La figura dello straniero nella letteratura: un'analisi
Se c'è un autore che più o meno tutti, concordemente, pongono all'inizio della letteratura moderna, questi è Baudelaire. Charles Baudelaire viene dunque considerato il fondatore della poesia moderna. Gustave Flaubert, invece, sta all'origine della moderna concezione del romanzo. Curioso destino, quello di questi due scrittori, entrambi nati nel 1821 ed entrambi processati per oltraggio alla morale dallo stesso pubblico ministero, nel corso dello stesso anno, il 1857. Il fatto che un tribunale francese abbia proceduto sia contro Madame Bovary che contro Les Fleurs du mal, cioè contro le due opere inaugurali del Moderno in letteratura, sta a significare pur qualcosa, credo, nel rapporto tra una società e i suoi uomini di lettere.
Qualcosa che si può chiamare, come minimo, incomprensione, quando non francamente persecuzione vera e propria. Che poi Flaubert sia stato assolto e Baudelaire condannato non conta molto. Quello che conta è il divorzio tra opinione comune, mentalità generale da una parte e poeta e romanziere dall'altra. È fatale che ne nasca un senso di estraneità nello scrittore. Che sente di non far parte, di non essere membro di una società che lo mette sotto processo.
Baudelaire e il senso di estraneità
Baudelaire esprime in vari testi il suo senso di estraneità rispetto al mondo che lo circonda. Ma quello in cui questo sentimento è dichiarato a più chiare lettere e in modo splendidamente poetico è senz'altro il poemetto in prosa L'étranger (Lo straniero), uscito la prima volta su rivista nell'agosto del 1862. "Qui aimes-tu le mieux, homme énigmatique, dis? - Eh! - J'aime les nuages... les nuages qui passent... là-bas... "Uomo enigmatico, dimmi, chi ami di più? - Amo le nuvole... le nuvole che passano... laggiù..."
Questo testo occupa la prima posizione nella raccolta dei poemetti, uscita postuma nel 1869 con il titolo Le spleen de Paris, ma progettata da Baudelaire stesso. Non è certo casuale che, per aprire la raccolta di tali brani di prosa musicale, senza rima e senza ritmo costante, percepita dall'autore come tentativo di grande innovazione, Baudelaire avesse previsto proprio il dialoghetto de Lo straniero. Come a dire ai lettori: guardate, cari miei, che io, questo sono: uno straniero. Uno senza famiglia, senza amicizie, senza patria, senza Dio, senza soldi e amante unicamente della bellezza, sì, ma della bellezza perennemente cangiante, mutevole, imprevedibile, fragilissima - la bellezza delle nuvole in fuga sull'orizzonte. Uno straniero, cioè un poeta. Ossia uno che scrive senza mandato sociale. Uno che assomiglia a San Giovanni che predica nel deserto.
Baudelaire non ha mai scritto un best-seller, in effetti. Per questo, per questa mancanza di riconoscimento da parte della società in cui vive, egli, il letterato, può identificarsi solo con i reietti, i respinti, le figure sociali dell'emarginazione: la prostituta, il povero, il vagabondo, il pervertito, il dandy... Basti per tutti il vecchio saltimbanco, protagonista del quattordicesimo di questi cinquanta poemetti in prosa.
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Su tali fondamenti, si può capire la definizione sorprendente con cui il poeta apre il sonetto Zingari in viaggio (Bohémiens en voyage): Tribù di profeti dalle pupille ardenti (tribu prophétique aux prunelles ardentes). Non vorrei si pensasse che Baudelaire si lagni di questa sua condizione di totale estraneità. Che se ne lamenti. Tutt'altro. Essa è il suo punto di forza. Solo chi è escluso può vedere cose che a tutti gli altri sfuggono. Il punto di vista dello straniero è un osservatorio privilegiato.
Camus e l'assurdo
Il protagonista, l'insignificante impiegato Mersault, viene condannato a morte per aver ucciso un uomo senza un perché preciso. Ma l'impiegato dalla vita insulsa, chiuso nella sua cella, in attesa dell'esecuzione capitale, diviene metafora della condizione umana nella sua interezza. Una condizione segnata dall'assurdo.
