Albergo Atene Riccione

 

Lo Straniero nel Nuovo Testamento: Un'Analisi Approfondita

Nella Bibbia ebraica (Antico Testamento), il termine "straniero" racchiude tre distinte realtà sociali.

  • L'estraneo (zār)
  • Lo straniero o forestiero di passaggio (nekār)
  • Lo straniero residente per necessità (ghēr)

Il termine "estraneo" (zār), specialmente nel Pentateuco, denota ciò che è profano rispetto al culto autentico.

Nei profeti, questo termine designa i popoli che risiedono al di fuori della terra d'Israele, verso i quali gli Israeliti provano timore ed estraneità (cfr. Is 1,7), arrivando a considerarli temibili nemici (cfr. Is 61.5; Ger 30,8; 51,51; Ez 7,21).

Poi c'è lo "straniero di passaggio" (nekār), che pur non condividendo la fede nel Dio d'Israele, ha diritto all'ospitalità (cfr. Dt 14,21).

Israele può instaurare relazioni commerciali con chi si trova nella sua terra per motivi di viaggio o di commercio, come prestare denaro a interesse (Dt 23,21) o esigere una prestazione personale in pegno per un prestito (Dt 15,1-3).

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Il Deuteronomio vieta che questo straniero di passaggio possa diventare re di Israele (Dt 17,15), ma la storia rivela che la nonna del re Davide (Rut) era una straniera di etnia moabita.

Infine, c'è colui che "dimora come forestiero" (ghēr). Si tratta di immigrati, esuli e di tutte quelle persone sradicate dalla propria terra a causa di guerre o carestie.

In quanto "stranieri residenti", vivono in condizioni precarie, cercando protezione in un'altra comunità (cfr. Dt 24,14; Lv 19,10; Es 22,29 ecc.).

Verso queste persone, il Pentateuco elabora un "diritto dell'emigrato": «Non ti approfittare del ghēr e non opprimerlo, perché voi stessi foste gherim in terra d’Egitto» (Es 22,20) e ne conoscete il respiro sofferente (cfr. Es 23,9).

Se subiscono dei torti, Dio stesso interviene a loro difesa: «Se egli grida verso di me, io ascolterò il suo grido» (Es 22,22).

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Il Signore infatti «rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero, perché anche voi foste forestieri nella terra d'Egitto» (cfr. Dt 10,18-20).

Il Levitico equipara il ghēr agli autoctoni: «come un nativo dei vostri sarà per voi il ghēr che dimora con voi; tu l’amerai come te stesso, poiché foste gherim (forestieri) in terra d’Egitto. Io sono il Signore vostro Dio» (cfr. Lv 19,33-34).

Il ghēr è memoriale della misericordia e della fedeltà di Dio che ha ascoltato e liberato Israele forestiero e schiavo.

Lo straniero residente ha diritto anche al riposo sabatico che differenzia un israelita dagli altri popoli (Es 23,12).

Il Deuteronomio afferma che pure i figli degli egiziani, discendenti del popolo oppressore, se giungono nella sua terra come gherim vanno accolti nella comunità, a pieno titolo (cfr. Dt 23,8-9).

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Il “ritornello” che attraversa molte sue pagine ricorda che l’immigrato non è un intruso ma uno che gli appartiene: è «il tuo immigrato» (Dt 5,14; 24,14; 29,10; 31,12); conduce la sua vita «entro le tue porte» (Dt 14,21; 16,11, 31,12); è «in mezzo a te» (16,11).

Nell'Antico Testamento viene ricordato: "Non molesterai il forestiero né l'opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese di Egitto". Lo straniero, infatti, gode di una vera protezione giuridica.

La ragione del rispetto sta anche nell'esperienza di migrante vissuta e sofferta dal popolo eletto: il popolo è invitato a ricordarsi delle sofferenze passate.

Come dire: proprio perché tu sei stato forestiero in terra altrui e hai visto quanto sia dura tale condizione, cerca di avere comprensione e misericordia verso coloro che fanno questa esperienza nel tuo paese.

L'amore per il forestiero è visto, inoltre, quale imitazione di Dio stesso.

Leggiamo nel libro del Deuteronomio: "Il Signore rende giustizia all'orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito. Amate dunque il forestiero". L'amore per il forestiero è visto, quindi, quale imitazione di Dio stesso.

Emerge così un parallelo tra la concezione che il popolo ha di Dio e la concezione dello straniero. Se Dio ama i deboli, l'orfano, la vedova, lo straniero, noi pure dobbiamo amarli.

Lo Straniero nel Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento aggiunge un passo ulteriore e decisivo a questa visione già straordinaria. Il motivo è cristologico.

Con forte realismo Gesù si identifica con lo straniero bisognoso: «Ero forestiero e mi avete ospitato... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25).

Nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo, quello del “Giudizio Universale”, viene ricordato che chi accoglie il forestiero accoglie Gesù stesso: "Ero forestiero e mi avete ospitato... Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me"

L'accoglienza dello straniero non è una semplice opera buona, che verrà ripagata da Dio, bensì l'occasione per vivere un rapporto personale con Gesù.

