Il Significato di "Straniero" nella Grecia Antica: Un'Analisi Dettagliata
Nelle lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero racchiude in sé diverse accezioni semantiche dell'alterità, includendo il forestiero, l'estraneo, il nemico e ciò che risulta strano e spaesante.
Sia in greco che in latino, questa indistinzione di significati implica che lo xenos-hostis, originariamente "straniero", sia anche il nemico. In latino, per un lungo periodo, straniero si dice hostis. Contrapposto al cittadino, all’in-genuus, a colui che appartiene per nascita, dunque per sangue e cultura, alla comunità originaria di riferimento, il termine hostis, che indica lo straniero, concentra in sé tutte le figure dell’alterità, senza tuttavia coincidere affatto con una caratterizzazione “ostile”.
Dell’originaria polivalenza del termine hostis troviamo un’esplicita testimonianza in un passo del De officiis, nel quale Cicerone ricostruisce il processo storico che ha condotto a sovrapporre al termine hostis quel significato di inimicus, o perduellis (e cioè “nemico pubblico”), che è invece assente nell’accezione primitiva dello straniero-hostis.
«Voglio anche osservare - scrive infatti l’autore latino - che chi doveva chiamarsi con vocabolo proprio perduellis [nemico di guerra] era invece chiamato hostis [straniero] temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa.
Ciò significa che se la riduzione unilaterale dell’hostis a nemico contraddice la polivalenza semantica originaria del termine, per la quale l’hostis è insieme straniero, ospite e nemico, allo stesso modo la cancellazione del carattere potenzialmente ostile dell’hostis, in nome di un privilegiamento esclusivo del suo carattere di ospite, dissolve una caratteristica che viceversa non può essere soppressa.
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Al contrario, nella relazione con l’altro l’ambivalenza con la quale esso mi si presenta resta fondamentale e ineliminabile. Da un lato lo straniero mi fa dono della mia identità, dall’altro può svolgere questa funzione, può regalarmi il mio essere quello che sono, non perché mi sia univocamente ed esclusivamente amico, ma proprio perché è, in se stesso e irresolubilmente, anche nemico. Intrinsecamente duplice, come hostis-hospes, lo straniero è altrettanto duplice quanto ai suoi effetti, perché consente la posizione e il riconoscimento dell’identità specifica di chi entri in rapporto con lui, proprio attraverso l’apertura di una massima divaricazione fra il sé e l’altro.
La Cittadinanza come "Mestiere" e le Esclusioni
Tanto per la Grecia classica, quanto per Roma, si è spesso parlato della cittadinanza come di un ‘mestiere’, a significare l’estremo grado di partecipazione tanto pratica quanto emotiva del cittadino al suo ruolo, ma anche l’articolato complesso di competenze tecniche e istituzionali necessarie alla sua espressione.
Non si deve però dimenticare che la costituzione di un uomo in polítes ha sempre obbedito a meccanismi di esclusione assai rigorosi: a Sparta, per esempio, essa coincide con l’opposizione fra l’aristocrazia ristretta degli Spartiati (l’unica a godere di autentica cittadinanza) e l’insieme, determinato anche dal punto di vista razziale, dei suoi sottoposti (perieci e schiavi di tipo ilotico).
Non è diverso nel principio il procedimento che regola la civitas all’interno della cultura romana, che infatti i pensatori politici greci assimilavano spesso al modello dell’aristocrazia ellenica. In origine essa appare limitata ai soli cittadini di Roma e delle sue dirette colonie, purché nati da genitori entrambi romani (solo in casi particolari si concedeva a uno straniero il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino romano).
Ma solo con la cosiddetta ‘guerra sociale’ - la lotta che gli alleati italici (socii) ingaggiarono contro Roma negli anni 90-88 a.C. - il diritto di cittadinanza (ius civitatis) venne esteso a tutti gli abitanti della penisola italiana (purché liberi), le cui città vennero considerate complessivamente alla stregua di municipia.
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Bisognerà attendere il 212 d.C. - con l’emanazione della cosiddetta constitutio Antoniniana da parte di Caracalla - perché lo ius civitatis sia esteso a tutti i componenti dell’Impero, pur con significative restrizioni sul cui esatto valore si discute ancora (coloro che ne erano esclusi, i cosiddetti dediticii, comprendevano probabilmente le popolazioni rurali e/o barbariche di recente o imperfetta romanizzazione: dunque, ancora una volta, una sezione non trascurabile dell’effettiva popolazione imperiale).