E, nel famoso saggio Il mito di Sisifo, uscito nello stesso anno, 1942, Camus spiega bene il nesso tra la figura dello straniero e la sua concezione del senso della vita: Un mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare; ma viceversa, in un universo di colpo spogliato d'illusioni e di luci, l'uomo si sente uno straniero, e tale esilio è senza rimedio, perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa.
Alla base delle riflessioni di Camus stanno sia Dostoevskij sia Kafka. Ad affascinare il filosofo francese non è solo, nei Demoni di Dostoevskij (1873), il personaggio Kirillov, con la sua metafisica del suicidio, ma anche l'enigmatico Stavrogin. Egli è lo straniero per eccellenza.
Kafka e l'estraneità
Quanto a Kafka, tutta la sua opera, si sa, non è che una lunga, articolata, compatta variazione sul tema dell'estraneità. Culminata, due anni prima della morte, nel Castello (1922), l'ultimo romanzo incompiuto, postumo come gli altri due. Chi più dell'agrimensore K. incarna il ruolo dello straniero, dello Straniero? Nessuno. K. è l'archetipo dello straniero. L'essenza stessa della figura.
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Quando, miracolosamente, il funzionario Buergel sta per comunicargli una possibile soluzione del suo caso, un'eventuale accettazione, K. che fa? Che poi, nel finale ipotizzato da Max Brod, K. venisse, in punto di morte, per dir così "regolarizzato" e entrasse a pieno titolo nella comunità, non conta molto.
Ungaretti e l'inappartenenza
C'è però un poeta italiano del Novecento, molto noto, in cui la particolarità biografica si riflette nei testi in modo inequivocabile. Ungaretti era nato a Alessandria d'Egitto da genitori italiani (nel 1888); la sua formazione fu in lingua francese; le sue prime poesie le scrisse in francese; poi passò all'italiano; ma non sapeva bene se era francese o italiano. Tutta la sua opera, nella prima fase, esprime questo senso d'inappartenenza.
Si sarà visto che i termini sono proprio quelli de L'étranger di Baudelaire: assenza di casa, di famiglia, di amicizie. In effetti Baudelaire, assieme a Mallarmé, è uno dei numi tutelari della prima poesia ungarettiana.
La figura dello straniero: ricezione e meccanismi
Un’analisi che abbia come oggetto di indagine la figura dello straniero, nei termini di ricezione dell’alterità e di meccanismi che ne identificano le peculiarità, si apre ad un’operazione interdisciplinare e incrociata, che proietta le problematiche in prospettiva tanto diacronica quanto sincronica. La collaborazione di più settori disciplinari pare inevitabile per delineare e approfondire una figura, quella dello straniero, complessa e articolata, la cui comprensione non può esaurirsi efficacemente nell’ambito di un’unica disciplina.
Per tale ragione uno studio esaustivo deve toccare trasversalmente e dialogicamente più settori: dalla letteratura all’antropologia, dalla psicoanalisi alla sociologia, dalla geografia all’imagologia. L’imagologia tenta di comprendere le strutture, i meccanismi di mitopoiesi, i pregiudizi e le valutazioni che si sedimentano nell’inconscio di una società attraverso lo studio delle immagini che vengono prodotte del Sé e dell’Altro.
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Proprio la letteratura, per la sua costante osmosi con l’immaginario collettivo da cui trae materiale narrativo, rielabora lo stereotipo dello straniero attraverso innumerevoli sfaccettature: principalmente come mitopoiesi di un Altrove lontano e vagheggiato, fuori dal tempo e dalla Storia, simmetricamente antitetico al nostro mondo, al quale si ha accesso il più delle volte attraverso il racconto di una voce esterna. La prima griglia d’accesso alla comprensione dell’Altro è, dunque, quella dello stereotipo (letteralmente, dall’etimologia, “immagine rigida”).
