Albergo Atene Riccione

 

Lo straniero ieri e oggi: un'analisi del significato

Accade un’altra volta, l’ennesima. Persone disperate, fuggite da climi politici invivibili, da guerre e povertà, rifiutate da chi può aiutarle. Recuperate dalle intemperie del mare da organizzazioni non governative - le uniche che sembrano curarsene - e non accolte dai Paesi più vicini, dalle imponenti istituzioni che possono molto di più di una manciata di esseri umani. Quella della Sea-Watch 3 è una storia già sentita, già raccontata.

Viviamo in un mondo ossessionato, ormai terrorizzato, dalla presenza dello straniero. Dall’esistenza di qualsiasi cosa diversa che esula dai canoni di normalità che ci imponiamo. Non a caso, la parola straniero ricorda un po’ strano, cioè tutto ciò che non è normale.

Paralizzata dalla paura dell’altro, nascosta dietro il lavoro che ci rubano e da un problema che non è nostro, l’Italia si rifiuta di aiutare. Sulla scia di un’Europa che non collabora, è più facile lavarsene le mani, invece di gettarsi nel mare burrascoso. E non solo per evitare il carico di un’ulteriore responsabilità, ma perché lo straniero fa paura.

Una storia vecchia quanto il tempo, vissuta da ogni società in ogni epoca. Perché l’estraneo, qualcosa che non si conosce, non può che essere una minaccia.

Lo straniero nell'antichità

Per gli antichi Greci, gli stranieri erano degni di ospitalità. Qualcosa di diverso, certo, che non poteva che portare a un arricchimento culturale tramite l’integrazione. Non è un caso che il termine xenos - da cui la xenofobia - abbia il doppio significato di straniero e ospite. Vigeva la certezza che, aprendo le porte al nuovo arrivato, in futuro questi avrebbe ricambiato: l’ospite, prima o poi, sarebbe stato ospitato, portando alla luce la contrapposizione del significato anche del termine in italiano, in cui con tale sostantivo si indica sia chi dà sia chi riceve accoglienza.

Leggi anche: Diritti e tutele degli stranieri

L’atteggiamento contemporaneo, invece, ricorda molto di più quello dei nostri altri, più agguerriti, antenati. Sulla stessa lunghezza d’onda dei Romani, infatti, l’abbinamento straniero-nemico (hostis) è estremamente più ricorrente. Ma non solo: così come i Romani consideravano barbarico qualunque altro popolo, anche noi lo riteniamo inferiore. Nella stessa direzione viaggia tutto il sistema occidentale da diversi secoli.

Ma il concetto di alterità, la dimensione di “straniero”, è qualcosa che già il mondo antico conosce bene, pur senza arrivare mai - come già ho scritto su queste colonne - a manifestazioni che possano avvicinarsi al moderno “razzismo”.

Per chi volesse approfondire il tema, è utile la lettura del recentissimo saggio di Mario Lentano, Straniero, Inschibbolet Editore, Roma 2021, nel quale l’autore - valente antichista che guarda al passato con un occhio da antropologo - si occupa del mondo greco e di quello romano.

Ovviamente non possiamo ridurre a unità un mondo - quello greco-romano - che è plurimillenario ed eterogeneo; possiamo invece constatare una sostanziale e più o meno costante compresenza di resistenze identitarie e spinte “aperturiste”.

In Grecia “straniero” - e dunque l’altro da me - si dice xénos, termine che però indica anche la condizione di “ospite”, soggetto che è invece a me caro e vicino e che gli dèi mi impongono di rispettare.

Leggi anche: Analisi approfondita del termine "Straniero"

A Roma, inoltre, tra i molti modi per indicare chi non è romano (advena, externus, peregrinus), vi è anche hostis, che nel latino classico vale soprattutto “nemico”; è però vero che qualcuno lo lega al termine hospes (l’equivalente del greco xénos), e che etimologicamente deriva dal verbo hostire, cioè “pareggiare”. Dunque lo straniero è mio nemico proprio in quanto ha dignità di “pari”, e la guerra - così come la pace - la si fa proprio con soggetti paritetici, degni di essere affrontati: con loro - scrive Lentano - «si combatte una guerra “giusta”, nozione che per i Romani riguarda più la sfera procedurale che quella etica. Tutti gli altri sono invece latrones aut predones, banditi e delinquenti comuni».

