Il Dio Straniero nella Mitologia: Trance, Possessione e Identità
Il libro "Il dio che danza" di Paolo Pecere (Nottetempo, 2021) esplora i viaggi dell'autore alla ricerca di un fenomeno antico e universale: la trance da possessione indotta dalla danza e dalla musica. Questo studio si sviluppa sul piano storico e filosofico, ponendo una domanda fondamentale: che cosa resta oggi del tarantismo e come si risponde ai bisogni che esso soddisfaceva un tempo?
La Trance e Dioniso: Un'Antica Connessione
Nell'antica Grecia, la trance, intesa come temporanea trasformazione in qualcun altro, era praticata in nome di Dioniso, il dio "dispensatore di gioia", "che scioglie" e "che libera", superando i confini dell'io e le convenzioni sociali. Il progetto del libro trae origine dalla constatazione che molti viaggi e ricerche dell'autore convergevano verso un concetto simile: la manifestazione di una divinità che anima un individuo, lo induce alla danza, lo libera dai vincoli dell'identità e delle norme sociali, trasformando la sua prospettiva sul mondo.
Nella Grecia antica si trattava di Dioniso, nel mondo di oggi si tratta di diverse divinità o spiriti che coesistono talvolta con il monoteismo, come accadeva in Italia con il tarantismo. Non esiste una tradizione culturale comune, o comunque non è documentata, ma per dare un titolo a queste somiglianze globali ho trovato la formula “il dio che danza”.
Il Tarantismo: Un Fenomeno di Liberazione
Il libro dedica ampio spazio al lavoro di De Martino sul tarantismo. Gianfranco Mingozzi filmò le tarantate per il suo documentario "La Taranta", in cui Salvatore Quasimodo interpreta il senso di riscatto dietro le crisi: "Questo è il grande giorno delle tarantate. Per una volta all’anno, esse scrollano il peso dei tormenti del loro numero anonimo nella società e della privazione di diritti elementari, e possono recitare la loro disperazione davanti a una folla di spettatori".
Già de Martino ricordava che rituali simili al tarantismo, in cui l’individuo si libera delle inibizioni, si esibisce in un ballo, elabora i propri traumi e si cura, si trovavano su altre sponde del Mediterraneo. Il tarantismo si era formato storicamente dall’incontro di paganesimo, cristianesimo e islam, e le analogie suggerivano una possibile parentela con le trance di possessione delle culture dell’Africa occidentale.
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Questo fenomeno è estremamente affascinante e prezioso per riconoscere una comunanza culturale tra la nostra civiltà e altre, anche remote.
La Molteplicità dell'Io e la Trance
A un certo punto del libro, Pecere scrive che per gli studiosi di civiltà afroamericane la trance è l'esplorazione di parti non integrate del sé, poiché l'io non è mai uno, ma composto di elementi di diversa origine. Questa interpretazione pare offrire una mediazione tra la tradizionale visione occidentale dell’io sul modello cartesiano e quella della cultura orientale dove l’io è considerato invece un’entità transitoria, poliedrica se non del tutto illusoria. Non possiamo guardare all’esperienza della trance da possessione senza tenere conto di questi riferimenti.
La molteplicità interna all’io, che gli antropologi hanno ritrovato nelle culture africane, è già stata riconosciuta, in modi diversi, nella nostra tradizione, per esempio da Platone e Freud. Questa molteplicità, come osservo nel libro, non esclude che l’io esista e debba sempre negoziare la propria esistenza rispetto a diverse istanze psichiche. Da questo punto di vista, la concezione nietzscheana del dionisiaco come vera e propria dissoluzione dell’io, ispirata da Schopenhauer e - mediatamente - dalla cultura indiana, mi sembra rendere conto in modo parziale delle esperienze che racconto e che cerco di comprendere. Se non ci fosse un io presente a se stesso, sia pure un forma ridotta e oscurata, a chi gioverebbe l’esperienza estatica?
La possessione divina, come ispirazione oracolare e come rapimento emotivo, era comune nella Grecia e nella Roma antiche. Gli eroi omerici dicono spesso di aver agito per intervento di un dio o di un demone. Invece per la cultura cristiana la possessione assume i caratteri di uno stravolgimento minaccioso della natura, una violenza contro cui bisogna lottare (un’immagine ancora dominante nella cultura occidentale, basti pensare a film come L’esorcista).
Nel pensiero indiano uomini e animali vengono perfino inclusi nel medesimo orizzonte naturale e sacro. Nel mondo islamico più che di possessione si preferisce parlare di “estasi” come processo di massimo avvicinamento tra il fedele e Dio, poiché l’identificazione tra i due negherebbe la trascendenza divina.
