Il Passato Come Paese Straniero: Significato e Implicazioni
Nella lingua italiana di oggi, l’opposizione fra italiani e stranieri appare totalmente formalizzata: un appellativo esclude l’altro. Frutto d’una pedagogia bellicosa, che fra italiani e stranieri ha voluto vedere non solo un’antitesi, ma una naturale ostilità, soprattutto in momenti cruciali del nostro passato nazionale.
Spogliando le occorrenze del termine nella letteratura italiana, si ha la sensazione che soprattutto a partire dalla fine del Settecento il termine straniero acquisti via via una risonanza politica negativa, e sia sempre più accostato all’idea dell’invasione e della tirannide. È già così, vagamente, in Metastasio, che in Alessandro nell’Indie fa esclamare con terrore alla sorella del re Poro, testimone dell’invasione macedone: “il suono intesi / de’ stranieri metalli”.
È così nell’Alfieri, grande intenditore di tirannide, che parlando dell’invasione araba della Spagna visigota la descrive come un precoce esempio dell’errore, poi ripetuto di frequente nella storia d’Italia, per cui un popolo volle “cacciare i tiranni indigeni, e chiamarne de’ nuovi stranieri”. Con il Risorgimento l’identificazione dello straniero col nemico si fa totale.
Ne è un esempio evidentissimo l’Inno di Garibaldi composto da Luigi Mercantini nel 1858, alla vigilia della seconda guerra d’indipendenza e dell’impresa dei Mille, col ritornello “Va fuora d’Italia, va fuora o stranier!”, e il verso che recita “Più Italia non vuole stranieri e tiranni”. Lo straniero, nella percezione risorgimentale, è tiranno egli stesso ma soprattutto manutengolo di tiranni.
Sostegno dei despoti, lo straniero è poi soprattutto invasore in proprio. L’Italia è uno dei pochi paesi la cui identità moderna si è costruita intorno al fatto d’essere stata ripetutamente invasa. L’Inghilterra si vanta di non aver mai più subito un’invasione straniera dopo il 1066. Da noi, dopo quella data, ci sono state l’invasione dei Normanni, le calate di Federico Barbarossa e dei suoi successori, l’invasione di Carlo d’Angiò, quella di Carlo VIII, ripetute invasioni francesi e asburgiche fino a Napoleone e oltre, e poi l’invasione austriaca fermata sul Piave, quella nazista dopo l’8 settembre, e infine quella degli Alleati: l’ultima, finora, e una di quelle accolte con più sollievo da gran parte della popolazione.
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Terra di conquista dunque, l’Italia, ma anche di reazione e di resistenza, dove la lagnanza sulla debolezza d’un paese femmineo e sempre pronto a farsi sottomettere si alterna con l’orgogliosa chiamata alle armi contro lo straniero. Nel Risorgimento nasce e si divulga una visione della storia nazionale tutta costruita intorno a vacui - e per lo più inventati - episodi di resistenza isolata all’invasore straniero, da Pier Capponi a Ettore Fieramosca, da Francesco Ferrucci a Balilla.
L’applicazione al passato dello schema risorgimentale “italiani vs stranieri” comporta di necessità l’introduzione della nuova figura del traditore, che tale, ovviamente, non era nella logica del suo tempo. Tutte mistificazioni consolatorie, dunque; ma non del tutto inani, giacché in epoca risorgimentale suonavano comunque premessa a una fiera stagione di riscatto nazionale contro gli eredi degli antichi invasori.
Un automatismo così radicato nella psiche italiana dell’epoca da condizionare le scene iniziali dell’Aida di Verdi, composta tra il 1869 e il 1871, quando l’entusiasmo per le guerre d’indipendenza cominciava a spegnersi di fronte alle difficoltà reali d’un paese arretrato e d’un bilancio in dissesto. Scrivendo su committenza del khedivé una storia ambientata varie migliaia di anni prima, Verdi e il suo librettista Ghislanzoni non trovano di meglio che immaginare un paese aggredito da invasori stranieri ed evocare la fiera risposta della nazione all’appello del sovrano.
A proposito di riscrittura della storia sotto il segno della dicotomia tra italiani oppressi e stranieri invasori, non è fuori luogo commentare qui l’Adelchi manzoniano, del 1822. Per scrivere il dramma Manzoni compì letture storiche approfondite, e nello stesso anno pubblicò anche un testo storico sull’argomento, il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia. Il tutto in una Milano dove la dominazione austriaca era divenuta ben più oppressiva di quanto non fosse stata al tempo di Maria Teresa e di Giuseppe, suscitando contro il dominatore straniero un risentimento crescente.
Per Manzoni era ovvio che anche i Longobardi erano stati dei dominatori stranieri, che la popolazione italiana dell’epoca, ridotta in servitù dai barbari, li aveva odiati e non si era mai fusa con loro: di qui le pagine potenti dell’Adelchi sulla contrapposizione fra i biondi padroni stranieri e il volgo disperso dei Romani sottomessi. Senonché impostare la questione in questo modo significa stravolgere completamente la realtà storica: oggi non c’è più dubbio - ma qualcuno, come il Sismondi, l’aveva intuito già al tempo del Manzoni - che i Longobardi e i Romani al momento della caduta del regno si erano già fusi in un unico popolo, e che nell’Italia di allora non c’era alcuna traccia dell’antagonismo razziale descritto nell’Adelchi.
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A proposito di Milano sotto la dominazione straniera, è da ricordare qui un passo significativo dei Ricordi di Massimo d’Azeglio. Massimo rammenta che da giovane, dopo aver viaggiato in altre zone d’Italia e appreso a conoscere una vita culturale più libera di quella concessa dai Savoia negli anni della Restaurazione, trovava soffocante l’atmosfera torinese: “ed io, un odiatore di professione dello straniero, lo dico colla confusione più profonda, se volevo tirar il fiato, bisognava tornassi a Milano”.