Lo stereotipo, paradossalmente, viene utilizzato maggiormente per conoscere le realtà con le quali vi è contatto diretto, in cui lo straniero è un membro della comunità, ma pur condividendo gli stessi spazi del Noi, rimane ai margini dei processi di integrazione sociale e culturale. Questo racchiude perciò in sé l’ossimoro di lontananza e vicinanza, espresso con la felice definizione di «straniero interno».
Lo straniero interno: l'ebreo
Rientra nella tipologia di straniero interno la figura dell’ebreo, al quale il peccato di deicidio non verrà mai perdonato dall’Occidente cristiano. La tipizzazione dell’ebreo si modella sui tratti del demonio, il grande Altro della cristianità, con tutti i corollari che ne derivano: avidità, avarizia, ambiguità sono i tratti che più comunemente lo caratterizzano. Una trasposizione in ambito letterario di questo stereotipo è dato dall’opera teatrale di Shakespeare, Il mercante di Venezia.
In questo caso è proprio l’ebreo a dare voce attraverso le sue parole all’immagine stereotipata che i cristiani hanno fatto propria, sedimentandosi come verità storica e immutabile:
SHYLOCK […] Non ha occhi un ebreo? Non ha mani un ebreo? Non ha organi, corpo, sensi, sentimenti, passioni? Non è sfamato dallo stesso cibo, non è ferito dalle stesse armi, soggetto alle stesse malattie, guarito dagli stessi rimedi, riscaldato e gelato dallo stesso inverno e dalla stessa estate, proprio come un cristiano? Se ci pungete non sanguiniamo? Se ci fate il solletico, non ridiamo? Se ci avvelenate, non moriamo?
Se in questo esempio è la letteratura che ha tratto materiale di rappresentazione dalla realtà, estrapolandone alcuni oggetti e riassemblandoli grazie all’elaborazione poetica, è pur vero che anche la realtà costruisce i propri miti a partire dall’iconografia della letteratura. È quanto avviene nei resoconti dei viaggi in luoghi lontani dall’Occidente a cavallo tra Otto e Novecento, che favoriscono una vera e propria mitopoiesi dell’Altro, esasperandone l’aspetto esotico ed eterogeneo.
Il mito dell'Africa
La colonizzazione dell’immaginario occidentale di forme stereotipate dell’alterità è evidente soprattutto nella creazione del mito dell’Africa, quale terra selvaggia e da “civilizzare”. La ricezione dell’Africa come territorio allo stato di “natura”, privo di forme proprie di organizzazione sociale e politica, crea terreno fertile per la mitopoiesi dell’altrove come rovescio, al tempo stesso ideale e inquietante, del proprio mondo.È quanto avviene ad esempio nella costruzione occidentale del Congo belga, dove l’Altrove, nella sua verginità dalle sovrastrutture della modernizzazione e della cultura, offre il pretesto per una proiezione mitica del Sé primitivo, in un tempo e uno spazio perduti, il cui contatto consente una sorta di purificazione.
Tracciare, quindi, un percorso sulla figura dello straniero comporta una riflessione sui binarismi e sui corollari della cultura occidentale, considerando che l’accezione di “straniero” si crea sempre rispetto a qualcuno che osserva e che si pone in antitesi con il proprio essere “nativo”. L’estraneità riguarda quindi l’oggetto al quale viene dato il taglio prospettico dello sguardo esterno, in una posizione di dominanza e di estraneità rispetto all’oggetto osservato.
Ne consegue, nel dominio di una logica manichea, che il primo abbia sempre una connotazione positiva, prioritaria rispetto al secondo termine che si pone in una posizione di inferiorità ontologica e speculativa. Questa impostazione di analisi che, per usare una metafora ottica, potrebbe essere indicata come “messa a fuoco”, è ascrivibile ad una impostazione di pensiero connaturata all’Occidente, sulla quale ha fondato le premesse teoriche e di metodo, traducendosi come binaria e oppositiva.
Il rapporto con l’alterità è stato ampiamente sfruttato dalla letteratura e dalle arti per le molteplici sfaccettature di questo tema e per la ricchezza di rimandi a discipline quali la psicoanalisi e la filosofia. Infatti anche la teoria della letteratura nel Novecento ha compiuto un’operazione di traslazione, a partire dallo straniero per arrivare allo straniamento, adottando quest’ultimo come categoria autonoma del processo creativo.
