, seppur limitata, è infine arrivata in larga parte grazie all'esportazione di servizi turistici ai viaggiatori del nord Europa e del Regno Unito, sempre più felici di affollare le spiagge e gli hotel dell’Europa del sud.
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Grecia e Portogallo - insieme a Spagna seppur in misura minore - hanno fatto registrare un marcato incremento del surplus commerciale legato al turismo internazionale. In Italia, a espandersi è stato in larga parte il turismo domestico. Nell’ultimo decennio, l'industria del turismo si è espansa fino a costituire una parte considerevole delle esportazioni dell'Europa meridionale (circa il 25% in media) e un fattore chiave per la crescita economica e la creazione di posti di lavoro. Basti pensare che le attività economiche legate al turismo rappresentano oggi circa il 15-20% del Pil, con un marcato aumento del contributo del turismo al Pil registrato tutti questi Paesi.
In particolare, in Grecia e in Portogallo, gli impiegati in imprese che dipendono direttamente o indirettamente dal turismo sono aumentati sensibilmente fino a costituire rispettivamente un quarto e un quinto della forza lavoro totale. La nostra ricerca mostra che, nel sud Europa, l’impressionante crescita del surplus commerciale legato al turismo internazionale è largamente dipesa da un costante aumento del turismo in entrata dal nord Europa e dal Regno Unito. Pertanto, il crollo della domanda interna in questi Paesi (dovuto all'austerità fiscale e alla svalutazione interna) è stato in parte compensato dall'importazione di domanda estera per servizi turistici.
Le Insidie di un'Eccessiva Dipendenza dal Turismo
Al contrario, un'eccessiva dipendenza dal turismo per la crescita comporta insidie sulle quali occorre riflettere tempestivamente. In primo luogo, il turismo incoraggia un processo di ristrutturazione economica incentrato su attività a basso valore aggiunto, caratterizzate da scarse competenze e bassa produttività, connesse a occupazione precaria e stagionale. Mentre i paesi del nord Europa si spostano gradualmente verso una produzione manufatturiera altamente qualificata e servizi di fascia alta, tale modello rende l'Europa meridionale strutturalmente dipendente da turisti stranieri e sempre più vulnerabile nei confronti di shock esogeni (come la pandemia di Covid-19).
In secondo luogo, l'espansione globale dell'industria del turismo comporta una spietata concorrenza a ribasso dei Paesi in via di sviluppo, oggi facilmente raggiungibili con voli economici. Molti di questi Paesi hanno simili vantaggi comparati nel turismo, ma prezzi e standard di lavoro più bassi, minando ulteriormente le condizioni di lavoro nel settore turistico europeo.
A un anno dall’inizio della pandemia che ha provocato il crollo del settore più colpito di tutti, quello del turismo, l’idea che l’Italia possa “vivere di turismo” continua a esercitare un certo fascino. Il problema è duplice: la propaganda del turismo da una parte rimanda il confronto con la realtà, ovvero con quanto i buchi nella gestione del turismo in Italia alimentino ricchezza per pochi, disuguaglianze per molti, oltre che una percentuale consistente di economia sommersa. D’altra parte, questa retorica di fatto promuove un’idea di economia coloniale, dipendente da una domanda esterna, e una strategia adattiva tutto sommato pigra e obsoleta, oltre che fragile e insostenibile: puntiamo tutto sul turismo, perché ci è rimasto solo questo.
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L'Evoluzione del Turismo in Italia
All’inizio degli anni Ottanta il turismo mondiale era ancora limitato a poche destinazioni internazionali. L’Italia era il secondo paese per quota di mercato dopo gli Stati Uniti. Poi, con la riduzione dei costi per il trasporto, l’avvento dell’era del low-cost e il miglioramento delle condizioni salariali nelle economie emergenti, il turismo ha conosciuto un’espansione su scala globale. Negli ultimi vent’anni il numero di viaggiatori è raddoppiato, passando da 674 milioni nel 2000 a 1,3 miliardi nel 2017. Ma, anche a causa dell’affermarsi di nuove destinazioni turistiche, la quota di mercato dell’Italia si è più che dimezzata, passando dal 7,9% all’inizio degli anni Ottanta al 3,4% nel 2017.