Certamente una parola antica che indica lo straniero con decisa distanza esiste, ed è il termine greco bárbaros, che definisce chi parla una lingua che non si capisce e pertanto appare come “balbuziente”. Lentano spiega come l’accezione negativa del concetto di barbaro sia assente in Omero (dove Achei occidentali e Troiani mediorientali sembrano espressione di una stessa civiltà) e si sia invece sviluppata con forza a partire dai tempi delle Guerre persiane (V sec. a.C.), dando luogo all’Invenzione dell’Oriente come mondo barbarico, tirannico e privo di libertà, alternativo a quello libero e civile degli Elleni.

I Romani, che hanno sempre avuto maggiore apertura verso lo straniero (fin dai tempi di Romolo, con l’asylum e il ratto delle Sabine), e che hanno nel tempo concesso ai peregrini la civitas Romana, mutuano però dai Greci il termine barbarus. Lo usano per lo più per indicare popoli di zone geograficamente lontane da Roma, abitate da genti dai costumi rozzi e diversi dai Romani mores: eppure anche da loro qualcosa si può imparare.

Gli unici dai quali Greci e Romani pensano di non avere proprio nulla da imparare sono gli Ebrei: troppo distanti da loro il monoteismo ebraico, i tabù alimentari, il rispetto del sabato e - soprattutto - l’ingerenza del clero nella vita pubblica.

Lentano cita testi nei quali sono gli stranieri a dare del “barbaro” ai Greci, per le loro azioni crudeli (ad es. Astianatte, nelle Troiane di Euripide). E parimenti interessante è ciò che capita a Romani (di cui si parla nel § Eredità latine, pp. 136 ss.) come l’Ovidio esiliato a Tomi che, catapultato in un contesto culturale e linguistico estraneo, afferma «qui il barbaro sono io, che nessuno capisce».

Leggi anche: Documenti necessari per sposarsi in Italia se sei straniero

Tali suggestioni non vogliono confondere passato e presente, ma ricordarci che prima di decidere come agire è bene sapere cosa è successo in epoche lontane, anche se poi «è solo a noi che spetta trovare percorsi verso una storia e un’umanità migliori».

Paura e distacco: lo straniero come capro espiatorio

Lo straniero fa paura. Per questo si alzano muri, per tenerlo distante ed evitare il contatto. Muri come muraglie, come per difendersi dal nemico, muri come roccaforti impenetrabili. Centri di accoglienza che sembrano gabbie, che tengono separate le due fazioni. Muri che, semplicemente, dividono, facendo in modo che sia ben chiara la differenza tra l’élite del mondo e tutti gli altri.

Ma non è solo la paura a muovere le fila del distacco. La differenza percepita fa comodo, soprattutto a chi è propenso a ricondurre tutti i problemi, le violenze e la criminalità a qualcos’altro. Società intere che fanno dello straniero il capro espiatorio di tutte le crepe, le imprecisioni e le disuguaglianze che non sanno affrontare da sole. Ancor di più se di un’altra razza, è troppo diverso, e l’unico modo per accettarlo è cambiarlo.

L’integrazione perde il suo antico significato di amalgama e diventa necessità di trasformare il prossimo, di demolirlo e riassemblarlo secondo i propri canoni.

L'immigrazione oggi: tra sfide e opportunità

Anche se ormai siamo nel terzo millennio già da un ventennio, la maggior parte della popolazione mondiale si trova ancora a lottare contro la fame, cerca disperatamente un lavoro o viene perseguitata per motivi politici. Sembra incredibile che in un periodo che dovrebbe essere caratterizzato da un avanzato progresso tecnologico si verifichino ancora situazioni simili, eppure è così.

I flussi migratori dall’Africa del nord o dal Vicino Oriente, punti di transito per paesi ben più lontani, sono una realtà da anni. Al contrario, il risultato più evidente è una diffusa paura dello straniero. Le immigrazioni spaventano la popolazione del paese ospitante, al punto che il fenomeno è conosciuto con il nome di xenofobia. Il rifiuto dei migranti è diffuso ovunque: quasi sempre si assume un comportamento del tutto razzista.