Lo straniamento
Lo straniamento, così come formulato dai formalisti, indica un cambiamento nella percezione che sottrae un oggetto alla normale fruizione del senso comune. Il risultato è una visione nuova, eterodossa, che è propria dell’arte e dei processi creativi. La comune matrice morfologica tra i due termini mostra come siano stati selezionati alcuni elementi che delineano gli aspetti fondanti dell’estraneità: la deviazione rispetto alla norma, l’obliquità dello sguardo, l’interiorizzazione dell’alterità.
Analisi di alcune opere letterarie
Verranno presi in esame in questa sede tre esempi di testi tra Otto e Novecento in cui la figura dello straniero è sia ingrediente narrativo sia catalizzatore di senso, quindi protagonista implicito o reale della narrazione. I testi scelti per quest’analisi sono eterogenei: La donna del mare di Henrik Ibsen, Teorema di Pier Paolo Pasolini e L’immoralista di André Gide.
Le tipologie attraverso le quali i protagonisti entrano in contatto con lo straniero sono molteplici e diverse per il valore finale e lo scopo perseguito dalla narrazione: l’incontro può avvenire per un’irruzione dell’alterità nella quiete di un’esistenza normale (Teorema), oppure in seguito al desiderio di ricerca e di fuga, soprattutto da se stessi (L’immoralista), o ancora lo straniero può non entrare fisicamente in contatto con il soggetto, ma essere presente sotto forma di ombra, come spettro dell’inconscio, con tutta la sua portata di alterità perturbante (La donna del mare).
Medea
L’antecedente più illustre di questa figura, nella trattazione letteraria, è rappresentato dalla tragedia di Euripide, Medea. Nel testo sono ravvisabili tanto l’accezione di straniero come diversità culturale, etnica e identitaria, tanto quegli aspetti connessi all’inquietudine che contornano la diversità. Medea infatti esemplifica il contrasto nativo/straniero in maniera simmetrica e speculare rispetto al mondo greco.
Se quest’ultimo infatti, quello dei nativi, è connotato dalla razionalità del pensiero e dal rispetto delle norme sociali e giuridiche, l’altro, quello di Medea, è corredato di attributi minacciosi quali la trasgressione, la magia, l’inganno che si spingono sino alla violazione dei legami familiari più sacri. La suggestione per il sostrato mitico e archetipico che accompagna lo straniero, e che fora l’illusione positivista di controllo e dominio del mondo attraverso la lucidità della ragione, attraversa i secoli e giunge sino alle soglie della contemporaneità.
La donna del mare di Ibsen
La donna del mare di Ibsen (1888) eredita alcuni elementi dalla Medea, tuttavia arricchisce i personaggi della protagonista e dello straniero di risvolti psicoanalitici che sembrano anticipare le teorie di Freud sul perturbante di qualche anno più tardi. Inoltre questo dramma compendia delle questioni proprie dell’età borghese ed estranee al mondo di Euripide: se, infatti, da una parte ritorna «la fatalità minacciosa, l’ἀνάγκη greca», dall’altra è protagonista «il dissidio tra il godimento che l’uomo cerca e la virtù che deve praticare, tra la società presente che offre il primo e non ha l’altra e la società futura e ideale, che sarà virtuosa ma non felice».
Inoltre, rispetto al modello greco preso in considerazione, il contrasto oppositivo non è esterno, tra due culture irrimediabilmente lontane, ma interno, tra la borghesia e lo stato di natura. La tensione tra identità e alterità si svolge soprattutto nell’animo della protagonista, all’interno di una scissione che la porterà sull’orlo dell’abisso.
Ellida racchiude infatti in sé entrambe le polarità (è borghese e straniera al contempo) e questo fa di lei un essere ibrido, la cui metafora si ritrova nella figura della sirena, per metà umana e per metà essere marino, alla quale viene associata. Per Ellida lo straniero non è una realtà fisica, o almeno lo è stata ma non lo è nel tempo presente, eppure la sua presenza latente e costante è fonte di grande turbamento per la giovane donna.
