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Uno Straniero Venuto Dal Tempo: Trama e Riassunto

La storia prende le mosse dalla venuta di uno straniero in un paesino rurale della Germania più tradizionalista, un luogo chiuso e sospeso in cui si eternano usanze secolari.

Lo scopo dello straniero è verificare la produttività della cava che sostenta l’economia del luogo. Lo straniero sa che la cava è esaurita, e che il posto è sull’orlo della decadenza, una situazione che presentono anche gli abitanti allarmati, e che li spinge a comportarsi con il nuovo venuto in maniera ostile.

La storia potrebbe dirsi un’avventura gotica che riassorbe sul piano romantico lo spettro della crisi economica, ma la scrittura di Moster va oltre, muta sfociando nell’onirico.

Perché nel paesino avviene l’omicidio di una ragazza e lo straniero risulta essere immediatamente il sospettato numero uno.

Che sia la venuta del portatore della modernità a scombinare i secolari equilibri locali? Che sia invece una complicata rappresaglia nei confronti dello straniero?

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In un piccolo e prezioso libro costituito da una lunga conversazione tra Thomas Bernhard e Peter Hamm, dal titolo “Una conversazione notturna”, il grande autore e drammaturgo austriaco rivela, tra le tante altre cose, che una delle sue prime esperienze di lettura significative è stata il romanzo di Wolfe (“Ma è stato con Thomas Wolfe che mi sono reso autonomo come lettore, è stato lui il primo ad affascinarmi davvero”), da lui definito “grandioso”, l’opera di un autore “incredibilmente vitale, giovane e intelligente […] che sulla carta era un tornado”.

Proprio la vitalità sembra essere la qualità maggiormente apprezzata da Bernhard in un’opera letteraria: “La maniera in cui qualcuno è in grado di riversare compiutamente sulla carta ciò che sono un uomo e il suo mondo in termini di vitalità. Senza indebolirla in alcun modo. La maggior parte degli autori non scrive niente di vitale o di vivo”.

Wolfe è un tornado e il suo romanzo non potrebbe essere più lontano dalla prosa bernhardiana, dalla musicalità delle sue fughe sintattiche, dalle sue costruzioni razionali che corteggiano l’ossessione e la follia, eppure tra le sue pagine si avverte la stessa energia inesauribile, la stessa incapacità di aderire a modelli precostituiti di sicuro effetto, la stessa intransigenza nei confronti della debolezza di chi scrive per diletto e per ottenere consenso.

Sono autori che non scrivono per compiacere il lettore, scrivono perchè non ne possono fare a meno, si potrebbe dire che sono ciò che scrivono, “si riversano sulla carta” per usare l’espressione bernhardiana e proprio per questo in un primo momento lasciano il lettore interdetto e conquistano solo chi possiede la perseveranza e forse almeno un pizzico della stessa vitalità.

Il titolo del romanzo, “Angelo, guarda il passato” è un verso tratto da “Il paradiso perduto” di John Milton, l’opera richiamata anche dal titolo originario del libro che nella prima versione avrebbe dovuto intitolarsi “O lost”, “Oh perduto”, appunto, un’espressione che compare spesso anche all’interno del testo, come una liberatoria esclamazione finale in sequenze particolarmente intense e fortemente pervase da un’intima e sofferta intonazione poetica.

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Tutto il romanzo è quindi caratterizzato dalla forte allusione al senso di perdita che fin dalla nascita condanna l’uomo ad un destino di inutile ricerca di una pienezza perduta, così come nel poema di Milton l’angelo esegue la condanna che obbliga l’uomo a lasciare il paradiso terrestre, simbolo della pace perfetta, dell’armonia e della piena realizzazione: “Perduto. Capiva che gli uomini erano sempre sconosciuti gli uni agli altri, che nessuno riesce mai a conoscere nessun altro, che, imprigionati nell’utero buio di nostra madre, veniamo alla luce senza averla vista in faccia, che le siamo messi in braccio da sconosciuti, e che, catturati in quella definitiva prigione dell’essere, non ne fuggiamo mai, non importa quali siano le braccia che ci afferrano, quale bocca ci possa baciare, quale cuore ci possa scaldare. Mai, mai, mai, mai, mai”.