I Quattro Cerchi dell'Appartenenza Sociale
Nel primo volume del suo fondamentale Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, dedicato a “economia, parentela, società”, Emile Benveniste parla di «quattro cerchi dell’appartenenza sociale». È qui che il linguista offre le indicazioni più preziose per comprendere il tema dell’abitare e dell’ospitare, dell’accogliere e del condividere.
Ospite è tanto la persona che accoglie nella propria casa, quanto la persona che è accolta in casa d’altri. Il latino hospıte (nomin. hospes) è infatti «colui che ospita» e «colui che è ospitato».
Benveniste ricorda che «hostis del latino corrisponde al gasts del gotico e al gosti dell’antico slavo, che presenta inoltre gos-podı “signore”, formato come hospes. Ma il senso del gotico gasts e dell’antico slavo gosti è “ospite”, quello del latino hostis è “nemico”.
Secondo una testimonianza di Festo risalente al II secolo d. C., al termine hostis veniva dato significato di «colui che ha gli stessi diritti del popolo romano». Pompeo Festo ricorda che, in origine, il verbo hostire significava anche aequare. In origine, dunque, l’ospite, anche nel senso di hostis, non era lo straniero ostile, né il nemico, ma lo straniero al quale si riconoscono diritti pari a quelli dei cittadini.
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Ed è proprio nel vortice di questa complessa vicenda storico-concettuale che nascono il moderno concetto di ospitalità e quello, più tardo, di ostilità, oltre che la polisemia sconcertante del termine ospite.
La Percezione dello Straniero nella Grecia Classica
Il cittadino greco dell’età classica aveva un forte senso della sua identità, che si concretizzava nel mito dell’autoctonia. Nel mondo greco, oltre a questa forte percezione dell’omogeneità culturale, c’era anche una estrema frammentazione politica, che indusse i cittadini greci ad essere molto riluttanti ad accogliere gli stranieri nelle loro comunità.
I Greci distinguevano solitamente tra due tipologie di stranieri: gli xenoi, cioè gli stranieri di stirpe greca, che appartenevano ad una comunità politica diversa dalla propria, e i bárbaroi, che non erano Greci e quindi venivano considerati come due volte stranieri, perché lo erano sia sul piano etnico-culturale, sia su quello politico.
Invece i bárbaroi erano oggetto di una marginalizzazione più radicale, come dimostra anche l’origine del termine usato per designarli. Bárbaros indica infatti colui che parla una lingua incomprensibile, percepita come un balbettio inarticolato. Venivano quindi considerati inferiori ai Greci come cultura, usi e costumi, in un’accezione del termine che ancora oggi sopravvive quando si utilizza l’aggettivo barbaro per indicare una persona rozza e incivile.
Oltre ad una convinta sottolineatura della loro inferiorità venivano anche caratterizzati come schiavi, cioè douloi, di fronte al dispotismo di un monarca, rispetto ai Greci che invece erano cittadini liberi e autonomi dello stato. In particolare questa percezione dello straniero come asservito al regime monarchico viene percepita soprattutto all’epoca delle guerre persiane, come viene sottolineato anche dalla letteratura contemporanea.
Eschilo nei Persiani evidenzia la superiorità non tanto di natura dei Greci sui barbari, quanto di civiltà politica. I Greci sono coloro che «di nessun mortale sono chiamati servi né sudditi».
L’antinomia tra il cittadino libero (polites) e il suddito (doulos) viene espressa molto bene nel sogno fatto da Atossa, madre di Serse. La Grecia e la Persia sono rappresentate come due donne, uguali per origine, ma diverse per comportamenti, infatti, l’una è docile al giogo e pronta a sottomettersi, l’altra intollerante ad ogni tipo di costrizione.
Nel corso del IV secolo, l’idea della superiorità dei Greci sui barbari si carica di nuovi significati, che vanno ben oltre la sfera politica. Aristotele sottolinea che: «i barbari, essendo per natura più servili dei Greci (e i popoli asiatici sono più servili di quelli europei), sopportano senza difficoltà un potere dispotico esercitato su di loro».
Anche Isocrate considera i barbari inferiori per natura ed esalta in questo modo gli Ateniesi: «Voi vi segnalate sugli altri non per la preparazione alla guerra o perché avete la migliore forma di governo o osservate col massimo scrupolo le leggi lasciatevi dagli avi, ma per quelle qualità per cui la natura umana si eleva sugli animali e la stirpe ellenica sui barbari, cioè per avere un’educazione superiore agli altri nel pensiero e nella parola».
Progressivamente la Grecità, il tò Hellenikón di cui parlava Erodoto, viene ad essere considerato sinonimo di cultura e civiltà.
La Condizione degli Esuli (Phygades)
Ma se gli stranieri, xenoi o bárbaroi che siano, non avevano vita facile nella Grecia classica, la condizione degli esuli (phygades) non era migliore. Infatti essi erano uomini rimasti privi della cittadinanza, come sottolineato anche da un altro termine utilizzato per designarli: apolidi. In quest’espressione si ricorre, in posizione iniziale, all’a (alfa) privativo, che indica solitamente la mancanza, la perdita di qualcosa.
Nella seconda parte di questa parola si riconosce la radice del termine polis, che indica una particolare forma di governo, ma anche la cittadinanza, intesa come appartenenza ad una comunità politica e civile. Quindi gli apolidi, in base all’etimologia del termine, sono coloro che sono privi della cittadinanza. Di solito si diventava esuli in seguito a provvedimenti di bando, dovuti a motivi di carattere politico, oppure per l’applicazione di una pena.
Molto spesso, però, si ricorreva volontariamente a tale condizione, proprio per evitare questi provvedimenti, nella speranza di trovare altrove migliori condizioni di vita. Nel corso del IV secolo vi fu una crescita notevole del numero degli esuli nel mondo greco: gli apolidi andavano ad accrescere le masse di avventurieri, mercenari, mercanti e spesso erano dediti anche al brigantaggio.
La solitudine degli esuli viene descritta in modo molto efficace anche in un passo del Plataico di Isocrate: «Chi potreste trovare più sfortunati di noi, che privati in un sol giorno di città, terra ed averi, bisognosi assolutamente di tutto, siamo ridotti vagabondi e mendichi non sapendo dove rivolgerci, e provando disgusto per tutte le sedi?
Forme di Tutela per gli Stranieri
La più antica forma di tutela per gli stranieri fu la xenía: si trattava di una forma di ospitalità fondata sulla reciprocità, che prevedeva la mutua assistenza. Tale rapporto veniva suggellato dallo scambio di symbola, cioè di piccoli oggetti che venivano divisi in due parti: una metà per ciascuno dei due contraenti del patto.
In futuro, la persona stessa o il figlio poteva recarsi in quella città e chiedere ospitalità all’amico o ai suoi eredi, esibendo come prova della passata amicizia, la propria porzione del simbolo. Da questa antica pratica privata si passò poi alla prossenia.
Il prosseno era un cittadino che, risiedendo nella sua città d’origine, rappresentava la comunità straniera che gli aveva conferito tale incarico. Il suo compito principale era quello di assicurare la protezione materiale dello xenos e la cura dei suoi interessi; a sua volta il prosseno godeva di alcuni diritti nello stato che gli aveva conferito il titolo e spesso gli veniva anche concessa la cittadinanza.
In ambito sacrale, la principale forma di tutela dello straniero era costituita dall’asylía. Inizialmente l’inviolabilità riguardava solo lo hieròn ásylon, cioè il luogo sacro, ma in seguito tale concessione fu inclusa anche nella legge dello stato.
Presto si manifestò in Grecia l’esigenza di stabilire delle condizioni di tutela idonee per coloro che erano costretti a viaggiare da una città all’altra per motivi di lavoro. Così, recuperando il termine che indicava i doni che gli ospiti si scambiavano in segno di amicizia, furono istituiti i symbola.
Comunque, lo straniero di passaggio nella polis ateniese godeva di alcuni diritti, come quello di svolgere traffici commerciali nell’agorá, di usare pascoli in territorio ateniese, di possedere immobili e di sposare una donna attica. Ma queste ultime due concessioni, che incoraggiavano la stabilizzazione nella città, erano molto eccezionali.
L’istituto che senza dubbio fu il più importante per la tutela degli xenoi fu la metoikía. I meteci erano stranieri, di stirpe greca, che si stabilivano in Atene per motivi commerciali. In pratica erano degli xenoi, ma grazie a questa particolare istituzione potevano godere di alcuni diritti.
Innanzitutto il meteco aveva l’obbligo di mettersi sotto la protezione di un cittadino, che assumeva la funzione di patrono (prostates). Il compito di questo patrono era quello di appoggiare la richiesta di iscrizione nelle liste dei meteci e di garantire il pagamento della tassa di 12 dracme l’anno cui erano sottoposti gli stranieri residenti.
Esistevano dunque delle forme di tutela per gli stranieri di stirpe greca, gli xenoi, ma anche quando queste concessioni passarono dalla forma dell’accordo privato a un’istituzione pubblica, comunque, rimaneva fondamentale conoscere una persona fidata nella città nella quale ci si doveva recare per lavoro. Il patrono era un vero e proprio garante dell’incolumità del meteco e quindi era necessario che fosse una persona di fiducia e di specchiata moralità.
L'Ospitalità Omerica
Secondo l’uso testimoniato a più riprese dai poemi omerici, lo straniero che si presenti alla corte di un eroe è destinato a ricevere un trattamento regolato da un preciso protocollo cerimoniale, la cui importanza è suggerita dal fatto stesso che l’ospite sia posto sotto la diretta protezione di Zeus (cui appartiene l’epiclèsi di Xenios, «protettore degli ospiti»).
Non appena si presenti al padrone di casa, l’ospite ha il diritto di essere accolto, curato dalle serve secondo le sue esigenze (in genere lavato e cosparso di unguenti) e generosamente rifocillato. Trattenutosi senza limiti di tempo presso la casa che lo ospita, il viaggiatore può riprendere il suo cammino: ma ciò non avverrà senza l’ultimo degli obblighi previsti dalle leggi dell’ospitalità, ovvero un cospicuo donativo che l’ospitante versa all’ospite e che quest’ultimo non può in alcun modo rifiutare.
Tale donativo consiste generalmente in beni di lusso (vesti, tripodi, gioielli, armi, suppellettili preziose, ma anche cavalli o vino pregiato) e l’obbligo di accettazione che è fatto all’ospite - e che in nessun modo può subire deroghe - aiuta a inquadrare l’ospitalità nell’insieme delle pratiche legate al ‘dono’ arcaico: scambio fra due soggetti sociali che intendono innanzitutto dar prova del proprio status economico, il dono fa guadagnare in prestigio ciò che fa perdere sotto il profilo strettamente materiale.
Alla regola non sfugge il rapporto di ospitalità: nutrito, curato, colmato di doni, l’ospite è tenuto a restituire il servizio qualora le parti si invertano e l’ospitante si venga a trovare, in veste di viaggiatore, nella casa dell’ospite.
In questo senso l’ospitalità, indifferente a specificazioni etniche o a schieramenti politici, appare uno dei capisaldi dell’internazionalismo che fu tipico dell’aristocrazia arcaica. Praticata senza interruzioni dai circoli nobiliari (ne resta più di una traccia nella poesia simposiale), l’ospitalità venne ereditata dalla polis nella forma della ‘prossenia’, uno dei più fondamentali strumenti ‘diplomatici’ atti a tutelare i diritti dello straniero.
Apolis: Senza Città
Il termine apolis, formato da polis preceduto da alfa privativo, indica genericamente una persona «senza città» assumendo sfumature semantiche piuttosto variegate. I poeti tragici lo utilizzano, ad esempio, per fare riferimento a personaggi drammaticamente condannati ad un destino di isolamento.
Particolarmente emblematiche le attestazioni concernenti Filottete, abbandonato dai compagni sull’isola di Lemno a causa di una ferita infetta, Edipo, esiliato dal figlio Polinice e costretto ad una vita di povertà, e Medea che, tradita da Giasone, si ritrova da sola, senza parenti, in terra straniera.
In un altro celebre passo delle Storie, il capo dei Corinzi, Adeimantos, definisce Temistocle apolis aner, sostenendo che gli Ateniesi non contino più nulla dopo l’incendio della città ad opera dei Persiani: Temistocle è considerato un uomo “senza patria” (τῷ μὴ ἐστὶ πατρίς) e “senza città” (ἀπόλι ἀνδρί) che non ha pertanto alcun diritto di parola.
Anche il protagonista della Contro Eubulide di Demostene sottolinea il legame tra territorio e cittadinanza. Euxitheos, che è stato privato della cittadinanza a seguito del voto dell’assemblea dei demoti di Alimunte, verrà venduto come schiavo, qualora i giudici, dopo aver verificato la sua identità, ritengano che non abbia i requisiti necessari, cioè che i suoi genitori non siano entrambi ateniesi.
In un accorato appello finale, minaccia addirittura di togliersi la vita se non gli verrà data la possibilità di seppellire sua madre nelle tombe di famiglia e se verrà privato dei suoi familiari, preferendo morire in patria piuttosto che diventare apolis.
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