A tal proposito bisogna anche riflettere sul fatto che non è possibile dimenticare l’esito delle imponenti migrazioni di massa del passato, fatte stavolta dai conquistatori europei: in America ed in Australia furono sterminati o fatti prigionieri tutti gli indigeni del luogo, vittime di un vero e proprio genocidio.

Non è raro che tra gli immigrati emergano rilevanti figure in ambito politico, nello sport e nelle arti, e che i lavoratori migranti diano un contributo economico e culturale al paese ospitante: nella sola Germania, per fare un esempio, l’immigrazione ha contribuito ad un aumento del prodotto interno lordo per abitante.

L’immigrazione è come uno specchio: più lo guardiamo, più ci rimanda l’immagine della nostra società e della nostra vita. È da aggiungere poi che gli spostamenti di popoli da una terra ad un’altra hanno caratterizzato la storia umana per migliaia di anni: è stato un fenomeno sempre presente che ha interessato a volte singole famiglie, a volte intere popolazioni.

Fin dalla preistoria l’uomo si è spostato da un territorio all’altro in cerca di cibo: si pensi, inoltre, alle migrazioni degli ebrei dall’Egitto verso la Terra promessa o a quelle che sono state le imponenti invasioni barbariche che hanno interessato l’Europa del V secolo e che, pian piano, hanno provocato il crollo dell’impero romano d’Occidente.

Oggi l’Italia sembra preoccupata per gli sbarchi di migranti che arrivano nella nostra penisola per cercare lavoro. Gli italiani sono sempre più convinti che la situazione in corso sia un’emergenza: questo perché l’immigrato viene spesso considerato come un delinquente.

Lo Straniero di Camus: un'allegoria dell'alienazione

Il tema del rapporto con l’altro è, di questi tempi, molto attuale.

Così comincia Lo Straniero, e queste poche parole sono sufficienti per trasmettere una sorta di sconcerto che accompagnerà ogni pagina del libro. Meursault, il modesto impiegato di origine francese protagonista del libro, affronta infatti con la stessa laconicità comunicata da questa prima frase una serie di episodi che lo condurranno ad un epilogo che sarebbe tragico, se non fosse vissuto nella stessa maniera spregiudicatamente attonita.

Siamo ad Algeri, dove il sole battente, il caldo soffocante e il sudore pervadono le pagine del romanzo e attanagliano i sensi del protagonista. Alla notizia della morte della madre nell’ospizio presso cui l’aveva ricoverata, segue l’invitabile funerale, al quale Meursault assiste in stato quasi apatico, continuando a pensare di avere caldo, e sonno, e fame.

Poi Meursault torna a casa, vede la sua donna la quale, anch’essa quasi con indifferenza, gli chiede di sposarla. Meursault risponde che per lui è lo stesso, e che se proprio lei ci tiene possono farlo, ma il discorso cade, astratto così com’era cominciato.

Successivamente irrompe nella lucida solitudine di Meursault il vicino di casa. Costui gli chiede notizie del proprio cane che ha smarrito, disperato e piangente come se quotidianamente non lo maltrattasse e lo picchiasse selvaggiamente come invece fa. L’impiegato prende atto dell’intervento del vicino, ma non ha molto da dire.

In seguito Meursault va a passare un fine settimana al mare con degli amici e là, in un caldo dopopranzo sonnacchioso, quasi contro la propria volontà la sua mano spara contro un arabo. Così, impassibile, Meursault si consegna nella stessa maniera attonita alle conseguenze avviate dal suo gesto, lontano come se tutto capitasse ad un altro. Non cerca giustificazioni e afferma di non sapere perché ha commesso quel delitto.

Viene celebrato il processo; Meursault viene condannato. A morte. Si celebra anche il ricorso.

Meursault, con queste parole, sta circoscrivendo l’intera umanità, l’intera vita, a sé stesso. Non importa la reazione materiale all’azione che egli ha compiuto. No. Non vuole abbandonare la vita, ma sa che non è niente di più che una grande balla. E così svelato, nudo, si mostra al lettore. Povero e misero come ogni uomo. A ingannare lo scorrere degli eventi con quella che è la sua cruda realtà.