Il calo, nota la Banca d’Italia, se in parte fisiologico, è stato più intenso per la nostra penisola che per altri paesi europei: «Il peggiore andamento dell’Italia in termini di introiti turistici parrebbe dovuto principalmente ad aspetti (qualità dei servizi, dotazione infrastrutturale, sicurezza, accessibilità, politiche settoriali, innovazione dei prodotti turistici, ecc.) non legati all’andamento complessivo dei prezzi», si legge nel report Il turismo internazionale in Italia: dati e risultati del marzo 2013. Insomma il calo è in parte dovuto al fatto che l’Italia non ha investito, innovato e puntato sul turismo.
A partire dal 2010 c’è stato qualche miglioramento: la spesa turistica è aumentata a ritmi sostenuti, trainata dalle vacanze culturali nelle città d’arte. Di nuovo, ad aver pesato sull’aumento della spesa sono stati anche fattori esogeni quali le tensioni geopolitiche che hanno ridisegnato i flussi turistici nell’area del Mediterraneo. Intanto sono diminuiti gli introiti dai viaggi d’affari, la componente a più alto valore aggiunto della spesa per viaggi, passata dal 24% del totale nel 2011 al 13% nel 2019, anche per la frenata dell’economia nazionale.
Con i voli low-cost il numero di turisti è aumentato, ma la durata media dei viaggi è rapidamente scesa. Si è dunque trattato di uno sviluppo talmente accentrato e selettivo che, proprio all’alba della pandemia che ha bloccato il vorticoso flusso di merci e persone che attraversavano il globo, si era cominciato, anche in Italia, a parlare di overtourism: di troppo turismo.
Turistificazione e Sostenibilità
Il fenomeno della cosiddetta turistificazione delle città non è però casuale: da luoghi dove il turismo è una tra altre attività, le città vengono pensate, progettate, modificate per il turismo, a discapito di tutte le altre funzioni urbane, a partire da quella residenziale. Lo sfruttamento intensivo delle risorse a opera del turismo, non a caso descritto come attività estrattiva, desertifica il territorio, lo rende invivibile, lo uccide. Tecnicamente le destinazioni turistiche hanno una certa capacità di carico, ecceduta la quale il turismo diventa insostenibile.
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Infatti il turismo genera anche costi economici, sociali e ambientali. I benefici economici diminuiscono con la maturazione delle destinazioni, che esauriscono il proprio ciclo di vita se il turismo non è gestito in un’ottica di lungo periodo. Infatti il turismo genera anche costi economici, sociali e ambientali. I benefici economici diminuiscono con la maturazione delle destinazioni, che esauriscono il proprio ciclo di vita se il turismo non è gestito in un’ottica di lungo periodo. Cosa che raramente avviene, perché per preservare un equilibrio tra le funzioni urbane bisogna necessariamente limitare il turismo.
Ma gli effetti positivi della spesa turistica si registrano perlopiù in territori con livelli iniziali bassi di valore aggiunto pro capite e ridotti tassi di occupazione. Nelle località più turistiche, invece, «gli effetti del turismo diminuiscono o diventano negativi a causa dei costi della congestione o del possibile affollamento di altri settori, quando l’industria turistica si espande al punto di incidere in modo significativo sui prezzi e sui salari relativi locali», si legge nel focus della Banca d’Italia Turismo e crescita nelle province italiane.
Quando il turismo non è gestito, o lo è soltanto in un’ottica di massimizzazione dei profitti nel breve termine, alla lunga i costi, socializzati, finiscono per superare i benefici. Non basta dunque citare i numeri dei visitatori in aumento per dire che l’economia va bene. In Italia le entrate per viaggi internazionali nel 2019 sono aumentate del 6% rispetto all’anno precedente: hanno raggiunto i 44,3 miliardi, pari al 41% delle esportazioni di servizi. Si tratta di una cifra considerevole.
Il turismo internazionale è cresciuto soprattutto con le vacanze in località balneari e montane. Quello nelle città d’arte, in verità, è leggermente diminuito a partire dal 2017, ma a questa componente è riconducibile il 60% della spesa totale per vacanze. Ma dove finisce questa spesa? Circa la metà della spesa turistica è destinata all’alloggio e alla ristorazione.