Wolfe si riversa nelle interminabili pagine di questo romanzo, senza risparmiarsi e senza risparmiare il lettore, senza curarsi della eventualità di perderlo per strada; riversa sulle pagine la propria vita, dalla nascita nel 1900 fino alle soglie dell’età adulta, delineando anche nel frattempo un vivissimo quadro, in presa diretta, della vita americana - della provincia americana - all’inizio del secolo scorso.

Detto questo, “Angelo, guarda il passato” rifugge dalle classificazioni e non rispetta le regole canoniche dei generi: la materia dell’autobiografia e del romanzo di formazione sembra decantare in queste pagine e disperdersi in mille rivoli, assumendo via via l’aspetto di racconto epico, di poema lirico, di cronaca cittadina, di confessione intima, persino di un repertorio descrittivo di albe e tramonti, nel ripetersi delle stagioni, riproposto giorno dopo giorno ed anno dopo anno con un’intensità ed una delicatezza sempre nuove.

C’è nel cuore segreto di Eugene una profonda irrequietezza, l’attesa impaziente di qualcosa di indefinito, ma di grande e di assoluto che, improvvisamente, possa dare un senso alla vita, nel tempo a lui concesso dal destino, e anche una sorta di stupore nell’assistere alla vita degli altri che sembrano pacificati nei loro ruoli, assuefatti a quello che il senso comune definisce come normalità.

“Tutto ciò che gli stava intorno, vicino ma inesplorato, lo riempiva di desiderio e di brama”, una condizione che non può condividere con nessuno e che si sforza persino di nascondere. Eugene è “un sognatore dell’ideale” e lo insegue con i mezzi a sua disposizione, e poiché discende da una razza di vagabondi e di viaggiatori, si illude nei suoi primi anni consapevoli che diventare esperto del mondo, conoscere più luoghi possibili, lontani dalla cittadina che sente così stretta ed opprimente, possa placare la sua ansia e il suo bisogno di completezza.

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E i suoi giovani occhi cercano il mitico sud americano, una sorta di terra promessa, colma di allettanti misteri: “Così lui, legato alle colline, corona del cielo, che aveva per maestri le montagne, vide per la prima volta il favoloso sud.

Wolfe è uno scrittore generoso che in questo romanzo apre ai suoi lettori le porte dei suoi luoghi più nascosti e, immagino, più cari e a nulla serve lo schermo dell’invenzione letteraria perché la scrittura stessa, così prorompente, così inarrestabile e suadente, rivela la verità di un’esperienza realmente vissuta per lunghi anni formativi.

Perché presto Eugene scopre chi sono i suoi simili, scopre a quale razza appartiene, con chi può condividere la sua ansia di grandezza, e lo scopre nei libri. Da bambino le letture solitarie nella biblioteca della cittadina e poi l’incontro con quella che sarà realmente la sua maestra e la sua guida, “lei che per prima aveva toccato, con la luce, i suoi occhi ciechi, colei che aveva dato un nido alla sua chiusa anima senza casa”.

Sono pagine che trasudano impeti ed entusiasmi giovanili, che rendono conto di un apprendistato letterario e intellettuale, ma che ripercorrono anche la nascita e la crescita di una passione che segnerà tutta una vita.

Narrazioni come quella di Siamo vissuti qui dal giorno in cui siamo nati esulano dal normale psicologismo del romanzo borghese, e si pongono come parabole accessorie, vie laterali dell’immaginazione che portano a significati sepolti nell’inconscio. La realtà viene rappresentata attraverso la dimensione del sogno e dell’allegoria, un’atmosfera nera che in Italia ritroviamo soprattutto in un romanzo molto chiacchierato come Dalle rovine di Luciano Funetta.

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