Il cinismo, il vuoto e l’indifferenza del protagonista risultano a tratti persino scioccanti perché si tratta di quella che potrebbe essere definita una persona perfettamente normale, ma completamente vuota emotivamente e spiritualmente, totalmente materialista, concentrata solo sui propri piaceri e desideri… non si può nemmeno parlare di passioni.

Tutta questa indifferenza rimane rigorosamente senza spiegazioni, senza ragioni e tanto meno soluzioni: è una verità “negativa” quella cui arriva Camus, forse non definitiva ma comunque essenziale per giungere ad una consapevolezza reale di sé.

Fedor Dostojewski sosteneva che “Se non ci fosse Dio, tutto sarebbe permesso”. Per Albert Camus, ricorda lo scrittore Raffaele La Capria nel corso di questa intervista, Dio non esiste e l’uomo che si trova da solo di fronte all’universo vive senza alcuna legge morale, secondo i limiti che egli stesso si impone. Ne Lo straniero (1942), il protagonista Meursault è un piccolo uomo comune, estraneo al mondo e alle sue leggi, è l’uomo che vive la vita come una serie di piccole esperienze equivalenti, senza riconoscere alcun senso di ordine trascendentale e divino.

L’indifferenza con cui il protagonista della storia di Camus compie le sue azioni discende dalla consapevolezza della sua estraneità al mondo e alla natura, che si traduce, nella vita di tutti i giorni, in gesti meccanici, privi di senso, e, anche se estremi come un assassinio, equivalenti.

Nella prima parte del breve romanzo, Camus riesce a rendere perfettamente questa condizione esistenziale del protagonista con uno stile fatto di frasi concise, che restituiscono l’immediatezza degli atti compiuti. Il lettore comprende appieno ciò che è realmente avvenuto solo nella seconda parte del romanzo, dove si racconta del processo che Meursault affronta e dove Camus, nel ripercorrere tutti gli episodi già narrati, cambia non solo il giudizio su quei fatti, vissuti innocentemente dal protagonista, ma anche la scrittura, che assume uno stile più descrittivo e complesso.

Albert Camus pubblicò nel 1942 per la casa editrice francese Gallimard il suo primo romanzo Lo straniero (titolo originale: L’Étranger) che divenne un classico della letteratura contemporanea e, al contempo, rese l’autore noto al pubblico.

L’assurdo è il tema centrale della narrazione in quanto parte costituente della vita dell’uomo, non tanto per scelta individuale o per sua natura, ma come risultante di forze che introducono una matrice irrazionale nella vita. Ragion per cui assurda è l’epopea di Meursault protagonista del romanzo e prototipo predittivo dell’individuo che sarebbe sorto dopo la mattanza della Seconda Guerra Mondiale.

Il romanzo di Albert Camus è suddiviso in due parti e narra le vicende d’un uomo francese che vive ad Algeri di nome Meursault, ossia un giovane e modesto impiegato apatico e totalmente indifferente alla vita.

Pertanto, affronta la morte della madre con la solita inerzia fisica e psicologica: non versa per lei nemmeno una lacrima. Vive il dramma del momento come se fosse un sogno intervallato solo dal caldo, dalla fame e dalla stanchezza; difatti dopo un estenuante corteo funebre, svoltosi sotto il rovente e conturbante sole nordafricano, la madre viene seppellita mentre lui preserva la propria proverbiale indifferenza.

Al termine dell’incomodo, di ritorno ad Algeri, si reca a fare il bagno al porto della città e lì rincontra Maria Cardona, una sua ex collega di ufficio con la quale riallaccia i rapporti che si tramutano in intimi. I giorni successivi trascorrono in una rapsodia di eventi senza senso e nulla pare essere cambiato. Infatti Meursault esprime totale indifferenza quando Maria gli propone di sposarlo, giacché per lei prova solo una sorta d’attrazione fisica; lui è assolutamente privo di sentimenti.