L’Italia è prima in Europa per numero di strutture ricettive, a cui bisogna aggiungere gli alloggi privati: il boom delle case affittate a breve termine tramite portali come Airbnb ha modificato l’offerta ricettiva e con questa le città d’arte. Lo ha fatto al di fuori di qualsiasi norma che regolasse questa attività, distinguendo tra attività occasionale e attività imprenditoriale - dove la seconda è stata svolta, e continua a esserlo, come se si trattasse di mera “condivisone” di alloggi.
Uno degli effetti documentati del boom degli Airbnb è che a Roma il 30% delle presenze turistiche non viene rilevata. Un dato che, semplificando, si traduce in un ammanco di 45 milioni di euro l’anno di tassa di soggiorno non versata nelle casse del Comune, a fronte dell’aumento degli utenti dei servizi pubblici locali e un guadagno - privato - medio mensile di duemila euro per una casa su Airbnb. Trasliamo il dato a livello nazionale, e chiediamoci come sia possibile che l’Italia attenda una norma sugli affitti brevi almeno dal 2017.
Turismo e Cultura: Un Legame Complesso
La cultura è intesa come identità e il turismo come leva per la sua valorizzazione economica. «Alcuni modelli di crescita nel nostro Paese dovranno cambiare. Per esempio, il modello di turismo» ha detto il premier Mario Draghi la mattina del 17 febbraio scorso nel suo discorso al Senato. «Il nostro turismo avrà un futuro se non dimentichiamo che esso vive della nostra capacità di preservare, e almeno non sciupare, città d’arte, luoghi e tradizioni, che le generazioni attraverso i molti secoli hanno saputo proteggere e ci hanno tramandato».
Turismo e cultura, «settori che più caratterizzano l’Italia e ne definiscono l’immagine nel mondo», meritano particolare attenzione «sia per il loro ruolo identitario, sia per l’“immagine” e il “brand” del Paese a livello internazionale, nonché per il peso che hanno nel sistema economico», si legge nel Piano. Gli investimenti previsti mirano a «migliorare la capacità attrattiva» dell’Italia e saranno direzionati sia ai “grandi attrattori” che nei territori più marginali.
Il problema della logica della valorizzazione turistica, però, è che indirizza la spesa pubblica non dove serve di più ma dove è più remunerativa, favorendo i divari territoriali. Poi, quando la domanda turistica scompare, come è già avvenuto in numerose aree costiere e montane del Paese, le economie locali da essa dipendenti si contraggono. E richiedono salvataggi pubblici.
Il tema dell’overtourism è affrontato nel PNRR nell’ottica di spostare i flussi dai centri più turistici ai “borghi” e alle aree rurali del Paese, «contrastando lo spopolamento dei territori e favorendo la conservazione del paesaggio e delle tradizioni», valorizzando «la produzione legata al mondo agricolo e l’artigianato tradizionale», con buona pace di quanti sostengono la necessità di aggiornare una rappresentazione del Paese basata sulla contrapposizione tra la dinamicità urbana e l’immobilità di territori marginali, «custodi delle tradizioni».
La cultura è intesa come identità e il turismo come leva per la sua valorizzazione economica. Siamo, di nuovo, confinati entro una cornice neoliberista. Da campi distinti e compensativi dell’ambito economico, del lavoro e della produzione di profitti, turismo e cultura sono finiti per essere assorbiti, fino a diventare dei veri e propri perni, nei processi di accumulazione del capitale.
Il turismo come pratica individuale, connessa alla libertà di scelta di alcuni, al piacere, al tempo libero e a una certa capacità di spesa, è diventato centrale nelle politiche economiche come motore di sviluppo locale e nazionale. La produzione di narrazioni e di contenuti immateriali contribuisce a questa crescita e trasforma lo spazio fisico. I luoghi, riqualificati per attrarre capitale e persone, sono gestiti come prodotti in vendita con campagne di marketing e branding turistico, con lo stanziamento di fondi pubblici per eventi e progetti di rigenerazione che “valorizzano” territori-vetrina.
«Il territorio si trasforma in offerta turistica se la domanda potenziale si trasforma in domanda pagante», si legge in un testo di economia turistica. L’identità dei luoghi, i segni, i simboli e le tradizioni che la costituiscono, sono centrali: infatti il territorio non è solo lo spazio ma l’oggetto stesso del consumo.
Il paradosso di questo modello è che la mercificazione delle identità culturali, la messa a valore delle loro caratteristiche di unicità e autenticità, finisce per cancellarle attraverso il meccanismo di appropriazione, coprendo sotto una coltre omologatrice i segni di distinzione su cui fonda l’estrazione di valore. È questo modello che il Piano esprime: ancora, il turismo - per dire la rendita - come volano di sviluppo per città svuotate dalla pandemia e paesi lasciati indietro.
Territori e popolazioni esclusi dal controllo delle risorse, su cui si scaricano i costi ambientali e sociali. È lo stesso modello di consumo solo apparentemente low-cost, affermatosi negli ultimi decenni e da ultimo alla base del dominio dell’economia delle piattaforme digitali, che illude il cittadino-cliente nascondendo il suo impoverimento, scaricando i costi altrove.
Parlare di turismo sostenibile significa allora partire da qui. Dal basso, dalle persone, dai diritti. Dalle idee e dalle energie, dalle competenze locali e dalla partecipazione reale alla trasformazione dei territori. Dalle macchine amministrative, dagli uffici e dal personale necessario sia alla lettura dei fenomeni che investono i contesti urbani e naturali, che ad attuare scelte e decisioni non più rimandabili, verso una gestione del turismo con obiettivi di qualità sociale.
Perché se è vero che non c’è giustizia ambientale senza giustizia sociale, non c’è crescita economica senza una crescita sociale. Ma bisogna superare il fascino per le rendite di monopolio. Poi si può parlare di redistribuzione di flussi, di percorsi turistici alternativi, di potenziamento dell’offerta turistica in contesti marginali.
L'Impatto del Turismo sulla Crescita Economica
La straordinaria varietà del nostro patrimonio storico, artistico, gastronomico e paesaggistico, ha da sempre fatto dell’Italia un’importante meta turistica. Siamo tutti d’accordo sul fatto che sia un segmento significativo del sistema Italia. I dati sulle presenze sono ad esempio molto incoraggianti. Ma le presenze, almeno sulla carta, sono semplici da conteggiare.
Molto più difficile è invece stimare empiricamente l’impatto del settore sulla crescita. In primo luogo, gli autori passano in rassegna la letteratura economica sull’argomento, evidenziando le due tesi principali sul tavolo. Da un lato quella secondo cui il turismo abbia un impatto positivo per la crescita economica, perché favorisce economie di scala, investimenti privati ed apertura internazionale. Dall’altro lato i critici, che lo ritengono un settore a bassa produttività, in grado di distogliere risorse dai settori ad alto valore aggiunto. Il cosiddetto effetto “beach disease”. Generalmente chi scrive si trova d’accordo con la seconda schiera.
I dati utilizzati riguardano la spesa dei turisti stranieri nelle province italiane dal 1997 al 2014. Gli stessi vengono poi associati alla crescita del valore aggiunto nell’area. Un aumento del 10% della spesa iniziale pro capite dei turisti stranieri, implica una crescita tra lo 0,2 e lo 0.4% nel decennio seguente. Ciò significa che vi è un impatto significativo da un punto di vista statistico, ma economicamente modesto.
Ciò induce una serie di riflessioni. Nelle aree economiche più povere, gli effetti positivi sembrano maggiori, a differenza di quanto accade nelle aree più ricche. Questa utile fotografia può essere anche utilizzata per fini di politica economica. Si corre il rischio infatti, soprattutto in molte aree del Mezzogiorno ma non solo, di enfatizzare eccessivamente il ruolo del turismo ed i risultati dello stesso.
È abbastanza naturale che accada. Soprattutto in zone contraddistinte da una bassa occupazione e da scarso capitale. Tali premesse possono comportare un dispiegamento degli effetti negativi del beach disease. Non bisogna infatti dimenticare che si tratta di un settore a bassa produttività. Spesso soggetto a retribuzioni di certo non esaltanti o a fenomeni di lavoro irregolare. Le decisioni relative agli investimenti pubblici dovrebbero tenere conto di tutto ciò.
Il turismo rappresenta sicuramente una voce importante della nostra economia, da valorizzare e sviluppare. Ma a livello strategico presenta delle insidie.
Il Turismo è Davvero il Motore dell'Economia Italiana?