L'accoglienza delle straniero è una delle attuazioni dell'amore che è la legge fondamentale del cristiano.

“Ama il prossimo tuo come te stesso” risponde Gesù a chi gli chiede qual è il primo comandamento e “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro” riassumono la Legge e i Profeti nella cosiddetta “Regola d'oro”.

Il Nuovo Testamento afferma che l’unica legge del cristiano è l’amore che non guarda in faccia a nessuno (Lc 10, 29-37; Rm 13,10) e ricorda che la patria dei credenti e, dunque, la loro cittadinanza è nei cieli (cfr. Fil 3,20).

Essi in questo mondo sono pellegrini e stranieri, ospitati nella terra che è Dio: «Vi esorto come stranieri e pellegrini» (1 Pt 2,11) che «non hanno quaggiù una città stabile, ma cercano quella futura» (Eb 13,14; cfr. Eb 11,10-16).

Tutti i credenti in Cristo, poi, sono pellegrini e stranieri in questo mondo: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura.”

Un autore cristiano dei primi secoli descrive l’identità cristiana con queste parole: «I cristiani abitano la propria patria, partecipano a tutto come dei cittadini e però tutto sopportano come stranieri. Ogni terra straniera è la loro patria e ogni patria è terra straniera» (Lettera a Diogneto).

Dunque, come il ricordo di essere stati migranti e forestieri in Egitto costituiva per gli Israeliti un invito all'ospitalità verso gli stranieri, ad avere compassione e solidarietà per coloro che partecipavano alla medesima sorte, così i cristiani, sentendosi pellegrini in questa terra, sono invitati a comprendere le sofferenze e i bisogni di quanti sono stranieri e pellegrini rispetto alla patria terrena.

La Scrittura parla spesso della vita del credente come di un cammino, di una via: nel NT una delle denominazioni che indica i cristiani è «quelli della via» (cf. At 9,2).

L’esperienza di fede e di liberazione fondamentale dell’AT è l’esodo, l’uscita da un paese straniero per porsi in cammino verso una terra che sarà donata dal Signore e di cui si resta in attesa mentre si cammina verso di essa.

Questo cammino è rischioso e pieno di pericoli e si configura come un cammino attraverso un deserto, attraverso una terra che non solo non è di propria appartenenza, ma è inospitale.

Il credente è, potremmo dire, un senza patria. La sua esperienza umana e spirituale avviene proprio in via, lungo il cammino verso la terra promessa, verso il Regno.

In particolare, il cristiano si situa nella storia attendendo la venuta del Cristo nella gloria, camminando verso una meta che sarà solo dono del Signore, quel regno di Dio che è comunione piena con Dio per sempre.

Questo evento escatologico, la parusia, investe la situazione della chiesa nella storia e la colloca nel mondo quale straniera e pellegrina.

Queste condizioni, xenitéia (= stranierità) e paroikía (= peregrinazione), sono costitutive della chiesa, sono criterio discriminante di chiesa e non-chiesa.

E devono rientrare nella vita spirituale, nella fede di ogni cristiano.

Evocare il tema dello «straniero» significa pressoché inevitabilmente, nella società e nella chiesa di oggi, riandare al problema umano e sociale, politico e giuridico degli stranieri immigrati e della loro accoglienza.

Questo è un aspetto rilevante e anche drammatico del problema, e sollecita una risposta da parte del cristiano - più che mai nel contesto attuale di nuove migrazioni di popoli, di spostamenti di masse di profughi e di ridisegnazione dei confini geopolitici di diversi stati, nel quale molte società si configurano sempre più come multietniche.

II problema dello straniero e della sua accoglienza non è davvero semplicemente logistico o sociologico.

E non è neppure solo di ospitalità di colui che per il cristiano è il sacramento del Cristo: «Ero forestiero e mi avete accolto» (Mt 25)!

In profondità, lo straniero mi rivela che io stesso sono straniero. La comunione che si instaura tra gli uomini è sempre comunione fra stranieri, a partire dal riconoscimento di questa stranierità che ci accomuna.

Tu sei lo straniero. Io sono, per te, lo straniero.

Lo straniero pone con acutezza il problema dell’alterità e della comunicazione con 1’altro, e ovviamente, della propria identità: la domanda «Chi è l’altro?» suscitata dall’apparire dello straniero si accompagna subito all’altra domanda: «Chi sono io?».

A questa dimensione antropologica fondamentale il cristiano deve poi aggiungere un ulteriore elemento - spirituale - inerente la rivelazione cristiana. Noi cristiani dovremmo chiederci: abbiamo coscienza che noi stessi siamo stranieri? E ne traiamo le conseguenze a livello pratico?

In questa prospettiva e alla luce di queste domande emerge chiaramente che una risposta al problema dello straniero immigrato nel senso della pastorale, dell’accoglienza o dell’assistenza ai profughi e doverosa, ma rischia di restare estrinseca: mentre accogliamo lo straniero non possiamo dimenticarci che noi stessi siamo stranieri.

Questo infatti è lo statuto del cristiano! La chiesa non è solo quella che accoglie lo straniero, ma lei stessa è straniera e pellegrina.

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