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Maschere e Possessione: La Permeabilità dell'Io
Inoltre nel testo sottolinei anche come in Africa venga usata l’espressione che “la maschera le abbia preso la testa” per la possessione, sottolineando l’introiezione di quel cambio di identità che è determinato dalla maschera. Entrambe, possessione e maschera manifestano la permeabilità dell’io. Il tema attraversa tutto il libro.
Possessione è in genere la transitoria assunzione di un’altra personalità, che anima il corpo. In ambito monoteistico, per esempio cristiano e islamico, la possessione divina è solitamente esclusa, pertanto Gilbert Rouget proponeva di parlare piuttosto di un avvicinamento al divino chiamato “estasi”.
Il concetto di persona è un crocevia per i diversi modi di guardare alla possessione: come maschera, originariamente nella nostra antichità classica e ancora oggi in molte culture umane, simboleggia proprio la possibilità di diventare altri; ma nell’elaborazione giuridica e filosofica tipica della civiltà romana e cristiana, ha indicato soprattutto una individualità irriducibile, un soggetto portatore di diritti e valori. Questa differenza concettuale è ancora presente.
Il Dio che Danza e le Comunità Marginalizzate
Il dio che danza è spesso presente tra comunità marginalizzate, libera da norme che inibiscono una esplorazione psichica ed erotica, è vicino alla natura come fondamento spesso negato della civiltà urbana.
In India hai assistito a un rito di “ possessione” in cui danzatori appartenenti alla casta inferiore diventano dei e vengono onorati dall’intera comunità e racconti di come i sorveglianti chiedano alla folla radunata in cerchio di spegnere i cellulari: la violenza sacra non si può fotografare. Pensando ai fenomeni costanti di vetrinizzazione del sé, a cui oramai assistiamo continuamente, sono rimasta colpita da questo particolare.
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Nonostante la globalizzazione dei viaggi e del turismo, esistono ancora residui misterici in molti dei culti di possessione che racconto e che ho osservato. Alcuni luoghi dei santuari indiani e pakistani sono chiusi ai non iniziati e lo stesso vale per i terreiros dei culti afroamericani. Il tutto accade nel mondo di oggi e va letto in un contesto dinamico: il divieto di fotografare può talvolta servire a proteggere una comunità da critiche e strumentalizzazioni esterne, a rafforzare il prestigio di una casta sacerdotale o finanche a pretendere un pagamento, facendo del rito un evento turistico o un lavoro terapeutico non gratuito.
“Alcuni studiosi hanno suggerito che il dio Śiva, che crea, distrugge e danza, un dio “impuro”, “folle”, “distruttore delle barriere sociali”, che guida “gli uomini di basso rango”, che va “nudo, con i capelli scomposti” e mette in gioco le distinzioni tra uomo e animale, maschio e femmina, sarebbe un equivalente di Dioniso: tutto discenderebbe da una religione comune centrata su un “signore degli animali” e di tutta la natura”.
Per orientarsi tra queste analogie bisogna però distinguere episodi eterogenei, corrispondenti a diversi momenti d’incontro tra culture e religioni. Come ho accennato sopra, si tratta di riconoscere una comunanza di funzioni prima ancora di ipotizzare una genealogia culturale comune.
Anche le ipotesi di fondamenti protostorici o preistorici sono interessanti, ma vanno sondate con metodo critico e cautela. Per esempio, le affinità tra Dioniso e Shiva sono molto affascinanti, ma i documenti sembrano ancora insufficienti a stabilire una origine comune. Un discorso analogo vale per lo sciamanismo, dove le analogie tra culture siberiane e culture amazzoniche hanno portato a ipotizzare una lontana origine comune, fondata sulla migrazione di uomini dall’Asia alle Americhe.
Dioniso: Nascita, Mito e Simbolismo
Secondo il mito, la nascita di Dioniso è legata alla tragica morte della madre Semele. Questa infatti era divenuta l’amante di Zeus e - quando già aspettava un figlio da lui - cadde nella trappola tesa da Era. Convinta da lei, Semele chiese a Zeus di mostrarsi con il suo autentico aspetto, quello di re dell’Olimpo.
Zeus, avendo giurato di soddisfare ogni sua richiesta, fu costretto suo malgrado ad accontentarla. Semele era soltanto una donna, non una dea, e la sua natura mortale non le consentiva di sopportare il fulgore e la potenza dei fulmini di Zeus. Poco prima che morisse però, con la velocità che lo caratterizzava, Ermes strappò il bambino dal ventre di Semele e lo cucì nella coscia di Zeus. Trascorsi tre mesi, la gravidanza fu portata a termine e Dioniso poté nascere. Dopo varie traversie, il piccolo venne affidato alla cure delle Ninfe che dimoravano sul monte Nisa, in Eliconia. J.F.
Dioniso non era destinato a una vita tranquilla. Divenuto adulto, fu riconosciuto da Era che indusse in lui la pazzia. Da allora Dionisio iniziò il suo vagabondare folle in giro per il mondo. Nel suo viaggio lo seguiva un corteo scomposto di Menadi, Satiri e Sileni. Le Menadi ci appaiono vestite da una pelle di cerbiatto, di volpe o di pantera; le loro teste, come quella del loro dio, sono coronate d’edera ed esse si aggirano danzando per i boschi al suono di una musica sfrenata; quando l’eccitazione raggiunge il culmine, in preda all’esaltazione addentano un animale dilaniando le sue carni crude.
La pantera, animale a cui la tradizione classica attribuisce l’attitudine ad un accoppiamento sfrenato, è animale consueto nei cortei dionisiaci. l culto di Dioniso si diffuse in tutta la Grecia e, inevitabilmente, anche a Roma. A seguito dell’inarrestabile processo di ellenizzazione che cambiò per sempre la cultura e il modo di vivere romani, Dioniso venne accolto e chiamato Bacco. Bassorilievo con corteo bacchico, da Ercolano, I sec.
Quando i Cristiani dovettero elaborare un proprio linguaggio artistico il vino, la vite, l’euforia dionisiaca e il mondo gioioso che era appartenuto prima a Dioniso, poi a Bacco e al suo corteo, divennero le immagini simboliche più utilizzate dalla nuova religione monoteista.
Il Legame con la Morte e la Rinascita
L’associazione di Dioniso con i rituali funerari era peraltro già diffusa. C’è una tradizione orfica che racconta di un dio fatto a pezzi e “ricostruito” da Apollo. Già solo per questo, per questa somiglianza con un’altra autorevolissima divinità mediterranea, Osiride, per questo andare e venire dall’aldilà, Dioniso si presterebbe egregiamente a essere patrono dei riti funebri. La stessa etimologia del suo nome (“nato due volte”, allusivo in questo caso alla nascita dalla coscia paterna) è una promessa di rinascita.
Ma c’è un sottile legame, tuttora oggetto di studio, che lega proprio il rituale del “bere insieme” al mondo dell’aldilà. (La nascita della tragedia, 1871, ed. Adelphi 1981, p. che sgorga e del vino schiumeggiante. della bevanda che inebria e che esalta. M. Detienne, Dioniso a cielo aperto, trad. di M. Bari: Editori Laterza 19882, pp. elusive e problematiche. e dell’estasi sfrenata. all’oltretomba.
Influenze e Parallelismi Culturali
Il sufismo è in qualche modo un “ponte mistico” tra Grecia e India. Il sufismo è una tradizione religiosa, filosofica e artistica complessa e articolata, di cui ho conosciuto di prima mano soltanto alcune espressioni. Il Pakistan è un caso particolarmente significativo perché è stato fin dall’Antichità una terra di confine e di incontro tra civiltà: Alessandro Magno fermò la sua avanzata a Lahore, convinto di aver ripercorso le tracce di Dioniso, dio straniero d’origine asiatica.
Il sufismo è stato ed è un “ponte” perché si radica in parte nella filosofia neoplatonica, e quindi nel Mediterraneo, e d’altra parte si è innestato nella cultura indiana, perseguendo una linea di apertura che ancora oggi suscita reazioni critiche e talvolta violente tra chi ha una concezione diversa dell’ortodossia islamica.
“L’io viaggiante, l’io fuggiasco, l’io sulle tracce di un “dio straniero che viene da lontano, che cambia identità, che viene fatto a pezzi e si ricompone, che è uomo e animale, uno e molti, che finisce in catene, che le spezza, che libera. I Greci lo chiamavano Dioniso”.
Il Simbolismo di Dioniso: Natura, Ebbrezza e Trasformazione
Gli antichi attribuirono a Dioniso una serie di simbologie connesse a un'idea di sofferenza, persecuzione e follia. Tra i suoi attributi si annoverano:
- La vite e il vino: Il simbolo più rappresentativo del dio, non solo nella vite, ma la pianta prediletta è l’edera.
- L'edera: Era invocato come kissòs e del terremoto che accompagnò lo scoccare della folgore.
- Animali: Il toro, il leone e la pantera.
- Strumenti musicali: Il tirso.
Dioniso è il dio "che scioglie" e "libera" dagli affanni, si riferisce Lysios, il Liber dei romani, ossia lo "spirito dell’albero".
La figura di Dioniso incarna un tema di diversità e adattamento alle regole, un invito a riscoprire un elemento estatico e una profonda connessione con la natura.
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