Il 1° agosto, al termine di un incontro con le associazioni e i sindacati dei tassisti, il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso (Fratelli d’Italia) ha annunciato che il governo ha presentato la sua proposta per aumentare il numero di taxi in circolazione. Mettendo da parte il dibattito sui tassisti, davvero il Pil del nostro Paese sta crescendo perlopiù grazie al contributo del turismo? Abbiamo analizzato che cosa dicono i numeri a disposizione e, nonostante l’incertezza che c’è ancora sui dati, la dichiarazione di Urso sembra essere esagerata.
Innanzitutto per verificare le parole di Urso bisogna prima chiarire che cosa significa l’espressione “trainare l’economia”, spesso usata dai politici quando vogliono rimarcare l’importanza di un settore economico. Un settore può essere considerato trainante quando ha un peso notevole sul totale della produzione nel Paese o del valore aggiunto (che è la differenza tra la produzione e i suoi costi). Un settore può essere considerato trainante se, nonostante abbia un peso relativamente basso sul Pil, registri comunque una forte crescita.
Secondo i dati Istat più aggiornati, nel 2019 il valore aggiunto del turismo sull’economia italiana valeva quasi 100 miliardi di euro, poco più del 6 per cento del Pil. Per fare un confronto, l’industria manifatturiera vale oltre il 16 per cento del Pil, quello delle costruzioni più del 4 per cento, mentre le attività professionali scientifiche e tecniche, che includono il lavoro di studi legali, contabili e di altri professionisti, hanno lo stesso peso sul Pil del turismo.
Questi numeri ci dicono che il turismo è senza dubbio un settore importante per l’economia, ma non è trainante per il proprio peso: ci sono altri rami del tessuto economico che hanno un’importanza simile o superiore.
Al momento è molto difficile definire con precisione quale sia l’effettivo contributo del turismo alla crescita dell’economia italiana degli ultimi mesi. I dati contabili sul valore di questo settore e sulla sua crescita sono infatti pubblicati ad anni di distanza (per esempio i dati relativi al 2019 sono stati pubblicati nel 2022) e quindi a oggi non esiste una fonte diretta da cui attingere.
Possiamo confrontare i dati dei primi sei mesi di quest’anno con quelli dello stesso periodo dell’anno scorso. Nel primo semestre del 2023 sono state assunte in Italia circa 90 mila persone nel settore turistico. In questo caso, nel 2023 le assunzioni nette (ossia le assunzioni al netto delle cessazioni) sono state circa 133 mila contro le poco più di 90 mila nei primi sei mesi del 2022. Un aumento c’è stato, ma è in linea con la dinamica degli ultimi anni: anche nel 2022, infatti, l’occupazione nel settore del turismo e del commercio era aumentata di decine migliaia di unità.
Sia nel 2022 che nel 2023, dunque, l’occupazione nel settore è cresciuta, in entrambi i casi con variazioni vicine al +50 per cento. Anche le stime definitive di Istat sull’andamento del Pil nei primi tre mesi di quest’anno, pubblicate il 31 maggio, suggeriscono che la situazione non è cambiata molto rispetto ai mesi precedenti.
Nel primo trimestre del 2023 il settore del commercio, trasporti, alloggi e ristorazione non ha registrato una crescita del valore aggiunto rispetto al trimestre precedente. Per il trimestre tra aprile e giugno 2023 questo dato non è ancora disponibile.
Già nel 2021 il valore aggiunto nel settore delle costruzioni era cresciuto del 14,6 per cento rispetto al 2019, contro un -0,9 per cento del valore aggiunto di tutta l’economia. Questa crescita è proseguita anche nel 2022, con un aumento del valore aggiunto del 5 per cento circa tra il quarto trimestre 2022 e lo stesso periodo dell’anno prima, e si è in parte interrotta quest’anno. Nel primo trimestre del 2023, infatti, la variazione su base annua del valore aggiunto nelle costruzioni è stata “solo” dell’1,2 per cento.
Secondo le stime preliminari di Istat, pubblicate il 31 luglio, nel secondo trimestre del 2023 il Pil italiano è calato dello 0,3 per cento rispetto al trimestre precedente. Per essere certi che il calo del Pil sia dovuto alle modifiche introdotte nel settore edile bisognerà però aspettare il mese di settembre, con la pubblicazione delle stime definitive sul Pil del secondo trimestre di quest’anno.
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