Anche tra Ellida e lo straniero c’è stata una relazione amorosa ma non sono la gelosia, la vendetta, l’amore non più corrisposto a far detonare la narrazione. Per la protagonista il suo vecchio amore, lo straniero, è un tutt’uno con il mare dal quale è venuto, e in cui sembra essere stato risucchiato, e del mare ne condivide le caratteristiche: l’assenza di confini, quindi di regole, il movimento continuo, la libertà assoluta priva di restrizioni (quelle borghesi nel caso di Ellida).
Tutto ciò crea nell’animo della donna una lacerazione irriducibile, nel binomio di attrazione e repulsione verso l’ignoto che l’alterità dello straniero rappresenta. Se esiste una dimensione del tradimento, per continuare il parallelismo con Medea, è quella della donna che ha respinto la sua natura di “donna del mare” per assumere lo status di legittima moglie di Wangel, un medico, un borghese. La ricomparsa improvvisa dello straniero e l’invito a seguirlo costituisce una sorta di drammatizzazione del ritorno del rimosso; rimosso che già si era affacciato in precedenza, avvertendone la presenza e oggettivandola nel dettaglio degli occhi del figlio di Ellida, morto prematuramente.
Infatti la donna confesserà al marito, a proposito del loro primogenito, che «Quegli occhi cambiavano colore insieme col mare! Se il fiordo era tranquillo e scintillava al sole anche gli occhi del mio bimbo splendevano. E lo stesso accadeva quando infuriava la tempesta. Tu queste cose non le hai notate, ma io sì!» In qualche scambio di battute precedente Ellida aveva confessato di averne percepito anche la presenza fisica, ossessiva, attraverso la fissità dello sguardo: «[…] di colpo me lo sono visto davanti, come se fosse qui[…]» e, proseguendo, più avanti: «Posso perfino dirti che ha ancora la sua solita perla azzurrina… che ricorda l’occhio di un pesce morto. N...
Straniero e clandestino nella letteratura italiana contemporanea
Il tema del rapporto con l’altro è, di questi tempi, molto attuale. Ma il concetto di alterità, la dimensione di “straniero”, è qualcosa che già il mondo antico conosce bene, pur senza arrivare mai - come già ho scritto su queste colonne - a manifestazioni che possano avvicinarsi al moderno “razzismo”.
Per iniziare la nostra analisi non esaustiva, in cui proporremo alcune rappresentazioni letterarie della figura del migrante clandestino, ci sembra utile, prima di concentrarci sulla situazione italiana, partire dal periodo di maggiore turbolenza del contesto mediterraneo, il dopoguerra. In effetti, la decolonizzazione e poi globalizzazione hanno cambiato i legami tra gli Stati, e lo spazio mediterraneo è in preda a nuovi equilibri: tra i nuovi Stati postcoloniali e le ex potenze comincia allora un lento esodo che si scontrerà, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, con una politica europea di chiusura.
Un protezionismo che si svilupperà intorno a questioni come sicurezza e immigrazione, strategie politiche che, per alcune fazioni che oggi usa chiamare sovraniste, nel corso degli anni, favoriranno nell’immaginario collettivo la sostituzione della figura dell’immigrato con quella tout court del clandestino. L’avvento della globalizzazione porterà ad una nuova concezione del mercato del lavoro che rispecchia la nuova condizione postmoderna degli individui. La precarietà lavorativa e la flessibilità diventano le caratteristiche del nuovo ordine sociale che il sociologo Zygmunt Bauman chiama “modernità liquida”: una visione delle relazioni umane e lavorative tra gli individui in cui non esiste più una vera stabilità. «Lo slogan dei nostri tempi è la flessibilità: qualsiasi forma deve essere duttile, qualsiasi situazione temporanea, qualsiasi configurazione suscettibile di ri-configurazione» (Bauman, 2006:103).
Questo nuovo orizzonte sociale corrisponde ad una perdita di controllo sul proprio presente per il lavoratore e per il cittadino, una condizione che viene accentuata nel momento in cui si sceglie o si è costretti alla migrazione e/o alla clandestinità.
