Stranieri a Noi Stessi: Un'Indagine Profonda sulla Malattia Mentale e l'Identità
Il panorama editoriale è sempre più costellato di testi autobiografici volti a raccontare il proprio vissuto di malattia - sia fisica che mentale - e, di conseguenza, a conoscere meglio sé stessi. In "Stranieri a noi stessi", Rachel Aviv, giornalista del New Yorker, esplora il rapporto ambiguo tra malattia e identità, tra modelli psichiatrici predefiniti e il malessere del singolo individuo.
Un Viaggio Attraverso le Menti di Cinque Individui
A differenza della maggior parte delle opere contemporanee, "Stranieri a noi stessi" non sfocia nell’autobiografismo: già a partire dal secondo capitolo, Aviv tace su se stessa per raccontare la vita di cinque persone che, incapaci di liberarsi dalle proprie ossessioni, sono rimaste imprigionate negli stretti e vincolanti confini di una diagnosi psichiatrica. Dopo la lettura di testimonianze scritte - diari, quaderni, manoscritti inediti di alcuni pazienti - e dopo aver raccolto la testimonianza orale dei parenti e dei medici che li avevano avuto in cura, Aviv si fa portavoce delle loro storie.
- Ray: paziente schizofrenico tormentato dal proprio fallimento, sulla cui pelle si è riverberato lo scontro tra la psicoanalisi e la psichiatra neurobiologica degli anni Settanta.
- Bapu: una donna indiana, oppressa dai tradizionali ruoli femminili, la cui maniacale adorazione verso Krishna è stata classificata secondo criteri diagnostici imposti dalla cultura occidentale.
- Naomi: la cui condizione di donna nera e povera non ha permesso di accedere alle cure mediche e di essere riconosciuta come soggetto dotato di insight.
- Laura: brillante studentessa di Harvard che, dopo aver ricevuto diagnosi di ogni tipo e dopo aver provato diciassette psicofarmaci, non è più stata capace di costruirsi un sé coerente e consapevole.
- Hava: Consapevolmente e visceralmente abitata dalla malattia, Hava ha cercato per tutta la vita di capire sé stessa attraverso il linguaggio terapeutico, appuntando i propri pensieri quotidiani su un diario.
Come loro, anche altri protagonisti di questi cinque racconti hanno avvertito e assecondato l’impulso di scrivere di sé e della propria malattia, pur consapevoli che il linguaggio che avevano a disposizione non era adatto a comunicare con il mondo dei «sani».
L'Esperienza Personale di Rachel Aviv
L’interesse di Aviv nei confronti dell’universo psichiatrico nasce dall’esperienza vissuta in prima persona quando, a sei anni, fu ricoverata in un ospedale pediatrico del Michigan, a Detroit, e le venne diagnosticata l’anoressia: a quell’epoca, negli Stati Uniti, era la più giovane paziente con una simile diagnosi. Dunque Aviv venne catapultata, ancora bambina, in un contesto ospedaliero fortemente morboso dove ragazze più grandi di lei - «esperte della malattia» - conducevano una pratica ascetica nell’unica «carriera» che desideravano: quella di essere adolescenti malate, iperattive, affamate, in punto di morte.
Guardando all’esempio di quelle ragazze più grandi, e da lei tanto ammirate, Rachel assimilò l’abc dei disturbi alimentari: rifiutarsi di mangiare, nonostante la fame divorante che abita lo stomaco; non sedersi MAI, ma stare SEMPRE in piedi; mettersi le dita in gola per vomitare. Parallelamente, cominciò a sviluppare tutte le paure che di questi disturbi sono causa e conseguenza: non pronunciava i nomi dei cibi ad alta voce perché temeva che nominare un alimento equivalesse all’atto di mangiarlo, non si toglieva le caccole dal naso perché sapeva che, se se le fosse tolte, il suo peso sarebbe calato e allora i medici non le avrebbero concesso il privilegio di telefonare a casa o di scegliere da sé il proprio menù, e così via. Tante regole introiettate osservando le altre pazienti e assecondando il desiderio di diventare come loro.
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Ora, da scrittrice e giornalista, specializzata in particolare su macrotemi come medicina, educazione e giustizia, Aviv s’interroga sulla propria guarigione: perché quella bambina di sei anni non fece dell’anoressia il suo personale strumento di comunicazione con il mondo e di conoscenza del proprio sé? Perché superò e sopravvisse a una malattia così fagocitante da diventare letale per altre pazienti?
Il Potere Trasformativo delle Storie
Aviv racconta i giorni del suo ricovero ospedaliero - e la sua amicizia con una ragazzina che fisicamente le somigliava molto, Hava - e della veloce regressione dei suoi sintomi, mentre prende la rincorsa per lanciarsi nelle “carriere” (così vengono chiamati i (de)corsi delle malattie mentali) di altri uomini e donne. Grazie ad anni di studio, interviste e scambi con i protagonisti di questo libro, la pluripremiata giornalista del New Yorker Rachel Aviv scrive un’indagine accorata sui limiti delle nostre conoscenze intorno alla mente umana e sul bisogno che abbiamo di raccontarci e farci raccontare dagli altri nel tentativo di conoscerci. Perché niente come una storia ha il potere di cambiare - nel bene, nel male - la nostra identità e quindi la nostra vita.
Non è facile ricostruire un’esperienza patologica: la malattia è una sostanza liquida, disordinata, che sfugge a ogni tentativo di irreggimentazione. La memoria non riesce a cronicizzarla, la parola la trasforma in qualcosa di diverso ogni volta che ne rende conto. È possibile però usare la scrittura per fare domande sulla malattia, per penetrare nei suoi terreni oscuri e profondi.
Diagnosi e Identità: Un Equilibrio Delicato
Il filosofo Ian Hacking usa il termine “effetto circolare” per descrivere il modo in cui le persone rimangono intrappolate in storie sulla malattia che si autoavverano. Una nuova diagnosi può cambiare «lo spazio di possibilità per senso che si ha di sé». Ma quanto questa diagnosi incide sul senso di sé, sull’identità, e quanta umanità scompare dietro un’etichetta? Nelle storie raccontate da Aviv, specialmente in quella di Ray e di Hava, ci si imbatte spesso in questa domanda. Non solo: anche il linguaggio per descrivere la malattia mentale spesso appare inadeguato e castrante.
Critiche e Riflessioni Finali
“Stranieri a noi stessi” è un viaggio - con zaino pesante in spalla - attraverso la mente di cinque esemplari umani, la cui prima tappa è segnata dal racconto di ciò che ad Aviv è accaduto a sei anni. Le storie che Rachel Aviv ha scelto di raccogliere sono una fotografia della pratica psichiatrica, dei suoi limiti, del suo rapporto con le etnie e la cura farmaceutica. Sarebbe da una parte bello se un saggio sul rapporto fra la psicologia e il racconto del sé fornisse risposte e non domande. L’opera di Aviv è decisamente particolare e accattivante, capace al contempo di delineare storie personali facendo percepire le loro ombre come universali e intrecciandole con definizioni e citazioni mediche, come trama e ordito di una grande tela.
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