Una domenica qualunque Meursault e il vicino di casa Raymond Santiès - pur d’infrangere la monotonia della solitudine - passeggiano lungo la spiaggia e incontrano due arabi che da tempo seguono Raymond per vendicare il comportamento molesto di quest’ultimo avuto a nocumento della sorella di uno dei due. Ne nasce una violenta colluttazione al termine della quale viene ferito l’amico del protagonista. Successivamente entrambi ritornano sulla medesima spiaggia dove sono situati ancora i due arabi, mentre l’afa diventa sempre più soffocante. Questa volta il giovane impiegato francese possiede un revolver prestatogli da Raymond, allorché uno degli arabi dopo averlo riconosciuto estrae il coltello e viene rapidamente sparato. Dunque, Meursault in uno stato di semi incoscienza e accecato dalla luce solare uccide uno dei due con un colpo netto, ciononostante infligge altri quattro colpi di pistola sul corpo esanime.

Nel romanzo di Albert Camus a questo drammatico e tragico fatto seguono l’arresto, l’incarcerazione e il processo di Meursault. In prigione viene ridotto ai minimi termini; indifferente a tutto eccetto che al sole cocente e agli impulsi sessuali che lo riavvicinano a Maria, trascorre il tempo tra i ricordi, l’ozio e la noia. Non sembra mostrare alcun rimpianto, né durante l’interrogatorio né durante la detenzione. Durante il processo, in cui si sente spettatore e non parte attiva, testimoniano il direttore della casa di riposo della madre, il portinaio e altri tèste. Il presidente della corte lo interroga sulla vicenda della madre e sull’omicidio dell’arabo. Intanto, continua a mostrarsi estraneo sia alla società sia a se stesso.

Dopo la sentenza, in cella si rifiuta di vedere per ben tre volte il cappellano identificato come simbolo d’una vita ultraterrena in cui non crede. Al dileguarsi del vicario di Dio, Meursault avverte per la prima volta nell’accettazione del suo destino assurdo una sorta di sensazione di pace. Dopo aver sfogato la propria rabbia viscerale inizia a vivere una contraddizione solo apparente, perché si rende conto che soltanto un uomo realmente vivo può morire. A questo punto l’angoscia esistenziale si dipana tra quel suo sottile senso fatale della morte e quel suo impersonale amore per la vita.

Albert Camus attraverso un linguaggio semplice e scorrevole conduce le lettrici e i lettori a immedesimarsi con le vicissitudini del giovane francese, mettendone in evidenza il vuoto emotivo, il clima apatico e lo smarrimento. Difatti la vita alienata di Meursault appare come una sequela di sfortunate coincidenze, di giochi negativi del destino, ossia l’essere nel posto sbagliato al momento sbagliato, sino al parossismo: una condanna a morte.

In lui, così distrattamente vitale e funereo e così spregiudicatamente attonito, non filtra alcuna volontà o ideazione tra la realtà e il proprio mondo emotivo. Vive automaticamente, si trascina passivamente nelle contingenze, non ha guizzi e nella subordinazione e nella nevrosi si propaga la sua fioca vita. L’essere straniero davanti alla sua stessa vita e a quello che compie è una situazione esistenziale di anonimato. Non a caso la frase più frequente nel romanzo è proprio: ça m’était égal - per me era lo stesso. Partire o restare, sposare Maria o non sposarla, amarla o non amarla, essere amico di Raymond o no, andare a Parigi o restare ad Algeri, e via discorrendo. Del resto il titolo stesso del romanzo indica propriamente uno stato di alienazione e la condizione umana del protagonista rimanda in parte ai versi di Ungaretti: «Il mio supplizio / è quando / non mi credo / in armonia».

L’Étranger è il dramma dell’indifferenza in cui il protagonista si rende conto dell’assurdità dell’esistenza: l’umano, ch’è razionalmente proiettato verso certezze, vive una realtà senza fondamenta. Per tale ragione decide di estraniarsi e di non opporsi, quindi, all’esistenza stessa - come Sisifo - accettando incondizionatamente il proprio destino senza sconforto.

Tutta questa insensibilità potrebbe apparire angosciante e atroce se non fosse per il fatto che poiché quanto accade in vita perdura senza spiegazioni e soluzioni, restituisce al soggetto quell’essenzialità - rebus sic stantibus - per giungere a una consapevolezza reale di sé. La rivelazione dell’essere avviene all’unisono con la prefigurazione emotiva della sua ineluttabile anti-logicità e fine.

TAG: #Straniero

Più utile per te: