Umberto Curi: Il Significato dello Straniero
Nelle lingue indoeuropee, il termine che designa lo straniero racchiude in sé l'intero spettro delle accezioni semantiche dell'alterità. Questo include il forestiero, l'estraneo, il nemico, lo strano, e lo spaesante. In sostanza, tutto ciò che viene percepito come "altro" rispetto a noi, ma con cui stabiliamo comunque una relazione.
L'Ambivalenza del Termine Straniero
Questa indistinzione di significati emerge con particolare evidenza dai termini in latino e greco, che poi ricompaiono, seppur con variazioni lessicali e semantiche significative, anche in alcune lingue moderne.
In latino, per un lungo periodo, straniero si diceva hostis. Contrapposto al cittadino, all’in-genuus, a colui che appartiene per nascita, dunque per sangue e cultura, alla comunità originaria di riferimento, il termine hostis, che indica lo straniero, concentra in sé tutte le figure dell’alterità, senza tuttavia coincidere affatto - come accadrà invece molto più tardi - con una caratterizzazione “ostile”, senza cioè riferirsi unicamente a chi venga dall’esterno con intenzioni “bellicose”.
Come risulta da un importante passo del "De officiis" di Cicerone, in latino, per un lungo periodo, straniero si dice hostis, la cui radice più probabile è ghas, rintracciabile anche nel gotico gast. Il significato del termine hostis diviene più chiaro se è posto in rapporto col termine che ne rappresenta in qualche modo il correlato necessario, vale a dire il termine hospes. Derivando dalla stessa radice, come hostis anche hospes indica originariamente l'estraneo, ed è dunque sinonimo di hostis, e solo successivamente assume il significato di ciò che si pone come termine correlativo di hostis: di fronte allo "straniero" (hostis) io devo essere "ospite" (hospes).
Dell’originaria polivalenza del termine hostis troviamo un’esplicita testimonianza in un passo del De officiis, nel quale Cicerone ricostruisce il processo storico che ha condotto a sovrapporre al termine hostis quel significato di inimicus, o perduellis (e cioè “nemico pubblico”), che è invece assente nell’accezione primitiva dello straniero-hostis. «Voglio anche osservare - scrive infatti l’autore latino - che chi doveva chiamarsi con vocabolo proprio perduellis [nemico di guerra] era invece chiamato hostis [straniero] temperando così con la dolcezza della parola la durezza della cosa.
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Ma l'origine comune di questi due termini si conserva nella loro potenziale intercambiabilità, nel senso che colui che è hospes è sempre anche hostis, è sempre nella condizione di diventare egli stesso "straniero", viandante, bisognoso di ospitalità. Al punto da poter affermare che hostis e hospes non indicano due "stati", due condizioni oggettive e immutabili, ma segnalano piuttosto due dinamiche che si intrecciano e sono sempre suscettibili di convertirsi l'una nell'altra.
Tutto ciò appare ancora più chiaro se ci si riferisce alla lingua e alla cultura greca. Il termine xenos, infatti, designa al tempo stesso lo straniero e l'ospite, senza che si dia alcuna possibilità di distinguere nettamente quale di questi due significati debba essere considerato prevalente sull'altro. Non solo lo xenos non è il "nemico", ma anzi l'essere nemici nei confronti dello straniero è considerato una colpa gravissima.
Come si legge, ad esempio, nella tragedia "Ecuba" di Euripide, essere echtro-xenos, essere "nemico dello straniero" è " nefando, innominabile crimine, al di là di ogni stupore, empio, intollerabile".
La Necessità dello Straniero per l'Identità
In quanto figura dell'alterità, lo straniero è necessario all'affermazione della mia identità: non potrei neppure essere in-dividuo - non potrei neppure porre e vedere riconosciuta la mia peculiare identità - se essa non risultasse dal rapporto con ciò che, limitandola, la definisce.
In tal modo, l'anonimo protagonista del film si trova a realizzare un duplice e parallelo processo di scoperta, all'"interno" e all'"esterno" di se stesso. Mentre, infatti, poco alla volta egli fa esperienza del mondo, ne comprende le regole formali di organizzazione e i meccanismi materiali di funzionamento; allo stesso modo, con altrettanta gradualità, egli "conosce" se stesso, senza tuttavia mai riuscire a dissipare l'oscurità che incombe sulla propria identità passata, o per maggiore esattezza senza mai riucire a ricollegare il "sé" che egli va quotidianamente costruendo, con l'altro "sé", quello che gli sta alle spalle, quello dal quale proviene.
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Da un lato, egli si imbatte nelle regole di un'umanità incapace di andare al di là del mero accertamento del possesso di determinati requisiti puramente burocratici, totalmente indifferente alla persona, e ai diritti che in quanto tale alla persona competono, proprio perché unicamente concentrata su quella sorta di astrazione formale che è costituita dall'identità anagrafica.
Di tutt'altro segno, l'accoglienza a lui riservata dall'universo di coloro che vivono ai margini di un mondo che non compare mai esplicitamente, ma del quale si intravedono i contorni e si intuiscono le regole. Il comportamento di costoro, anche quando non sia ispirato alla benevolenza, come accade con l'esoso guardiano, capace di estorcere denaro con qualunque pretesto, è tuttavia sempre e comunque orientato alla peculiarità irriducibile della persona, piuttosto che alla sua mera astrazione formale, alla sua particolarità umana, anziché alle sue generalità anagrafiche.
Così è per la famiglia che lo accoglie originariamente, per l'elettricista che lo aiuta nell'attrezzare un ricovero di fortuna, per i volontari dell'esercito della salvezza e per i componenti della piccola orchestra, perfino per il solitario rapinatore della banca. Fra questa gente afflitta dalla povertà materiale, ma ricca di umanità, avvezza a stenti e privazioni, ma al tempo stesso pronta ad una solidarietà concreta, senza enfasi e senza retorica, capace di fare fronte comune contro la violenza che un terzetto di teppisti infligge ad un loro sventurato compagno, lo straniero riesce infine a definire una propria identità.
Scritto con ammirevole sobrietà di immagini e gesti, di dialoghi e di suoni, carico di una forza evocativa non affidata alla ricerca di un pathos superficiale, ma desunta piuttosto dalla linearità di una storia raccontata con un tono quasi dimesso, ricorrendo all'eloquenza della sottrazione e dell'ellissi, piuttosto che all'accumulo descrittivo dei dettagli, questa opera di Kaurismaki illustra meglio di tanta saggistica pseudosociologica quale scenario sia di fronte a noi, in una fase in cui quella dello straniero si proponga come la figura con la quale l'intero Occidente - l'Occidente opulento e fortunato dal punto di vista economico, ma pur sempre sull'orlo del crepuscolo che è scritto nel suo stesso nome - dovrà comunque fare i conti nel prossimo futuro.
Da un lato, il tentativo di cancellare la presenza dello straniero, visto unicamente come perturbante irriducibile al generale, perché sprovvisto di generalità, vissuto come destabilizzatore di un ordine, concepito perciò unilateralmente come minaccia, e dunque come nemico. Dall'altra parte, una pratica dell'accoglienza non ispirata ad un "buonismo" che potrebbe apparire edulcorato e utopistico, ma costruita piuttosto nella consapevolezza (esplicitamente enunciata dalla donna che imbocca lo sconosciuto nelle scene iniziali) del dono di cui egli è portatore, dell'identità che egli mi aiuta a costruire, nell'atto medesimo in cui egli stesso definisce la propria, del nuovo, più maturo e compiuto, più ricco e più equo, ordine che egli concorre a costruire, proprio in ragione - e non nonostante - la sua radicale alterità.
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Ciò significa che se la riduzione unilaterale dell’hostis a nemico contraddice la polivalenza semantica originaria del termine, per la quale l’hostis è insieme straniero, ospite e nemico, allo stesso modo la cancellazione del carattere potenzialmente ostile dell’hostis, in nome di un privilegiamento esclusivo del suo carattere di ospite, dissolve una caratteristica che viceversa non può essere soppressa. Al contrario, nella relazione con l’altro l’ambivalenza con la quale esso mi si presenta resta fondamentale e ineliminabile.
Da un lato lo straniero mi fa dono della mia identità, dall’altro può svolgere questa funzione, può regalarmi il mio essere quello che sono, non perché mi sia univocamente ed esclusivamente amico, ma proprio perché è, in se stesso e irresolubilmente, anche nemico. Intrinsecamente duplice, come hostis-hospes, lo straniero è altrettanto duplice quanto ai suoi effetti, perché consente la posizione e il riconoscimento dell’identità specifica di chi entri in rapporto con lui, proprio attraverso l’apertura di una massima divaricazione fra il sé e l’altro.
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