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Confronto tra Italia e Belgio nell'Accoglienza degli Immigrati: Una Prospettiva Straniera

Il Belgio fu il primo Paese con il quale, subito dopo la Seconda guerra mondiale, il governo italiano inviò i suoi lavoratori nell’ambito di un accordo di emigrazione programmata con un accordo bilaterale.

Il Belgio divenne il primo Paese di accoglienza per gli italiani, sottoposti comunque a pesanti condizioni nell’ambito lavorativo e al di fuori.

Tuttavia, dopo la tragedia di Marcinelle del 1956, il Belgio, che da tempo si avvaleva del loro prezioso apporto, iniziò a rendersi conto del sistema emarginante riservato agli italiani e diede inizio a un ripensamento che, portato avanti nonostante la grave crisi petrolifera del 1973, a partire dagli anni ‘80 sboccò nella revisione della propria politica migratoria.

Non è infondato ritenere che l’evoluzione del processo d’integrazione degli italiani abbia esercitato un effetto positivo, utile anche all’inserimento delle altre collettività immigrate.

In particolare, tra i principi fondamentali della Comunità Economica Europea era inclusa la libera circolazione dei cittadini comunitari, che è, comprensibilmente, l’esigenza più profonda del fenomeno migratorio.

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Questi aspetti contribuiscono, nel loro insieme, a rendersi conto sia della positiva evoluzione della politica migratoria belga e dell’integrazione della collettività italiana, passata da una situazione di forte emarginazione al tempo del duro lavoro in miniera, a ben diversi standard di inserimento, reso possibile dalla normativa belga e dal diritto comunitario.

Riassumendo a grandi linee quanto verrà esposto nei dettagli, si può dire che, dopo l’accordo bilaterale del 1946, per quasi due decenni, furono massicci gli arrivi in Belgio dei lavoratori italiani, che poi continuarono ad arrivare a seguito di decisioni individuali.

All’inizio i flussi furono esclusivamente monosettoriali, unicamente indirizzati al duro lavoro in miniera, senza possibilità per i lavoratori di spostarsi in altri settori.

Questa emigrazione “assistita” (più esattamente, “concordata” tra i due Stati) non fu agevole per i lavoratori, che lasciarono l’Italia attirati da una propaganda scarsamente conforme alla realtà.

La miniera come luogo di morte nel 1956 fu drammaticamente portata all’attenzione delle autorità belghe e di quelle italiane.

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Questa maturazione culturale (che coinvolse naturalmente anche la società civile) si tradusse in misure concrete e la collettività italiana poté così intraprendere con decisione la via dell’integrazione e conseguire affermazioni di prestigio.

In via preliminare torna utile fornire alcuni cenni sulla storia di questo Paese e su alcune sue caratteristiche, che possono avere influito sulle politiche migratorie, per poi passare a riferire sinteticamente sui flussi intervenuti prima della Seconda guerra mondiale.

Questa terra, conquistata nel 58-61 a. C. da Giulio Cesare e diventata la Provincia Gallia Belgica, già nel V secolo iniziò a essere esposta a una serie d’invasioni da parte dei più potenti vicini (oltre che da parte dei Franchi), con una ricorrenza continua di questi eventi per tutto il Medioevo e anche nell’epoca moderna.

Nel 1482 i Paesi Bassi, che allora comprendeva anche l’attuale territorio belga, erano schiacciati tra il Sacro Romano Impero e il Regno di Francia.

Dopo un lungo periodo di lotta, le province settentrionali dell’Olanda, di confessione calvinista, ottennero l’indipendenza, alla chiusura della “guerra di religione” con la pace di Vestfalia del 1648; mentre le province meridionali, di confessione cattolica, rimasero sotto gli spagnoli e da questi passarono, poi, nuovamente alla casa d’Austria.

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Caduto l’impero napoleonico in base agli accordi del Congresso di Vienna del 1815, fu costituito il Regno dei Paesi Bassi, in cui fu incluso anche il Belgio, poco propenso, come nel passato, a questa convivenza.

Nel 1830 il cattolico Belgio (essenzialmente la Vallonia), a seguito di una rivoluzione, si staccò dai Paesi Bassi e nell’anno seguente si costituì come monarchia costituzionale, ottenendo il riconoscimento a livello internazionale a condizione che si attenesse a un regime di neutralità perpetua.

Nel 1885 la Conferenza di Berlino conferì la sovranità personale sul Congo a Leopoldo re del Belgio, esercitata in modo tutt’altro che esemplare, e, dopo un lungo periodo di forti pressioni sulla monarchia, la colonia fu, quindi, affidata alle competenze dello Stato belga.

Ai tempi della Prima guerra mondiale, nonostante il suo regime di neutralità, e una strenua resistenza guidata dallo stesso re, il Belgio fu occupato dai tedeschi.

Di ciò si tenne conto nella conferenza di pace al termine del conflitto, che aggiunse alla colonia del Congo anche una parte dell’Africa Orientale Tedesca.

Il periodo successivo fu caratterizzato dal potenziamento della normativa sociale e anche dalla frammentazione dei partiti su base linguistica, un chiaro indicatore del difficile rapporto tra fiamminghi e valloni.

Il Belgio, pur avendo confermato la sua posizione neutrale, fu occupato nuovamente dai tedeschi (dal 1940 al 1944 durante la Seconda guerra mondiale) e questa volta il comportamento del re fu considerato ambiguo.

Il 1960 fu l’anno dell’indipendenza di molti Paesi dell’Africa e anche del Congo belga.

In quella fase, già di per sé difficile per le questioni poste dalla decolonizzazione, si accentuò il contrasto tra i valloni e i fiamminghi con un’ulteriore frammentazione dei partiti su base etnica.

Per venire a capo di queste contrapposizioni si impose l’ipotesi di costituire lo Stato su basi federali, inserendovi una terza regione, quella di Bruxelles (Patto di Egmont del 1977).

Nel 1980 il timore di rompere un già difficile equilibrio tra le due precedenti regioni non consentì di pervenire al federalismo ma solo di incrementare le autonomie delle regioni.

Superati i residui timori, nel 1993 si trovò l’accordo politico per trasformare il Belgio in uno Stato federale (Fiandre, Vallonia e Bruxelles).

La complessa architettura istituzionale non valse a superare gli aspri confronti di natura economica, linguistica e politica tra i partiti tradizionali e i nuovi partiti su base linguistica e territoriale.

Tra il 2010 e il 2011 si verificò una situazione eccezionale, perché il Paese rimase per quasi due anni (541 giorni) senza governo.

Per superare l’impasse e favorire le mediazioni necessarie imperniate sul potenziamento delle autonomie regionali, fu determinante il contributo di Elio Di Rupo, figlio di abruzzesi giunti nel 1947 e qui nato nel 1951: egli fu il primo socialista vallone e anche il primo cittadino di origine straniera diventato primo ministro.

L’immigrazione nell’ultimo periodo è stata maggiormente sotto l’attenzione dei politici, perché dopo la strage di Parigi del 2015 e l’attentato di Bruxelles del 2016, da ricollegare al terrorismo di matrice islamica, è insorto un atteggiamento di diffidenza rispetto ai possibili flussi.

Il Belgio, come evidenziato da questi eventi, si presenta come una realtà quanto mai complessa con le sue differenze linguistiche, territoriali, religiose e politiche, con la regione di Bruxelles chiamata a fungere da cuscinetto tra le Fiandre e la Vallonia.

Ciò porta a qualche puntualizzazione sulla politica migratoria.

Gli obiettivi raggiunti dal Belgio in questa materia, tutt’altro che facili, hanno comportato un notevole impegno per il superamento di non pochi ostacoli.

La difficoltà del percorso appare evidente quando si fa riferimento alla fase iniziale, in cui la posizione fu dura nei confronti degli immigrati, la cui presenza era ritenuta accettabile solo temporaneamente e unicamente per motivi di lavoro, senza alcuna apertura a una convivenza stabile.

Bruno Ducoli, un operatore socio-pastorale di grande talento, recentemente scomparso (2021), che operò a Bruxelles negli ultimi tre decenni del secolo scorso, in un suo saggio sull’emigrazione italiana in Belgio, si è soffermato sul carattere paradossale di questo Paese, che si compone di tre regioni, tre lingue nazionali (francese, fiammingo e tedesco) e tre comunità linguistiche, il tutto tenuto insieme dalla Costituzione federale del 1993, ma non senza difficoltà.

Mentre nel Medioevo si recavano in Belgio i mercanti, i banchieri e anche gli artigiani, in epoca moderna vi si riscontra l’arrivo di esuli politici italiani specialmente a seguito della restaurazione e della linea dura seguita contro i protagonisti dei Risorgimento italiano.

Anne Morelli dell’Università Libera di Bruxelles e attenta studiosa di origine italiana dell’Italia in Belgio, ha sottolineato che nel periodo dei moti risorgimentali si rifugiarono in questo Paese diversi oppositori ai regimi dell’epoca.

Alla fine del secolo XIX si era già costituita in Belgio una piccola comunità di italiani, quasi tutti settentrionali.

Nel Novecento giunsero invece in Belgio anche i lavoratori, inizialmente per inserirsi nei lavori ferroviari e poi nelle miniere.

La Morelli colloca in questo periodo la pratica di discriminazioni nei confronti degli italiani e l’insorgenza di un sentimento di avversione a questi nuovi arrivati.

Rital era il termine spregiativo con cui, nella lingua francese quotidiana, essi erano indicati.

I valloni, sindacalmente ben organizzati nel settore minerario, avevano un trattamento migliore rispetto a quello riservato agli italiani e agli altri immigrati stranieri (e, anzi, agli stessi fiamminghi), per i quali le condizioni di lavoro erano più dure.

Già dalla fine del XIX secolo i belgi mostrarono una crescente avversione al lavoro in miniera, per cui le compagnie carbonifere erano costrette a rivolgersi a lavoratori stranieri.

Tra le due guerre, il Belgio fu maggiormente costretto a ricorrere all’estero per disporre di un numero sufficiente di addetti alle miniere, necessità questa resa più urgente man mano che cresceva la disaffezione dei belgi.

Perciò i flussi in partenza dall’Italia durante il periodo fascista furono quanto mai auspicati da parte belga.

A seguito dell’arrivo degli italiani e degli altri immigrati, nel 1923 gli stranieri erano già un decimo del totale degli addetti (polacchi, jugoslavi, ungheresi, algerini, marocchini e italiani).

Il flusso dei lavoratori italiani, che prima era avvenuto per decisione individuale, nel 1922 fu regolato dal primo accordo bilaterale in materia occupazionale, sottoscritto dal Belgio proprio con l’Italia.

I primi arrivi di antifascisti furono registrati già nel 1920 e furono dettati dall’interesse a rifarsi una vita all’estero, sottraendosi alle violenze degli squadristi fascisti.

Dopo che Mussolini interpretò in forma dittatoriale il suo ruolo di capo del governo, nella seconda metà degli anni ‘20 aumentò l’esodo per motivi politici, coinvolgendo anche quadri e dirigenti politici e sindacali.

In quel periodo, l’accresciuta presenza straniera indusse il governo belga a introdurre l’obbligo per gli stranieri di munirsi di un permesso di lavoro.

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