Passo significativo, si diceva: sia perché ci ricorda che anche un moderato come d’Azeglio, all’epoca, trovava del tutto ovvio vantarsi di odiare lo straniero, sia perché in questa prospettiva la dominazione straniera diventa uno stigma che stinge sulle parti d’Italia che la subiscono, fino a renderle esse stesse, in una certa misura, straniere.
Quel dubbio molti lo condividevano, nella classe dirigente che fece l’unità d’Italia, anche se speravano che l’entusiasmo avrebbe colmato le distanze. Massimo d’Azeglio è pur l’autore di una delle frasi più famose e più ripetute sui limiti del Risorgimento: “abbiamo fatta l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Beninteso, nel 1860 per il Borbone chiamare stranieri gli italiani del Centro-Nord era, in gran parte, una mistificazione a uso della propaganda; ma se era possibile, è perché l’Italia era ancora, non straniera, ma certo sconosciuta a se stessa. Il romagnolo Farini, nominato da Cavour luogotenente a Napoli dopo il ritiro di Garibaldi a Caprera, mentre attraversava il paese al seguito dell’esercito diretto alla capitale scriveva in una lettera diventata famosa: “Che paesi sono mai questi, il Molise e Terra di Lavoro. Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica”.
Ma c’era anche un problema apparentemente meno drammatico, e tuttavia irrisolto, quello degli italiani stranieri a se stessi. Lo si risolse, nel mezzo secolo che seguì l’unificazione, insistendo sulla propaganda per cui lo straniero, anche ora che il paese era quasi tutto libero, era ancor sempre in alcuni lembi d’Italia l’oppressore che veniva da Oltralpe e parlava un’altra lingua. Mantenendo così in vita, artificialmente, un sentimento che nell’età risorgimentale era stato assai più spontaneo e assai più motivato, si riuscì a modificare definitivamente il significato d’una parola che fino a non molto tempo prima era usata in tutt’altro modo dai parlanti italiani.
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In origine la parola straniero non voleva dire, e per molto tempo non ha voluto affatto dire non italiano; la lingua italiana non era attrezzata, come invece è stato dal Risorgimento a oggi, per contrapporre italiani e stranieri come due elementi opposti.
La percezione di “nativo” si è storicamente evoluta, così come lo “straniero” non sempre è stato determinato dai confini degli Stati nazionali. Prima della formazione degli Stati nazionali era comune sentirsi parte di comuni, parrocchie e comunità più piccole, piuttosto che di grandi entità politiche e statali. L’affetto e la lealtà si basavano sull’incontro personale nella vita quotidiana.
L’ostilità nei confronti di una nazione straniera, alimentata dai media e dalle campagne politiche, è più difficile da superare perché si tratta di concetti astratti che si basano sull’immaginazione piuttosto che sull’esperienza reale di un individuo. Così come non si può mai conoscere tutti i cittadini della propria nazione, è impossibile incontrare tutti i cittadini di una nazione straniera.
In un mondo in cui vediamo anche ciò che ci unisce e che trascende categorie e scatole, è possibile costruire ponti. In questo mondo possiamo costruire comunità e gentilezza reciproca e uscire dall’isolamento causato dalla paura e dalla sfiducia. In questo modo le generazioni future avranno l’opportunità di crescere in una società sana e fiduciosa.
Per Sahlins, invece, “se il passato è un paese straniero, allora è un’altra cultura”, ed è dunque un perfetto oggetto d’analisi antropologica. E se, come si sa, il senso emerge sempre dalle differenze, l’antropologia ha finora lavorato per comparazione tra culture diverse. Tuttavia, il punto di vista adottato dall’antropologo non è, qui, quello del nativo.
Prendendo spunto dal teorico della letteratura russo Michail Bachtin, secondo cui “una cultura altrui soltanto agli occhi di un’altra cultura si svela in modo più completo e profondo”, Sahlins decide di comparare le pratiche degli antenati ellenici non solo con la cultura occidentale moderna, ma assumendo anche un altro punto di vista, a lui assai familiare: quello dei nativi delle isole Figi.
Secondo Tucidide le principali differenze tra Sparta e Atene erano pur sempre differenze di carattere: la democratica Atene, potenza marittima in continua espansione, e la conservatrice e xenofoba Sparta, potenza terrestre chiusa nei propri confini. Del resto, gli stessi spartani riconducevano i propri caratteri a tradizioni radicate in tempi immemorabili, ovvero alla costituzione donatagli dal loro eroe culturale, Licurgo.
La questione non è nuova per gli antropologi: lo studioso britannico Gregory Bateson coniò a tal proposito il concetto di schismogenesi, inteso come “processo di differenziazione delle norme del comportamento individuale, che risulta da un’interazione cumulativa tra individui”.
La questione, si sa, è di quelle che hanno da sempre attraversato il dibattito storiografico: chi agisce nella storia? Stati, eserciti, popolazioni, singoli individui? Ecco che in questo libro, prendendo sul serio la cultura e le formazioni sociali che hanno attraversato la storia greca e polinesiana, le cose appaiono più chiare.
Questo volume ci giunge a mo’ di monito dei rischi di qualsiasi concezione essenzialista della storia. Come dice Sahlins “in una storiografia priva di antropologia, i nostri resoconti si riducono alle indeterminatezze di una generica natura umana o al senso comune implicito della propria tribù: l’etnocentrismo di quest’ultima, sotto forma di interesserazionale, è spesso preso per l’universalità della prima”.
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