Allora in che modo rappresentare la figura del clandestino? Non si tratta solo di un individuo che ha attraversato una frontiera illegalmente trovandosi in una posizione illegittima. Attraverso romanzieri e giornalisti che descrivono un’alterità complessa, dagli anni Ottanta, la letteratura della migrazione presenta ai lettori come narrazione di un’Italia in movimento, un luogo in divenire che si scopre in piena mutazione, passando da Paese di partenza a Paese d’accoglienza.
La narrativa italofona
L’altra fase di cui parlavamo sopra, inizia anch’essa alla fine degli anni Ottanta, ed è sempre legata alla letteratura della migrazione, si tratta della narrativa detta italofona, cioè scritta da individui immigrati in Italia, non italiani nel senso stretto, la cui scrittura, raccontando il fenomeno della migrazione, arricchisce la letteratura italiana.
Questi autori sono di origini diverse e adottano l’italiano come lingua di scrittura ed espressione, aiutati in alcuni casi alla stesura da altri autori e giornalisti. «In molti ragazzi come me, il mito dell’Occidente era grandissimo. Nei caffé, la sera, si parlava della Francia e dell’Italia. [...] Si pensava che il lavoro ci fosse dappertutto, che le donne ci stavano [...] Tanti amici erano andati via: partiti per l’Occidente. [...] In Occidente non c’era solo il lavoro, c’era anche la libertà.
Altri autori di origine diverse seguono la scia lasciata da Methnani e da altri scrittori italofoni degli anni Ottanta e Novanta, inserendo definitivamente il tema dell’immigrazione nella letteratura italiana, che perdura fino ad oggi. Gli anni Duemila vedono un’evoluzione nel tipo di narrazione adottata da alcuni autori come Amara Lakhous o Cristina Ali Farah, che hanno approcci nuovi nella loro scrittura: lo stile autobiografico viene accantonato a favore di storie di migranti o di comunità straniere in Italia in cui prevalgono in modo più generale temi di riflessione impegnati quali l’incontro tra le culture ovvero l’arduo percorso per ottenere i documenti, al fine di uscire dalla clandestinità.
Lo scrittore algerino Amara Lakhous riscontrerà un notevole successo, rappresentando sotto diversi aspetti la relazione tra italiani e stranieri, il tutto senza limitarsi a scrivere dal punto di vista di un algerino: nelle vesti di numerosi personaggi di diversa provenienza, egli esplora il volto multiculturale del nuovo Paese che si offre al lettore. In romanzi come Scontro di civiltà per un ascensore a piazza Vittorio (2006) o Divorzio all’islamica a viale Marconi (2010), i personaggi sono uomini e donne di ogni provenienza che accompagnano lo scrittore impegnato ad affrontare le nuove questioni nate dal recente e stabile rapporto tra stranieri e italiani, così da accendere il dibattito che sfida spesso pregiudizi e canoni religiosi e sprona sempre al dialogo tra gli individui.
Il ruolo della letteratura
Noi intendiamo celebrare il clandestino attraverso la sua presenza letteraria in quanto crediamo che essa, senza false speranze, possa essere una delle vie concrete di avvicinamento e di comprensione delle condizione reali dell’altro, di colui che è na...
Se è vero che le differenze sociali, linguistiche, culturali, etc. creano incomprensioni, dal canto suo la letteratura ci invita a non cadere nei banali luoghi comuni. Bensì ci invita ad avere la giusta dose di umiltà e stuzzica la curiosità, insita in noi esseri umani, di conoscere l’altro.
Sempre dalla letteratura siamo ispirati a proiettarci nei panni altrui, facendoli nostri. Come nella novella “Lontano” di Pirandello, nella quale due donne ospitano nella propria abitazione uno straniero infermo. Con lui instaurano un rapporto con il malcapitato e con un amico giunto a fargli visita. Nonostante le due parlassero una lingua diversa rispetto ai due uomini, riuscirono a comprendere la loro profonda sofferenza.
Da questi esempi negativi capiamo che serve riconoscere un’affinità tra noi e lo straniero.
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